Naufraghi in porto/Capitolo XVII
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XVII
La sera di luglio calava tranquilla coi suoi luminosi veli azzurri. Costantino stava seduto sulla panca di pietra addossata alla casa del pescatore, e contava sulle dita, pensieroso.
Sì, da sessantaquattro giorni, era ritornato. Da sessantaquattro giorni. Pareva ieri; pareva un secolo. Il suo abito di fustagno s’era logorato, il suo viso s’era fatto scuro; ed anche il suo cuore, ecco, anche il suo cuore, di giorno in giorno, d’ora in ora, corroso dal dolore, dal rancore, dalla passione, si faceva scuro come una cosa vicina a corrompersi.
Dalla reclusione aveva portato con sè l’abitudine di fingere; non sapeva perchè, ma non riusciva a confidarsi con nessuno, mentre ne sentiva il bisogno; e questa finzione accresceva il suo dolore. Un vuoto infinito e gelido lo circondava, come un mare calmo ma senza rive circonda un naufrago. Da due mesi egli nuotava in questo mare; e adesso era stanco, stremato di forze: la sua anima, per quanto guardasse intorno, nelle desolate lontananze, non scorgeva riva, non vedeva la fine della sua inutile lotta: e l’acqua fredda e il gorgo del vuoto lo inghiottivano lentamente.
Ogni giorno parlava di andarsene e non se ne andava mai. Era una finzione come tutte le altre; egli sentiva che non se ne sarebbe andato mai. Perchè andarsene? Di là o di qua dal mare per lui la vita era la stessa. Non amava nessuno, non odiava nessuno: gli pareva di essere diventato vile come lo erano quelli che aveva lasciato nel luogo di pena. Zio Isidoro, verso il quale aveva da lontano conservato un vivo affetto, ora da vicino, nella comunanza della vita quotidiana, gli riusciva indifferente e qualche volta molesto. Quando il vecchio era lontano, occupato nelle sue pesche e nei suoi viaggi (perchè doveva viaggiare per spacciare i prodotti delle sue piccole industrie), Costantino si sentiva come liberato da un peso; la vigilanza paterna del vecchio lo irritava e lo intimoriva.
Quella sera il pescatore non stava in paese, e Costantino provava appunto quel senso di liberazione. Oh, ecco che poteva fare quello che gli pareva e piaceva, senza sentire prediche da nessuno, senza provare quell’istinto di timore e di irritazione, ricordo della vita del reclusorio, che la presenza del vecchio bastava a ridestare.
Aspettava una donna. Gli sembrava di disprezzare le donne, e realmente provava disgusto a star con loro, eppure aveva stretto relazione con una ragazza un po’ idiota che abitava poco discosto dalla casa di Giovanna, e che una notte, nel sorprenderlo vicino al portico dei Dejas, l’aveva attirato a casa sua.
Ella gli raccontava tutti i pettegolezzi di casa Dejas, ed egli andava da lei ogni volta che qualcuno lo vedeva passare vicino allo spiazzo; oppure l’aspettava in casa di Isidoro, quando il vecchio era assente; ma la disprezzava e le teneva dei discorsi strani.
Anche quella sera, quando ella venne, egli non si mosse dalla panca di pietra, e pretendeva che ella gli si sedesse accanto.
— Dentro c’è caldo, ci son pulci, ragni, diavoli. Rimani qui, al fresco, — le disse, senza guardarla.
— Ma ci vedono! — ella rispose, con una voce bassa e grossa.
— Ebbene, e se ci vedono? A me importa niente; ed a te che deve importare?
— M’importa assai, invece!
Egli alzò la voce.
— Che t’importa degli uomini, se essi ti vedono? Essi sono tutti peccatori. E Dio ci vede tanto dentro che fuori.
— Andiamo, tu hai bevuto! — ella disse senza irritarsi; ed entrò nella casetta. Accese il lume, guardò nel ripostiglio dei viveri, e poichè Costantino non entrava, si affacciò alla porta e disse:
— Se non vieni me ne vado. Bada, ho da dirti una cosa.
Egli s’alzò di scatto, entrò e l’abbracciò: ella cominciò a ridere pazzamente.
— Ah! Ah! Ecco che sei venuto... ah! Ti ho fatto venire subito, agnello scorticato! Ah! eh!... eh!...
