Nella nebbia/Il primo incontro col mostro

Il primo incontro col mostro

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Il primo incontro col mostro
Nella buona società La Cristina

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IL PRIMO INCONTRO COL MOSTRO.


L
a mamma aveva spento il lume da una mezz’ora con la solita intimazione:

— E ora, basta ciarlare! — fatta a me e a Lina.

Lina si era subito voltata dall’altra parte; io non riescivo a pigliar sonno. Nella camera buia, i miei occhi spalancati guardavano l’oscurità e vedevano un mondo d’immagini e di fantasmi. Marino era stato con noi tutta la sera e la mamma gli aveva dato a leggere la lettera del babbo che acconsentiva alla sua domanda e fissava il nostro matrimonio per quest’autunno, quando lui sarebbe tornato a Milano. Era stata una serata allegra per tutti. Lina aveva suonato benissimo il suo Beethowen e Marino aveva cantato la romanza del Trovatore.

La mamma, che non rideva quasi mai dacchè il babbo aveva dovuto allontanarsi dalla casa, si era messa di buon umore all’idea del vicino ritorno di lui, e della mia felicità assicurata. Io sola ero come oppressa dalla mia gioia: sentivo il bisogno di raccogliermi e di assaporare tutta la dolcezza di quel momento. Mi pareva che quello fosse il punto più luminoso, più alto della felicità mia; oltre il quale non si poteva salire, perchè la via s’allargava in un vasto piano [p. 62 modifica]inondato di sole, sparso d’alberi e di fiori, e tanto vasto che io non potevo vederne la fine, e mi faceva provare un senso di sacro terrore. Amavo Marino da quasi due anni, e ne avevo diciotto: vale a dire che mi pareva di averlo amato sempre.

Da principio il babbo si era opposto, perchè Marino aveva solo tre anni più di me, e a lui parevano pochini. Ma poi, vedendolo così buono e costante e studioso, si era lasciato convincere. Io non avevo mai dubitato che questo dovesse avvenire; eppure, dacchè il mio sogno prendeva forma di cosa vera, mi pareva inaspettato, insperato: meno vero di prima. Ripensavo al passato così vicino, vivevo come in riepilogo le ore d’incertezza e di scoramento vissute lentamente: mi pareva che la mia felicità fosse stata sospesa ad un filo e soffrivo con l’immaginazione tutto il male che avrei sofferto, se quel filo si fosse rotto, se Marino non si fosse messo a posto così presto e bene: se il babbo avesse continuato a credere che non era un marito per me. Che cosa avrei fatto?... Che ne sarebbe stato della mia vita?

Con questi pensieri continuavo a voltarmi e rivoltarmi nel letto, mentre Lina dormiva profondamente. Mi ero appena un po’ quietata, allorchè una grande scampanellata mi fece balzare in aria, con un grido disperato che non potei frenare. Anche Lina si svegliò subito. Ma la mamma che forse non aveva dormito, al pari di me, ci disse dalla sua camera, di star tranquille, che probabilmente era uno sbaglio. Intanto però, a buon conto, ella scese dal letto ed accese il lume. Il campanello tornò ad agitarsi e mandò uno squillo recisamente imperioso. Mi sentii gelare. Lina si strinse al mio braccio. La mamma si era fatta all’uscio di casa, e, [p. 63 modifica]prima di aprire voleva sapere chi era, e cosa volevano a quell’ora.

Un telegramma!

Io presi la carta presentatami dal fattorino e firmai la ricevuta quasi come in un sogno. Guardavo il misterioso dispaccio senza romperne il suggello, trattenuta da quella paura dell’ignoto che assale ogni cuore di donna dinanzi ad un telegramma non aspettato. Gli uomini ci sono avvezzi, loro: hanno tutti più o meno affari; ma per noi donne il dispaccio telegrafico è quasi sempre un visitatore temuto, al quale si legano impressioni penose, ricordi lugubri.

Finalmente la mamma aprì la busta e lesse le due o tre linee di stampato.

Ah! il cuore non mi aveva ingannata!

Veniva da Torino quel dispaccio, ma non era del babbo. Un amico di lui ci annunciava, in quello stile oscuro e brutale ad un tempo, che il babbo era ammalato, e ci pregava di recarci subito presso di lui.

Ammalato?... Se ci aveva scritto il giorno avanti, se stava bene!

Era possibile?...

Istintivamente ci si stropicciò gli occhi e si tornò a rileggere. Diceva proprio sempre a quel modo! Bisognava partire subito.... Subito?... Quando subito?... Era suonata la mezza dopo le dodici.

— A che ora parte la prima corsa? — domandò la mamma che pareva smemorata.

Lina si ricordò di aver letto che per comodo dei viaggiatori era stata fissata una corsa nuova, alle tre del mat[p. 64 modifica]tino. Vestendoci subito si aveva tutto il tempo. E si cominciò a vestirsi, tremando di freddo, nella casa piena di ombra; perdendo tempo a cercare gli oggetti più famigliari, urtandoci l’una con l’altra.

La mamma non riesciva ad agganciare le molle del busto causa il tremito delle sue mani, Lina si era vestita tutta dimenticandosi d’infilare le calze. E ogni tanto una di noi si fermava domandando con voce rauca:

— Ma che cosa sarà successo?...

— Che cosa pensate voi altre?

— Tu, Laura, che ti dice il cuore?

— Tu, Lina, che sei la più giovane, dì, bimba mia, non sarà mica morto il babbo?...

— Morto! — esclamò singhiozzando la bimba che non ci aveva pensato ancora: — Morto! oh! il mio babbo!

