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quattro cariatidi; così indifferenti, così morte al mondo, che non valesse la pena di prenderle in considerazione.

Chi erano? Che cosa aspettavano?

Mistero; buio profondo, come i loro abiti, come i loro veli, come i loro visi.

Il maestro non osò interrogare, convinto che nessuno gli avrebbe risposto. E partì, non senza avere ben frugato con gli occhi penetranti quelle quattro sfingi, e portando seco l’immagine incancellabile di quella scena.

Un anno più tardi, poco prima della sua morte, arrivando a Bergamo secondo il solito per una grande solennità religiosa, il maestro seppe che l’amico presso cui albergava in quelle occasioni era casualmente fuori di città.

Egli si preparava a recarsi all’albergo, allorchè un cospicuo fabbriciere di Santa Maria Maggiore gli offrì cortesemente la propria casa, pregandolo di accettare.

Il fabbriciere abitava in Bergamo alta, dalle parti di via Salvecchio, una di quelle antiche case dall’aspetto medioevale, che serrano il cuore al solo vederle.

Era la vigilia della festa.

Fatte alcune visite in Bergamo bassa, due o tre giri sul Sentierone, il maestro salì, verso il tramonto, alla casa del suo ospite.

Ma, fosse l’ora, fossero i nervi, od altre cause fisiologiche o psicologiche, Ponchielli fu impressionato come in nessuna altra occasione, dalla tristezza e dalla desolazione dell’antica città.

Egli saliva malinconicamente quelle vie deserte, ascoltando il rumore dei propri passi, rimbombanti nel silenzio; saliva, avviluppato da quella tetraggine medioevale che gli penetrava le viscere. Le rare persone che incontrava gli parevano