Misteri di polizia/XIII. Il Re in esilio
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CAPITOLO XIII.
I Re in esilio.
Ferdinando III granduca, ritornando in Toscana nel 1814, fosse segreta simpatia se non pei principi dell’ottantanove, certo per quello spirito di riforme che aveva animato in tutti gli atti della sua vita il granduca Pietro Leopoldo, suo padre; fosse naturale mitezza d’animo che lo spingeva, malgrado i consigli di chi lo circondava, a tenersi lontano dalle misure estreme ed odiose, spalancò a due battenti le porte del suo piccolo Stato ai re esiliati, sopratutto a quei Bonaparte i quali in quei giorni, quasi tutti i principi d’Europa avevano condannato all’ostracismo. Cominciò a trasportarvi i suoi lari Luigi Bonaparte, l’ex-re d’Olanda, che aveva assunto il nome di conte di Saint-Leu. Re da burla anche quando il fratello, tagliando a spicchi come una mela l’Europa, gli aveva posto sul capo la corona d’Olanda, marito da operetta prima e dopo la sua abdicazione, si creò intorno una famiglia illegale; e in quel piccolo paradiso che è la collina di Montughi, fuori porta San Gallo, a Firenze, visse giorni meno tempestosi ingannando il tempo a gettare, con una vivace confutazione della Vita di Napoleone Bonaparte di sir Walter Scott, le fondamenta di quella leggenda napoleonica che più tardi doveva condurre il proprio figliuolo sul trono che il sole di Austerlitz e di Wagram aveva illuminato. Più tardi, quasi che il vivere in questo mondo, dove altro non aveva raccolto che fastidi, gli venisse in uggia, si mise a scrivere romanzi, vivendo così in mezzo a persone e ad avvenimenti immaginarî: romanziere, per altro, quel Bonaparte, non meno disgraziato del re e del marito, se i suoi romanzi, ch’egli leggeva ad un crocchio di amici intimi, erano pesanti e noiosi. Almeno tali li giudicava la contessa di Albany, che era parecchio maligna e del suo compagno d’esilio (anche lei era una ex-regina in partibus) non aveva che una stima assai limitata. Come si sa, la contessa discendeva da Roberto Bruce, l’eroico re scozzese, e l’amica dell’Alfieri, col suo vecchio sangue d’eroi nelle vene, non poteva sentire che una debole simpatia per un parvenu benchè questo parvenu avesse avuto per fratello colui, che per quindici anni aveva legato l’Europa al suo carro trionfale. Ma visto nell’intimità, quel povero conte di Saint-Leu perdeva quel po’ po’ di poesia che ancora accompagnava il suo nome. Non pagava prontamente i suoi creditori, i quali più d’una volta, se vollero essere pagati, dovettero ricorrere alle minacce. Nel 1822 un tal Viviani era creditore dell’ex-re di ottocento scudi per biada e foraggi. Chiese, protestò, minacciò; in fine, il conte di Saint-Leu gli fece sapere che il suo amministratore gli avrebbe pagato il conto, ma con una tara di cento scudi. Al Viviani quel procedere parve poco o punto da re, e avvicinato il principe, con modi arroganti chiese che fosse saldato all’istante, e senza tara. All’ex-re parve che il Viviani trascendesse ed impugnò le pistole, e sarebbe di sicuro succeduto qualche grosso guaio, se sopravvenuti in quel momento i servi del principe non avessero posto alla porta il Viviani. Questi uscì ammonendo il principe che l’avrebbe aspettato a Firenze a chiedergli il suo, magari se avesse dovuto fermare la carrozza e saltare sul montatoio. Il Viviani, parlando così, ignorava probabilmente come quasi trecento anni prima, un altro creditore, per farsi pagare da un re avesse fatto precisamente in quel modo. Soltanto quando il creditore saltò sul montatoio della vettura del re, il principe, ch’era il principe più potente di quel tempo, gli disse: — „Senor, non vi conosco! — No? rispose il creditore che era uno dei più grandi capitani del secolo; eppure ho regalato a Vostra Maestà un impero — il Messico, Sire!„ — Ma ritornando al Viviani, mentre questi era cacciato dai servi fuori della palazzina, la moglie aspettava sul viale ove essendosi abbattuta in un fanciullo biondo, dagli occhi cerulei, dalla fronte grande, dal naso aquilino, non potè trattenersi di dirne delle crude e delle cotte sul conto di quell’ex-re che non pagava i suoi fornitori.
— Ma il conte è mio padre, signora!...
La donna rimase mortificata di quella sua scappata, ma l’indomani il marito venne integralmente pagato.
Il rapporto della polizia non dice se quel fanciulletto biondo fosse il principe Napoleone, morto nel 1831, a Forlì, oppure Luigi Napoleone, futuro imperatore dei Francesi.
