Memorie inutili/Parte terza ed ultima/Capitolo V

Capitolo V

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CAPITOLO V

Fortune de’ non ricchi possidenti di beni.

Sino dal tempo in cui seguirono le divisioni del patrimonio della nostra fraterna, che non era il patrimonio di Creso, i due miei fratelli Francesco ed Almorò pensarono di ben fare a ritirarsi nel Friuli ad usare industre vigilanza sul partaggio de’ loro beni. Ivi pensarono anche di ben fare a provvedersi una moglie per uno, e le lor mogli pensarono di ben fare a partorire loro de’ figli. Quantunque io non abbia giammai voluto provare la soavitá d’un matrimonio, vidi sempre con occhio allegro una tale soavitá in tutti i fratelli miei e in tutte le cognate mie, ed amai tutti i figli procreati da quelle coppie.

Rimasto soletto in Venezia ad agire agl’interessi di tutti, a pagare gli aggravi per tutti, a piatire per tutti, per preservare dalle rapine e per accrescere il patrimonio di tutti, come ho narrato addietro nelle mie Memorie; credei di far bella cosa a cedere una porzione de’ miei beni del Friuli a’ due detti miei fratelli Francesco ed Almorò, togliendo in iscambio in mio capo le rendite delle parecchie case di Venezia appigionate, per aver piú comode le riscossioni al mio mantenimento e col debito di supplire a spese mie a’ bisogni de’ ristauri delle fabbriche dette.

M’avvidi presto d’aver fatta una pessima permutazione.

I lagni perpetui e le richieste perpetue di ristauri de’ pigionali mal disposti al pagamento del fitto; i murai, i legnaiuoli, i finestrai, i fabbri, i terrazzai, i vuotacessi, colle loro ingorde polizze continue, m’ingoiarono ogn’anno il terzo della rendita. Il costo degli atti forensi necessari verso i molti affittuali che non pagavano mi rosero ogn’anno buona parte degli altri due terzi. I fitti non pagati e perduti, le abitazioni rimaste vuote, le dovute decime pagate al Principe lasciarono per conto mio appena la quinta parte di quella rendita, e buon per me ch’ella non era la sola. E perché i bei lumi filosofici del secolo accrebbero [p. 230 modifica]sempre maggiormente vigore alla libertá di pensare, d’operare e all’acume, e scemarono il sentimento dell’onoratezza e della buona fede negli uomini, germogliando e propagandosi i vizi tutti, poco a poco i miei pigionali divennero con me piú bestie creditrici che uomini debitori.

Se volessi narrare tutti gli avvenimenti fastidiosi che la mia pacifica natura sofferse co’ pigionali delle mie case, averei lunga faccenda.

Sperando di far ridere i miei lettori, di cento ne scriverò due che al parer mio tengono del comico.

Una femmina di buon aspetto mi chiese a pigione una mia casa ch’era rimasta vuota alla Giudecca.

Le feci l’affittanza e pagò pontualmente la prima rata del fitto. Dopo quella prima rata, le mie domande, le mie grida, le mie minacce furono parole al vento. Ella abitò quella casa tre anni colla sua famiglia, pagandomi di lusinghe, di promesse e talora d’ingiurie.

Le ho esibito di donarle il debito purch’ella mi lasciasse la casa libera. Una tale esibizione era per lei un insulto. Entrava nelle furie, gridando ch’ella era una donna d’onore, pontuale e che non voleva doni.

Finalmente per levarmi quella rogna ricorsi da un avvogadore, il quale, intesa la mia ragione e il dono ch’io intendeva di fare, fece chiamare la femmina al suo tribunale.

Egli durò fatica con quella gazza ciarliera a farsi promettere che, tempo otto giorni, la casa sarebbe libera.

Scorsi gli otto giorni, andai alla Giudecca sperando d’entrare nel possesso della mia casa. Furono tutte favole. La casa non era piú mia, e quella femmina colla sua famiglia la abitava con una calma maravigliosa.

Replicai il mio ricorso, e l’avvogadore sdegnato spedí i suoi ministri a far porre quella famiglia colle sue mobilie fuori dall’albergo non suo. I ministri mi consegnarono le chiavi con una polizza delle loro mercedi che pagai volontieri.

