Misteri di polizia/XL. Il Principio della fine
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CAPITOLO XL.
Il principio della fine.
Intanto il movimento che si preparava in Italia, benchè nato fra gli entusiasmi e le illusioni, si poggiava sopra troppi equivoci perchè la libertà e l’indipendenza del paese potessero essere il frutto di tutte quelle impazienze, di tutti quegli ardiri, e, diciamolo pure, di tutto quel lirismo di cui gli italiani di quei giorni diedero tante prove. Dando un frego a dieci secoli di storia, si volle credere ad un papa liberale e riordinatore delle sparse membra d’Italia. Mettendo in oblio la storia miseranda degli ultimi trent’anni, si credette alla lealtà e al liberalismo di principi, che in fondo all’anima rimasero, quali erano stati sempre, proconsoli dell’Austria ed aguzzini e carnefici di patriotti. Il quarantotto colla sua preparazione non fu che una enorme ubbriacatura. Quando il popolo italiano ritornò in sè, ed i fumi del vino patriottico furono dissipati, s’accorse che il papa che aveva proclamato salvatore d’Italia non valeva meglio di un altro, e che i principi che avevano giurato costituzioni, accordato libertà di coscienza e di stampa, meno uno, non avevano recitato in quel vasto dramma della resurrezione d’un paese che la parte di Giuda. Soltanto, quando il popolo rientrò in sè, era troppo tardi. I battaglioni austriaci con un’appendice di battaglioni francesi, avevano cacciato li nuovo l’Italia nel sepolcro.
Ma già, sin dai primi giorni, si poteva capire come quella resurrezione d’un popolo fosse una solenne canzonatura. I principi non si convertivano che per burla alle teorie con tanto splendore di stile e magniloquenza di periodi proclamate da Vincenzo Gioberti. Lo stesso Leopoldo II, a cui per gli esempî dell’avo glorioso, per la mitezza del carattere e per i precedenti di governo era facile la conversione, nicchiava maledettamente; e mentre col facile entusiasmo di quel tempo lo si acclamava principe liberale, egli manteneva all’impiedi il vecchio edificio politico con tutte le sue antipatie, le sue vendette e i suoi rancori. Dinanzi alla crescente popolarità di Pio IX, egli ristabiliva (settembre 1846) la Legazione toscana a Roma1, ma la sua Polizia, poco dopo, cacciava in prigione alcuni giovani non d’altro colpevoli che d’aver voluto celebrare il primo centenario della cacciata degli austriaci da Genova, accendendo dei fuochi sulle colline che fanno corona a Firenze2. Benchè nella via delle promesse di riforme non fosse stato secondo che al solo Pio IX, pure contro i principali preparatori del movimento, che aveva reso possibili quelle promesse e quelle riforme, conservò una ripugnanza diremmo quasi inesplicabile in un principe che non aveva avuto paura anni prima d’accordare l’ospitalità ad un Pietro Colletta, ad un Giuseppe Poerio, a un Gabriele Pepe. Così la sua Polizia non volle che Giuseppe Massari, benchè raccomandato caldamente al Bologna dal conte Ilario Petitti, mettesse piede in Toscana circondando il suo rifiuto di scuse l’una più magra dell’altra, ma in fondo, perchè impaurito d’aver letto il nome del Massari in una nota di persone trovata addosso ad un tale che si sospettava potesse appartenere ad una società segreta. La stessa Polizia al poeta Berchet che domandava di venire a Firenze a visitare il suo amico, il conte Provana di Collegno, allora infermo, non accordava che temporaneamente il permesso di soggiornare nella capitale, benchè il celebre poeta fosse già stato ammesso, con passaporto svizzero, a dimorare negli Stati di S. M. il re di Sardegna. Contro il D’Azeglio, il decreto di sfratto fu mantenuto severamente, nonostante che la parte che in quei giorni il patrizio piemontese rappresentava in Italia non avesse nulla di pernicioso e di rivoluzionario, ma tendesse a ristabilire l’armonia fra popoli e principi3.