Ma quell’ex-re, che confutava Walter Scott, che scriveva romanzi, che scriveva sin’anco (un ex-re!...) canzonette allegre, che non pagava i suoi creditori, non aveva nulla della regalità. Restò sempre borghese. Leggiamo, difatti, in un rapporto dell’Ispettore di Firenze del 23 agosto 1840, quanto appresso:„
„Il cav. Ulivelli, uno dei componenti della conversazione serale del conte di Saint-Leu, parlando del tentativo fatto del principe Luigi a Boulogne, narrò che il conte disse ai suoi amici: „Avete inteso le belle cose fatte da quello stolto di mio figlio? Vuol finire sul palco per degradare sè stesso e la sua famiglia. Il re Filippo che è clemente e generoso, rispamierà, lo spero, questo disonore alla mia famiglia e a me particolarmente.„ L’ex-re morì nel 1846, prima che l’astro napoleonico ritornasse a brillare in tutto il suo splendore; diversamente, quel disgraziato avrebbe visto quello stolto di suo figlio far riprendere all’aquila imperiale il suo volo vittorioso!
E in un rapporto del 17 ottobre: „Mercoledì tutta la famiglia Montfort, collo stesso Demidoff, era a pranzo dal conte di Saint-Leu. Non dimostrarono grande dispiacere della condanna di perpetua detenzione riportata da Luigi Napoleone figlio del conte; piuttosto sembravano giulivi della difesa fatta in suo favore dall’avvocato Berryer, che si fondò principalmente sui diritti della famiglia Bonaparte al trono di Francia.„
⁂
Dopo il marito, la moglie — la bella e galante Ortensia. Di vecchio sangue aristocratico, di quel sangue che era andato al patibolo collo stesso brio con che avrebbe fatto una partita di caccia o ballato, sotto la monarchia legittima, un minuetto, l’ex-regina d’Olanda conservò nell’esilio tutta la maestà d’una grandezza decaduta. Essa, in quel meraviglioso e fantastico dramma che fu l’impero dell’Uomo fatale, era stata come un’apparizione di quella vecchia galanteria francese, che gli scamiciati del novantatrè avevano creduto di soffocare nel sangue o di strozzare fra i loro cenci trasformati per la circostanza in capestro. Come una marchesa o una duchessa del tempo di Luigi XV, essa attraversò l’Impero gettando a destra e a sinistra sorrisi e baci, suscitando dappertutto quel mormorìo che destano la grazia, lo spirito e la bellezza, e che è che una melodia per l’orecchio di chi lo desta. Ebbe amori ed avventure, e più d’un giovine colonnello o d’un giovane generale, spirando fra i monti della Spagna o nelle steppe gelate della Russia mandò col suo ultimo sospiro un addio alla bella donna. Ma Dio è pietoso per le belle peccatrici; e Dio non dovette lungamente fare attendere all’ex-regina d’Olanda il suo perdono, se durante l’esilio, la principessa non ebbe a raccogliere dappertutto che simpatia e rispetto.
L’ex-regina, insieme ai suoi due figli, i principi Napoleone e Luigi, fu a Firenze sulla fine del novembre 1823. — La Polizia, come era usa, la circondò di spie; le quali riferirono che il giorno 2 dicembre, al ritorno dalla passeggiata, essendo sopravvenuta una indisposizione al minore dei figliuoli della contessa di Saint-Leu, fu chiamato il dottor Fureau che abitava al Canto alle Farine. La sera la regina non andò al teatro (al Cocomero) benchè il palco fosse stato pagato. Il 6 riferivano che il principe stava meglio e che la illustre gentildonna si disponeva a partire. Partì, difatti, il giorno 8, senza che la sua condotta avesse fornito materia a sospetti in materia politica.
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Ma l’archivio segreto della presidenza del Buon Governo è una miniera inesauribile di notizie intorno all’altro re in esilio, Girolamo Bonaparte, già re di Westfalia, allora conte di Montfort, che aveva definitivamente piantato le sue tende a Firenze in attesa che egli, o qualcuno della sua famiglia, risalisse un trono.
