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XIII. ERISITTONE.

Sapreste richiamarvi alla memoria quell’Erisittone, la cui metamorfosi, con tutti i miseri casi che la precedettero, è narrata tanto evidentemente da Ovidio? Sapreste ricordarvi come colui per aver messo la scure ad un’antichissima quercia, nel cavo della quale ascondevasi come in proprio albergo una Ninfa delle seguaci di Cerere, fu dalla Dea condannato a rimanerne tutta sua vita in preda agli stimoli della fame? Potrei, se non ve ne risovveniste, mettervi sottocchi tradotti i bei versi del poeta latino, e sarebbevi allora veduto come la Fame, chiamata dall’ultima Scizia, ne venisse al letto del delinquente mentre ei dormiva, e gl’infondesse tra il sonno una brama inquietissima che non poteva rimanersi giammai soddisfatta. Per cui destatosi lo sciagurato cominciò a recarsi alla bocca tutto che gli veniva davanti, disperdendo in poco d’ora tutto il suo a far acquisto di robe mangerecce, senza che gli bastasse a trovarsi sazio. Ridotto all’estremo della povertà, e tuttavia dalla brutta voglia irremediabilmente crucciato, ecco che ei fa mercato dell’unica figlia. Ma qui nuovo miracolo. Come questa aveva avuto ad amante Nettuno, e sdegnavasi di viverne schiava di chicchessia, pregò il Nume a volerla torre di vita; il quale, meglio che far ciò, le mutò la sembianza, per modo che il compratore scambiandola