Era alta, grossa, con la testa piccola, il viso minuto, d’un bruno acceso, la bocca rossa e gli occhi glauchi; non brutta eppure ripugnante. Non beveva mai, ma sembrava sempre ubriaca ed aveva la fissazione che tutti lo fossero. Continuò a ridere, e tornò a guardare nel ripostiglio.
— Non c’è niente, — disse, proprio niente. Io ho fame, sai?
— Se aspetti un momento, vado a prendere qualche cosa. Ma prima bisogna che tu mi dica...
Ella gli si volse contro, e cominciò a spingerlo mettendogli una mano sul petto, e con l’altra dandogli pugni tutt’altro che scherzosi.
— Ah, tu vuoi sapere... oh, coccodrillo, tu vuoi sapere?... Perciò sei entrato subito? Va, ritorna al fresco, agnello magro! Tu vuoi sapere? Tu credi si tratti di Giovanna Era, eh? e sei entrato per ciò, non sei entrato per me!...
— Lasciami, — egli disse, afferrandole la mano. — Tu picchi forte, che il diavolo ti picchi. Sì, sono entrato per ciò. Ebbene?
— Ed io non ti dico nulla, ecco!
— Mattea, non farmi adirare! — egli disse, con voce dolce. — Tu non sei cattiva. Ora vado... vado e compro quello che tu vuoi: cosa vuoi che compri? Che cosa?
Sembrava un bambino che si finge buono per ottenere ciò che desidera. Ed in quel momento desiderava acremente qualche cosa di acerbo, di crudele: desiderava la notizia che Brontu avesse bastonato Giovanna, o che ella si fosse fatto un male qualunque, e che una gravissima disgrazia fosse accaduta in casa Dejas. Rimase quindi poco contento quando Mattea gli disse, socchiudendo un occhio:
— Hanno loro rubato del bestiame; appena seppe la disgrazia, la vecchia è partita come una pazza per accertarsi del danno. Passerà la notte nell’ovile, e tua moglie è sola, intendi, sola.
— Che m’importa? — egli disse: ma si sentì balzare tutto il sangue alla testa pensando fosse Giovanna stessa a mandare Mattea.
— Stupido, tu puoi andare da lei: tu non andrai dunque? Io sono venuta per dirtelo. Va, mi fa piacere, perchè ho pietà di te... Dopo tutto tu sei suo marito.
— Io non sono marito di nessuno, — egli disse alzando le spalle. — Ah, credevo avessi da dirmi tutt’altro! Dunque, cosa vuoi che compri? Fave, latte, lardo, ciliegie?...
— Sposa dunque me, se non sei marito di nessuno, — disse Mattea con la sua voce bassa, grossa e incerta da ubriaca.
Costantino raschiò e sputò.
Gli occhi di lei, di solito vaghi e stupidi, ebbero un lampo di intelligenza: la sua fronte si corrugò.
— Perchè sputi? — domandò con voce aspra. — Giovanna è forse migliore di me?
Egli arrossì; poi un velo di tristezza gli calò sul cuore.
— Tu, — disse — tu sei peggiore o migliore di lei.
— Come?
— Se in questo momento non mentisci, se non sei venuta per tendermi un’insidia col dirmi che ella è sola, sei migliore di lei.
— Perchè dovrei tenderti un’insidia? Io ho pietà di te. Ti giuro sopra, la memoria dei miei morti che se tu vai da lei, stasera, non corri alcun pericolo.
— Chi vi può credere, femmine? Voi non rispettate neppure i morti.
Mattea accennò ad andarsene, offesa ed irritata: egli la trattenne.
— Il cane vile! — disse lei con disprezzo. — Io ho pietà di te, e tu mi frusti. Che hai tu da rimproverarmi? Che cosa, dunque?
Sollevò la lesta con fierezza, mostrando la fronte corrugata: i suoi occhi erano nuovamente pieni d’intelligenza. Egli la guardò, sbalordito che una simile donna parlasse così, che sollevasse la fronte, che osasse guardarlo in quel modo: poi si mise a ridere.
— Io vado, adesso, — ripetè, — vado e torno subito. Prendo anche del vino, sebbene tu non beva. Aspettami. A-spet-ta-mi! — le impose brutalmente, poichè Mattea lo seguiva. — Non mi seccare.
Elia si fermò dietro la porta; egli uscì, ma aveva fatto pochi passi quando sentì la voce grossa di lei richiamarlo.