L’ex-re Girolamo era un perfetto gaudente. Pigliava la vita dal lato facile e brillante, e come un petit mâitre della Reggenza, ammazzava allegramente il tempo fra gli amori, le caccie, le feste e i banchetti. Le roi s’amuse — ecco un motto che l’ex-re di Westfalia avrebbe potuto pigliare per divisa. I vecchi fiorentini ricordano ancora i fastosi ricevimenti, le allegre serate, le livree verdi, i magnifici cavalli, ma sopratutto i romanzi galanti del più giovane dei napoleonidi. Installatosi nel palazzo Orlandini, in Piazza dei Buoni, egli vi menava vita principesca. Come a tutti i fratelli del grande capitano che avevano portato una corona, i servi, come gl’invitati, davano a lui il titolo di Maestà. Giulio Janin, che visitò Firenze nel luglio 1838, ne parla in modo assai lusinghiero e con devozione discretamente affettata, insomma da cortigiano dell’avvenire. Egli, a proposto di quella Versaglia in ventiquattresimo ch’era il Palazzo Orlandini e degli ospiti che attraversavano le sue stanze quasi regali, scrive: „Il giorno dopo fui invitato ad una colazione in casa di Girolamo Bonaparte. Fra tutte le rovine di Firenze brilla d’una luce dolorosa la famiglia dell’Imperatore. Anche in mezzo a Firenze, essa è rimasta francese; Firenze non l’ha potuta domare. Soltanto i Bonaparte hanno preso da lei la dolce allegria e l’oblio d’ogni ambizione. Firenze ama questi Bonaparte esuli, essa che non visse tanto tempo che di proscrizioni e d’esili. Alla festa il principe Girolamo aveva invitato i Borboni di Napoli e i Borboni di Spagna, che intervennero... In casa incontrai, non senza una viva commozione, una giovine Bonaparte bianca e vermiglia (la principessa Matilde). Ci ha ricevuto con tutta la ingenua grazia dei suoi diciotto anni non ancora compiuti, ci ha accolti non come una principessa esiliata, ma come una bella giovane parigina dimenticata sulle sponde dell’Arno. Ha fatto gli onori di casa con una grazia perfetta, facendo passare prima i suoi compatriotti, poi i Borboni.„
Lo stesso Janin fu presente alle nozze che due anni dopo si celebrarono fra la principessa Matilde e il principe Anatolio Demidoff, una specie di Creso russo, meno il trono, ma colla rozzezza d’un cosacco in più. Imperocchè l’arcimilionario delle sponde della Newa se aveva pieni i forzieri di rubli e di brillanti, era rozzo, ubbriacone e violento. L’Ispettore di Polizia, in un rapporto del 7 novembre 1840, dopo aver parlato delle nozze, aggiungeva: „Si critica il carattere violento e prepotente del principe Demidoff, e si compiange nelle nobili conversazioni la sposa, alla quale vengono fatti molti elogi.„
Nè i tristi presentimenti tardarono ad avverarsi. Comparso a Parigi il romanzo di Eugenio Sue: Matilde, il solito Ispettore scriveva il 7 agosto 1841: „Un romanzo che si stampa a Parigi — Matilde — forma soggetto di discorsi nelle nobili società, dicendosi essere una satira del principe di Demidotf, parlandosi del di lui carattere stravagante fino dall’infanzia, non senza commentare tutti i fatti accaduti relativamente al di lui matrimonio colla figlia del conte di Montfort.„
Quanto alla cronaca galante dei membri della casa dell’ex-re di Westfalia, la Polizia ci informa che il principe Girolamo faceva la corte alla marchesa C..si; nè i figli di lui, principalmente il principe Napoleone, perdevano il loro tempo. Nel solito rapporto leggiamo: „Il primogenito del conte di Montfort, per nome Napoleone, fa la corte alla moglie del basso Ronconi cantante alla Pergola, ove tutte le sere si trattiene nel palco di lei.„
Due principi codesti, per altro, che bastavano da sè soli a riempire la cronaca mondana della città passando da una festa ad un duello, da un amore ad una scommessa, da un alcova ad un viaggio, da una partita di caccia ad un conciliabolo massonico.
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Un altro re in esilio — sempre della famiglia Bonaparte — che venne a trasportare le sue tende in Toscana e a morirvi, fu Giuseppe, l’ex-re di Spagna. Aveva preso il nome di conte di Sourvilliers. Arrivò a Firenze nel luglio 1841, e i rapporti della Polizia notavano che nel seguito del principe c’era un certo Dubeau, francese, in qualità di maestro di casa, la cui figlia si pretendeva che fosse stata la favorita di Giuseppe. Più tardi, quando si aperse il testamento dell’ex-re, si venne a conoscere che egli, della sua grossa fortuna aveva disposto regalmente, lasciando oltre un milione da erogarsi pel monumento di Napoleone I agl’Invalidi, e due milioni alla Guardia Imperiale, che aveva combattuto a Waterloo. Di quest’ultima disposizione, l’ex-re dava la seguente spiegazione: che avendo Napoleone, dopo la battaglia di Waterloo, parlato con lui, gli consegnò sei milioni di scudi, dicendogli che si sarebbero riveduti in America. — „E nel caso che non c’incontrassimo in America, nè altrove, Sire, a chi dovrei allora consegnare il denaro?„ — aveva domandato Giuseppe; e Napoleone: — „Sarà vostro a condizione che ne facciate quell’uso che ne avrei potuto fare io stesso.„