Questo grido dell’anima rimbombò come una martellata nelle nostre teste indolenzite, nel silenzio della notte.

Ci sì buttò a piangere tutte e tre insieme abbracciate. I nostri nervi si calmarono un poco. Era il tocco e mezzo. Si fecero con più discernimento gli ultimi preparativi.

Morto, no, non poteva essere! Avrebbero scritto. Forse era caduto; si era fatto male; voleva vederci. Forse, l’amico esagerava. Finalmente fummo pronte. Si chiuse la casa. Io depositai un biglietto sul finestrino della «portineria» per avvertire la donna di servizio. A Marino avremmo scritto poi, con più pace. La mamma aveva detto che non era il caso di spaventarlo anche lui che doveva lavorare. La notte era fredda e piovigginava. Si andò alla prima stazione di vetture e ci si fece portare alla «Centrale».

Arrivammo più di quaranta minuti prima della partenza, [p. 65 modifica]e poichè quello era il primo treno del mattino, e l’ultimo era partito intorno alla mezzanotte, la stazione era chiusa; il gran faro della luce elettrica, spento.

Il vetturino ci lasciò sole nella immensa piazza deserta e buia, piena di nebbia.

In quel silenzio, che i rumori lontani e confusi rendevano più opprimente: in quella notte profonda; con l’anima aperta a tutte le impressioni tristi, a tutte le immagini desolanti, mi pareva di essere in un deserto, lontanissimo dai miei simili — quasi nel mondo fantastico delle ombre. Un cupo terrore s’impadroniva del mio spirito. Ma non pensavo al babbo in quel momento. Pensavo a Marino che mi credeva a casa tranquilla nel mio letto, mentre io ero là in quell’angoscia. Mi pungeva che non si fosse potuto avvertirlo. Se fosse stato là, vicino a noi, quanto avrei sofferto meno!

Lina, stanca, assonnata, si mise a sedere sugli scalini e si appisolò, con la testina sulle ginocchia.

Vedendola così, raggomitolata, piccina, tutta tremante di freddo, la mamma ebbe un nuovo scoppio di pianto.

— Povera bimba! — mormorava di tratto in tratto: — povera bimba!...

Finalmente alla stazione si rifecero vivi. Si sentirono delle voci confuse, dei passi rimbombanti nella sala vuota.

Giù, in fondo, tra gli alberi, apparvero due occhi gialli; poi altri due; poi una fila. La porta della stazione si spalancò con fracasso: il gran faro tornò a brillare. Poco dopo cominciò la distribuzione dei biglietti; e la mamma diede a me i denari per andare a prenderli.

Quando il treno si mise in movimento, Lina ricadde nel suo sonno. La mamma mi prese le mani e me le strinse [p. 66 modifica]forte, accostando la faccia per vedermi bene negli occhi, al fioco lume della lampada.

— Laura! — mormorò senza articolare: — Laura!... ho paura!...

Volevo dirle che non c’era ragione; ma non trovai parole.

Rimanemmo alcuni istanti così, guardandoci irrigidite, scrutandoci nel fondo dell’anima.

Eravamo sole nello scompartimento.

A poco a poco la mamma si rianimò, parlandomi di suo marito in un modo affatto nuovo per me, come avrebbe fatto con un’amica.

Lo aveva amato, lo amava ancora tanto, tanto, di un amore rinchiuso, forte. S’era sposata giovanissima, prima di avere provata la più piccola simpatia di fanciulla: un matrimonio combinato dai parenti. Ma vivendo con lui, imparò a conoscerlo, ad apprezzarlo, e lo amò; meglio: se ne innamorò pazzamente. Non avrebbe voluto separarsi da lui un solo istante. Quando pensava alla morte s’augurava sempre di morire prima lei, per non provare il dolore di perderlo; e lui la rimproverava dolcemente di essere troppo egoista. Avanzando negli anni e avendo me già grande, ella aveva cercato di dare al suo affetto una forma più calma e severa, per rispetto al suo carattere di madre; per questo aveva condisceso alla partenza di lui, a quel tentativo di migliorare le condizioni della famiglia: aveva considerato questa cosa quale un dovere verso di noi figliuole; ma quanto a lei sarebbe morta piuttosto....

Albeggiava. Le ombre sparivano. Il treno usciva trionfante dalle tenebre della notte e correva allegramente nella luce argentina. [p. 67 modifica]

Io mi sentivo rinascere.

Lina si svegliò: ci guardò: guardò il sole; e sorrise.

— Il babbo sta meglio, eh? — domandò ingenuamente.

— Speriamo! — sospirò la mamma.

La speranza era in noi.

Alla stazione di Torino nessuno ci aspettava. Parve un buon segno. Erano intorno a lui gli amici! Si prese un legno chiuso. Ci si fece condurre alla casa dov’egli abitava.

Ah! la prima persona in cui c’imbattemmo — uno scultore nostro amico — troncò con uno sguardo tutte le nostre speranze.

Gli fummo addosso affannate. Che cosa era successo? Stava meglio, vero? Dicesse qualche cosa!

Rimase muto: era tanto commosso che non poteva parlare.

La mamma non pronunziò la parola terribile che errava sulle sue labbra, e schizzava dai suoi occhi. Indovinai che taceva per una sorte di terrore superstizioso.

A un tratto ci voltò le spalle e si gettò correndo dentro la casa, nelle stanze a terreno che il babbo occupava. Prima che la raggiungessimo un urlo disperato ci agghiacciò.

Ah! quell’urlo! Non lo dimenticherò finchè vivo.