Tornò indietro fino alla porta nel cui spiraglio illuminato si vedeva il naso di Mattea ed uno dei suoi occhi ridiventati stupidi.
— Che vuoi, capra guercia?
— Se tu vai da lei è inutile farmi aspettare qui.
— Al diavolo chi ti ha fatto! — imprecò Costantino con voce sincera. — Io penso d’andar da lei quanto tu pensi d’andare in chiesa.
Quando rientrò, pochi minuti dopo, non trovò più la strana ragazza. Credette si fosse nascosta e la cercò, chiamandola a bassa voce, dicendole che aveva comprato del pane e carne e frutta: ma ella se n’era andata davvero. Un gran silenzio regnava intorno alla casetta: solo le foglie del fico frusciavano misteriosamente, nere sullo sfondo incolore dell’aria: parevano di stoffa metallica, scosse da una mano invisibile.
Costantino si sentì molto contrariato per la sparizione di Mattea. Solo come un cane, che poteva fare per il resto della sera? Non aveva sonno, tanto più che nel pomeriggio aveva lungamente dormito; e non sapeva dove andare.
Si mise a mangiare ed a bere, e di tanto in tanto parlava con voce alta e dispettosa.
— Se ella crede che io vada da lei sta fresca.
Silenzio. Poi:
— Fresca come una rosa in primavera. È pazza, lei!
Ancora silenzio. Poi:
— Nè dall’una nè dall’altra. Mi fa schifo Mattea. Mi dà l’idea di una bestia. Ecco tutto.
Poi imprecò. Poi rise, di quel riso lieve e vago che si ride quando si è soli.
Intanto beveva a lunghi sorsi; ed ogni volta che finiva il bicchiere esclamava — aaah! — e si passava più volte le mani sul petto. Dopo si sentì quasi allegro.
— Che essa vada all’inferno. Che essa vada al diavolo.
Così diceva di tanto in tanto, pensando a Mattea, ma si accorgeva di pensare dispettosamente a lei per non pensare all’altra. Poi uscì fuori, si sdraiò sulla panca di pietra e s’abbandonò al suo vero pensiero.
— Essa è sola. Ebbene, che mi importa? Io la disprezzo, e non andrei da lei anche se mi desse una casa piena d’oro. Che ho da farmene dell’oro?
Si fece questa domanda con profonda tristezza; ma subito dopo si mise a canticchiare perchè gli avveniva una cosa del resto non insolita: fingeva con sè stesso come fingeva con gli altri.
“Choricheddu, core amatu, |
Per un po’ la sua voce monotona e vaga lo distrasse: ma poi i suoi pensieri ripresero il loro corso.
— Se io andassi là, ebbene, che accadrebbe? Un peccato, forse? Non sono io suo marito? Ma io non posso andarci. Macchè! Mi fa ridere zio Isidoro, il vecchio stupido. — Vattene! Vattene! Vattene! (Imitava la voce sonora del vecchio). — Vattene, altrimenti succede un guaio. Brontu Dejas vi potrebbe ammazzare perchè lui non va in chiesa e non perdona. Ebbene, e poi?
Tornò a canticchiare: il fruscio aspro delle foglie del fico accompagnava la sua voce vaga e monotona.
“Cando as a bider sa ua |
Cambiò posizione, chiuse le palpebre pesanti; la sua testa dondolava alquanto sulla palma della mano che la sosteneva.
— Ebbene, e poi? — disse a voce alta. Spalancò gli occhi come spaventato dalla sua voce, li richiuse, parlò dolcemente fra sè: — No. Io non la vorrei più con me, come moglie. Per me, ella è una donna perduta: ella è stata con un altro uomo e come è stata con lui può tornare a star con me e può andare a star con altri. Ella è come Mattea: io le sputo entrambe in viso.
Riaprì gli occhi e sputò davvero, tanto era il disprezzo che in quel momento sentiva per Giovanna. Eppure, ricordi teneri e lontani gli passavano nella mente. Ricordò un bacio che aveva dato a sua moglie, un giorno, mentre essa dormiva: ed ella, aperti gli occhi un po’ spaventati aveva detto: credevo fosse un altro!
Ebbene, che sciocchezze andava ricordando? Era uno stupido, null’altro che uno stupido. D’altronde sapeva egli se Giovanna, caso mai egli andasse davvero lo accogliesse o lo respingesse?