Siffatte misure, in quell’ambiente omai saturo di spirito di novità, erano tante stonature. La Polizia, già, ci stava a disagio. Capiva che il suo regno era finito; pur s’ostinava a considerare gli uomini e le cose dal vecchio punto di vista. Così, venuto a Firenze Riccardo Cobden, benchè fosse avvicinato da ministri, fu sorvegliato e spiato come una testa calda, come un soggetto pericoloso. Lo stesso capo della Polizia, il Bologna, benchè avesse dovuto capire che i tempi erano mutati e che il principe di Metternich in quei giorni era divenuto un mito, dinanzi a quella marea rivoluzionaria, che montava d’ora in ora, ricorreva ai soliti vecchi espedienti, ai soliti vecchi mezzi, agli ammonimenti e agli arresti, quasi che quel moto potesse arrestarsi con un sermoncino o con qualche mese di confino o di detenzione; ed essendogli stato riferito che la gioventù universitaria di Pisa acclamava all’Italia ed a Pio IX, scriveva all’auditore di Governo di quella città sotto il dì 26 giugno 1847: „Fra gli scolari sembrerebbero preferirsi per sottoporsi alla misura di che trattasi il Toscanelli, che potrebbe relegarsi fino a nuovo ordine in una delle più lontane sue ville, il Fabbrucci, il Bonfanti, il Sansoni, lo Speranza.„ Vedendo che predicava al deserto, scriveva: „È oramai necessità evidente ed urgentissima che anche costà (cioè a Pisa) si mettano una volta sulla stessa linea di condotta e d’azione (quella della repressione) e guai a continuare ulteriormente nell’apatia ed inazione fin qui predilette.„
Ma fu il canto del cigno. Pochi giorni dopo avendo il Bologna interdetto la rappresentazione del Giovanni da Procida, del Niccolini, al Teatro del Cocomero, nonostante che il ministro dell’interno ne avesse accordato il permesso al soprintendente degli spettacoli pubblici, il marchese Bartolommei, il vecchio Presidente del Buon Governo fu dispensato dall’ufficio.
Era la mattina del 5 ottobre 1847. Sua Eccellenza Bologna, come al suo solito, si recò a Palazzo Non-finito, ed entrato nel suo gabinetto, dalle mani del suo segretario, prese il corriere. Vista una lettera che portava il timbro del Ministero degl’interni, l’aprì e vi trovò dentro la partecipazione del suo collocamento a riposo. Al disgraziato capo della sbirraglia toscana parve che in quel momento il pavimento della stanza gli si schiudesse di sotto. Non era nemmeno stato caritatevolmente avvertito, in precedenza, di quella misura, nè a lui, che aveva servito in quell’ufficio per quasi quindici anni, il congedo si addolciva colla commenda e colla grossa pensione, che pur si erano date al Ciantelli, che non v’era stato che quasi di passaggio. Uscì da Palazzo Non-finito col cuore serrato e gli occhi bassi; e con lui uscì l’ultimo Presidente del Buon Governo di Toscana.
Quel giorno stesso un decreto sovrano aboliva la Presidenza del Buon Governo, e vi sostituiva una Direzione Generale di Polizia, sotto gli ordini del ministro dell’interno.
FINE.
Note
- ↑ Fu nominato a quel posto il cav. Bargagli, uomo di nessuna levatura. Presentando le sue credenziali al nuovo papa, egli volle complimentarlo in latino ed incaricò della redazione dell’indirizzo un gesuita, il quale, malignamente, v’incastrò parole e frasi, ch’erano delle punture pel papa che gl’Italiani in quei giorni acclamavano. Il povero plenipotenziario recitò tutto e s’acquistò fama d’asino.
- ↑ L’idea di celebrare con fuochi quel centenario fu suggerita ai liberali toscani da Parigi, e precisamente da Terenzio Mamiani, il quale ne scrisse al Salvagnoli. La lettera cadde nelle mani della Polizia, che al suo solito, per mezzo del Gabinetto Nero, ne prese copia; e quando pochi giorni dopo il filosofo pesarese supplicò il Granduca che gli accordasse il permesso di soggiornare in Toscana, il Bologna si ricordò di quella lettera ed ottenne che le porte del Granducato restassero chiuse al Mamiani. Vedi il nostro articolo: Terenzio Mamiani nel Fanfulla della Domenica del 9 dicembre 1888.
- ↑ Il Commissario di San Marco al Bologna: „Livorno, 27 febbraio 1847. Col pacchetto a vapore sardo il Lombardo è qui arrivato il cav. Massimo d’Azeglio proveniente da Genova e diretto a Civitavecchia e Roma. Egli prosegue oggi il suo viaggio... Si trattiene a bordo rispettando gli ordini che sapeva veglianti, astenendosi dall’immischiarsi agli altri passeggieri... Ma bensì faceva calde preghiere onde per qualche ora gli fosse permesso di scendere a terra perchè travagliato dal mal di mare e sentiva il bisogno di riposarsi in qualche albergo. Essendomi io stesso avvicinato a lui, mi sono accertato che si trovava assai abbattuto nel fisico e dimostra assoluta necessità di fermarsi per poco in terra, promettendo che non avrebbe cercato d’alcuno e che niuno sarebbesi curato di vedere. Presi gli ordini superiori, feci disbarcare il D’Azeglio....„