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e poichè quello era il primo treno del mattino, e l’ultimo era partito intorno alla mezzanotte, la stazione era chiusa; il gran faro della luce elettrica, spento.

Il vetturino ci lasciò sole nella immensa piazza deserta e buia, piena di nebbia.

In quel silenzio, che i rumori lontani e confusi rendevano più opprimente: in quella notte profonda; con l’anima aperta a tutte le impressioni tristi, a tutte le immagini desolanti, mi pareva di essere in un deserto, lontanissimo dai miei simili — quasi nel mondo fantastico delle ombre. Un cupo terrore s’impadroniva del mio spirito. Ma non pensavo al babbo in quel momento. Pensavo a Marino che mi credeva a casa tranquilla nel mio letto, mentre io ero là in quell’angoscia. Mi pungeva che non si fosse potuto avvertirlo. Se fosse stato là, vicino a noi, quanto avrei sofferto meno!

Lina, stanca, assonnata, si mise a sedere sugli scalini e si appisolò, con la testina sulle ginocchia.

Vedendola così, raggomitolata, piccina, tutta tremante di freddo, la mamma ebbe un nuovo scoppio di pianto.

— Povera bimba! — mormorava di tratto in tratto: — povera bimba!...

Finalmente alla stazione si rifecero vivi. Si sentirono delle voci confuse, dei passi rimbombanti nella sala vuota.

Giù, in fondo, tra gli alberi, apparvero due occhi gialli; poi altri due; poi una fila. La porta della stazione si spalancò con fracasso: il gran faro tornò a brillare. Poco dopo cominciò la distribuzione dei biglietti; e la mamma diede a me i denari per andare a prenderli.

Quando il treno si mise in movimento, Lina ricadde nel suo sonno. La mamma mi prese le mani e me le strinse