Desiderò che ella non lo accogliesse. Sentì che egli doveva vivere e soffrire ancora, ma che, se egli andava ed ella non lo accoglieva, forse un raggio di luce sarebbe ancora sceso nel vuoto gelido che lo circondava. Eppure egli la voleva, la desiderava ancora: non aveva mai cessato un momento di volerla, di desiderarla; però sul suo desiderio soffiava, smorzandolo, qualche cosa di spirituale. Egli sognava ancora una Giovanna onesta, perduta per sempre in questa vita terrena, ma riservata a lui nella vita eterna. Ora se ella tradiva anche il secondo marito, sia pure col primo, non era onesta. Eppoi non era questo il più profondo segreto della sua coscienza. Il più profondo segreto della sua coscienza era ch’egli considerava Brontu Dejas il vero marito di Giovanna.
Eppure...
Potevano esser le dieci, ed egli stava ancora sdraiato sulla panchina, quando un suono melanconico passò per l’aria. Era il giovine cieco che in lontananza suonava la fisarmonica, accompagnando un canto sonoro ma monotono e triste come il canto d’un morto svegliatosi nella notte. Una nostalgia sovrumana, come quella che appunto devono provare i morti ricordando le poche ore felici della loro vita, piangeva nel canto e nel suono: sopratutto nel suono, che ansava e gemeva, e chiedeva la luce, la gioia, la felicità, le cose tutte che il cieco sogna e non giungerà mai ad avere, che il morto ha lasciato e non ritroverà mai più.
Costantino rabbrividì e si alzò.
Il canto ed il suono passarono, dileguarono lontano, più lontano ancora, cessarono.
Costantino sentì un’onda di tenerezza e di angoscia coprirgli il cuore. Nel buio, nel silenzio infinito e nella solitudine immensa che lo circondavano, sentì il bisogno prepotente del cieco che vuole la luce; la nostalgia del morto che ricorda la vita. E s’avviò.
Sul principio gli parve di camminare in sogno, sebbene sentisse distintamente sotto i piedi il crepitio delle foglie secche e della stoppia che il vento aveva adunato intorno alla casetta di Isidoro; e gli occhi abituati al buio vedessero la linea chiara dello stradale, le casette nere, lo sfondo vuoto dell’orizzonte: poi gli parve di svegliarsi e affrettò il passo.
Qua e là, davanti alle casette dove la povertà non permetteva s’accendesse il lume, stavano gruppi di persone sedute a godersi il fresco. Egli salutava e passava oltre. In un angolo deserto vide due figure d’innamorati; l’uomo cercò di nascondere la donna, e questa volse la faccia verso il muro.
Per spaventare i due giovani Costantino fu tentato di gridare:
— Ora vado a dirlo a tuo padre!
Ma anche lui aveva paura di essere spiato: e passò oltre.
Quando distinse la massa nera del mandorlo affacciato sullo stradale, di là dalla casa di zia Bachisia, il cuore gli si agitò convulso; gli sembrava di vedere una grande testa nera dai capelli selvaggi, intenta a spiarlo in lontananza.
Egli aveva deciso di andare oltre, di attraversare lo spiazzo, di penetrare nella casa dei Dejas, di veder Giovanna: tutto gli sembrava facile, e si sentiva preparato a tutto, eppure aveva paura. Più che paura terrore. Sentì una voce flebile di ragazza dire lentamente:
— Per quanto tu dica non è vero...
Guardò attorno e non vide nessuno; andò oltre, ma ad ogni passo la sua ansia aumentava. Attraversando lo spiazzo guardò la casetta di zia Bachisia, poi la casa bianca, poi la casupola di Mattea. Il finestrino di quest’ultima abitazione era illuminato: tutto il resto buio. Pensò ancora una volta che Mattea avesse agito per conto di Giovanna; ma potesse anche averlo ingannato, o che zia Bachisia fosse presso Giovanna, o che Giovanna dormisse già e non aprisse; ma senza esitare penetrò sotto il portico. E subito distinse la figura di Giovanna seduta sul gradino della porta.
Anche lei lo riconobbe subito; e balzò in piedi, rigida di terrore; ma la voce cauta e turbata di lui la rassicurò.
— Non aver paura. Sei sola?
— Sì.
E subito si abbracciarono.
FINE.