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CAPITOLO XL.

Il principio della fine.

Intanto il movimento che si preparava in Italia, benchè nato fra gli entusiasmi e le illusioni, si poggiava sopra troppi equivoci perchè la libertà e l’indipendenza del paese potessero essere il frutto di tutte quelle impazienze, di tutti quegli ardiri, e, diciamolo pure, di tutto quel lirismo di cui gli italiani di quei giorni diedero tante prove. Dando un frego a dieci secoli di storia, si volle credere ad un papa liberale e riordinatore delle sparse membra d’Italia. Mettendo in oblio la storia miseranda degli ultimi trent’anni, si credette alla lealtà e al liberalismo di principi, che in fondo all’anima rimasero, quali erano stati sempre, proconsoli dell’Austria ed aguzzini e carnefici di patriotti. Il quarantotto colla sua preparazione non fu che una enorme ubbriacatura. Quando il popolo italiano ritornò in sè, ed i fumi del vino patriottico furono dissipati, s’accorse che il papa che aveva proclamato salvatore d’Italia non valeva meglio di un altro, e che i principi che avevano giurato costituzioni, accordato libertà di coscienza e di stampa, meno uno, non avevano recitato in quel vasto dramma della resurrezione d’un paese che la parte di Giuda. Soltanto, quando il popolo rientrò in sè, era troppo tardi. I battaglioni austriaci con un’appendice di battaglioni francesi, avevano cacciato li nuovo l’Italia nel sepolcro.

Ma già, sin dai primi giorni, si poteva capire come quella resurrezione d’un popolo fosse una solenne canzonatura. I principi non si convertivano che per burla alle teorie con tanto splendore di stile e magniloquenza di periodi proclamate da Vincenzo Gioberti. Lo stesso Leopoldo II, a cui per gli esempî dell’avo glorioso, per la mitezza del carattere e per