Moniti
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XXVI
MONITI
Vade comes invenum: sed lectis auribus hauri |
Diversamente all’uom le tre sorelle
torcon, chiuse nell’aria, il fuso d’oro;
e la giornata, com’Esiodo canta,
una volta è matrigna, un’altra è madre.
5Tu, se stolto non sei, prendi da Giove
i beni e i mali; né indignarti in nulla,
né querelarti. È un servidor lo sdegno
orbo degli occhi, che follie consiglia,
e la vana querela una fantesca
10che di ciance indefesse empie la casa
né bada ad altro. Il debito a’ celesti
non indugiar; fa’ le giustizie; aiuta
il tuo vicin di tegolo: una mano
pulisce l’altra e due lavano il viso.
15Poi, chi sparge raccoglie. Onesta donna
scegli al tuo lare; e, pria di farlo, annusa
i parer della villa e spia guardingo
l’atrio ov’è nata. Coi fanciulli e i vecchi
verecondo favella: il dio custode
20delle stirpi t’ascolta. Al tuo bisogno
conta il peculio e, poi ch’ogn’anno ha un verno,
pensa a’ foraggi, e t’erudisca il giro
della formica. Per imbratto o polve
si corrompe ogni panno e fin la nostra
25corporea veste: a’ roridi lavacri
dá’tu le membra, od Espero s’infiori
o splendan l’Orse: in Pindaro si legge
ch’ottima è Pacqua. Aspira aria con luce
sull’ora mattutina: ebbe in quell’ora
30nascimento l’Olimpo, e i gran disegni
spuntan da quella. In candide parole
appalesa il pensier, ma non usarne
di troppe mai: chi parla arguto e breve
domina i molti, ed a’ piú rari è in pregio.
35Contien’fra’ denti le sentenze tue
su cosa od uom: chi le riporta, ha spesso
falsi i ricordi o l’anima maligna.
Buona scorta al futuro è la speranza;
ma non dir quattro se non l’hai nel sacco,
40ché piú amaro del tosco è il disinganno.
Dimori alla cittá? Schiva la lupa
e lo strozzin, due detestati spettri
del mondezzaio; non lanciarti in lite
collo staffier, che l’insolenza impara
45dal suo matto padrone. Abita in parte
non invasa da tempo e da ruina
se la notte non vuoi tenia né topo
sentir nel muro o coccoveggia ai tetti.
Sosta a’ pilastri, ov’è stampato il senno
50del municipio, e a’ consoli tardivi
scarso t’affida; e, quando giungi a sera,
fortemente asserraglia il tuo penate,
ché quanti ha la cittá fornici e bische,
tante ha cerne di ladri e mozzorecchi.
55Pellegrinando dai siderei regni,
tratto tratto qualcun degl’immortali
va per la terra; ma l’ambrosio capo
piuttosto ai muschi della valle adagia,
o all’aperto del monte, e gli s’oscura,
60guardando alle cittá, l’aura del viso.
Dimori ai campi e consultar t’approda
l’ora del tempo? Tel sa dir la rana
del fossatello, o il voi della cornacchia,
o, sospesa alle tue tiglie, la gaia
65rondine o il chiaro vento alla foresta;
ché, in servigio deH’uom, Giove alle belve
die’ profetici istinti e spirto e voce
alla nuvola, all’aria ed alle stelle.
Hai novali del tuo? Semina e mieti.
70quando la gru che naviga per Paltò
con suo fil te ne avverte, o la cicala
che con la pancia in su dentro i maggesi
canta alla luna. Hai sacro arbor d’oliva
o di vite a potar, che ti ricangi
75di grappoli e di bacche? Al tempo attendi
che fiora il biancospini né piú le scalza,
quando bavosa su pei tronchi repe
la lumachella. Son precetti antichi,
che la nova dottrina ancor dall’uso
80non cancellò. Se nulla hai di cotesto,
ed in paterna povertá sei nato,
l’anima innalza, e fa’ col tuo cervello,
e con le mani tue l’opra che basti
a darti il pane: il pan sotto le stelle
85è cibo sacro, se noi mangi in ira,
ma ringrazi gli dèi che te lo danno
senza colpa o vergogna. Odia tre cose
piú che il morbo, la Parca e PAcheronte:
ozio, invidia e vendetta. Il piú felice
90de’ mortali è colui ch’altri mortali
non ha reso infelici. Il chiuder gli occhi
non è poi cosa, se onorasti i numi,
da impallidirne.
Una gioconda riva
popolata di mirti, ove s’aduna
95il consorzio de’ pii, Giove ha concesso
ai miglior sempre, e lá vivono eterne
le cognate famiglie, e van parlando
di ciò che a ricordar torna soave
anco aH’anime ignude; e nessun vento
100procelloso e crudel, come qui spira.
quelle fronde conturba e quella luce
del santo Eliso. A te, se il cor ti basta,
s’apriran quegli alberghi, e a me. di Febo
non vulgar sacerdote.
Inciso è il carme,
105come tu vedi, in povera tabella.
Ma lo vergai mentre la sacra musa
nei boschetti di Cecrope correa
sui nervi d’òr col pollice divino.