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compagnando un canto sonoro ma monotono e triste come il canto d’un morto svegliatosi nella notte. Una nostalgia sovrumana, come quella che appunto devono provare i morti ricordando le poche ore felici della loro vita, piangeva nel canto e nel suono: sopratutto nel suono, che ansava e gemeva, e chiedeva la luce, la gioia, la felicità, le cose tutte che il cieco sogna e non giungerà mai ad avere, che il morto ha lasciato e non ritroverà mai più.
Costantino rabbrividì e si alzò.
Il canto ed il suono passarono, dileguarono lontano, più lontano ancora, cessarono.
Costantino sentì un’onda di tenerezza e di angoscia coprirgli il cuore. Nel buio, nel silenzio infinito e nella solitudine immensa che lo circondavano, sentì il bisogno prepotente del cieco che vuole la luce; la nostalgia del morto che ricorda la vita. E s’avviò.
Sul principio gli parve di camminare in sogno, sebbene sentisse distintamente sotto i piedi il crepitio delle foglie secche e della stoppia che il vento aveva adunato intorno alla casetta di Isidoro; e gli occhi abituati al buio vedessero la linea chiara dello stradale, le casette nere, lo sfondo vuoto dell’orizzonte: poi gli parve di svegliarsi e affrettò il passo.
Qua e là, davanti alle casette dove la povertà non permetteva s’accendesse il lume, stavano gruppi di persone sedute a godersi il fresco. Egli salutava e passava oltre. In un angolo deserto vide due figure d’innamorati;