Passai alla Giudecca con quelle chiavi per rilevare lo stato della mia povera casa, di cui credeva finalmente di poter considerarmi padrone. [p. 231 modifica]

La mia gita fu vana. Quell’ardita femmina colla sua famiglia aveva fatto le scalate alla fortezza ed era rientrata per una finestra a ripigliare il possesso dell’alloggio!

La mia maraviglia fu grande, ma le mie risa furono maggiori.

Un terzo ricorso all’avvogadore mi liberò finalmente da quella mosca culaia; ma ebbi la casa mostruosa, senza catenazzi, senza toppe, senza porte, senza finestre, in un guasto indicibile.

Dovei spandere molto danaio per porla in istato di poterla fittare a de’ pigionali poco migliori della femmina diavolo.

Non meno comico, a mio credere, fu il secondo caso avvenutomi per una mia casa nella contrada di Santa Maria Materdomini, rimasta vuota per i molti fitti non soluti e da me donati.

Comparve da me una mattina un uomo che a’ vestiti pareva gondoliere. Egli m’addusse che serviva di gondoliere un cittadino di casato Colombo, il quale abitava nella contrada di San Iacopo dall’Orio, e che abitava egli nella contrada di San Geremia; che per la gran lontananza le mattine talora non poteva essere pronto a’ servigi del padrone; che avendo io una casa da appigionare a Santa Maria vicina a San Iacopo, mi pregava dell’affittanza e di dargli le chiavi, mostrandomi il danaio pronto al pagamento della rata anticipata.

— Qual nome è il vostro? — diss’io. — Domenico Bianchi — rispos’egli con franchezza.

— Ebbene — diss’io, — chiederò informazione di voi al padron vostro Colombo, perché io sono uno di que’ cani pelati dall’acqua bollente che temono l’acqua fredda.

— Ma, signore — risposagli, — non posso perdere gran tempo, perché ho la moglie gravida vicina al parto. Le sue doglie sono giá incominciate, e vorrei tosto adagiarla onde partorisca nella nuova abitazione, per non dover tardare i molti giorni del puerperio.

— Possibile ch’ella partorisca oggi? — diss’io. — Dopo il pranzo anderò dal signor Colombo, e ritornate da me domattina quanto per tempo volete.

— Bene, bene — rispos’egli, — Ella ha ragione, e quantunque io sia un uomo d’onore, non nego ch’Ella prenda informazione di me; ma per caritá non tardi, perché la mia urgenza non ammette tardanza. — Detto ciò, partí. [p. 232 modifica]

Appena egli mi die’ tempo di pranzare che picchiò all’uscio mio con gran furore, e mi comparve disperato dinanzi con la moglie, che infatti aveva il ventre alla gola.

— Perdoni, signore — diss’egli quasi piangendo, — ecco qui la mia povera moglie co’ dolori del parto che incalzano. Per l’amore di Gesú mi faccia tosto l’affittanza. Io temo di non essere in tempo e ch’ella partorisca per la via.

Osservai quella moglie, ch’era una giovinotta non brutta, che si teneva le pugna a’ fianchi, faceva de’ sberleffi, si rannicchiava e divincolava come una biscia.

Tutto compassione e tutto timore ch’ella non mi partorisse in casa, corsi allo scrittoio, vergai la affittanza a Domenico Bianchi, che pagò la sua rata d’un mese, come sogliono pagare le povere genti, gli feci consegnare le chiavi dal servo, e la coppia se ne andò con Dio.

Scorse alcune settimane, venne al mio albergo il piovano di Santa Maria, e tutto acceso mi disse: — A chi diavolo ha Ella affittato la tal sua casa?

— A un Domenico Bianchi gondoliere, che serve la famiglia Colombo e che aveva la moglie gravida, vicina al partorire — rispos’io.

— Che Domenico Bianchi? che Colombo? che gondoliere? che moglie gravida? — disse il piovano piú riscaldato. — Colui non è altrimenti Domenico Bianchi: è un ruffiano. Colei è una zambracca, che s’è posta un coscino sulla pancia per farsi credere gravida. La sua casa è abitata da tre puttane che assediano gli uomini che passano. Ivi si vende vino, si fanno baruffe e bordelli. I vicini molestati e incolleriti vengono a rompere il capo a me. Lo scandalo è grande nella contrada ed è suo debito di cristiano il rimediare a tanto disordine.

Rimasi stordito a quella narrazione. Chetai il piovano. Narrai la storia a mia giustificazione. Lo feci ridere. Promisi il rimedio, e partí. Feci degli esami prima di cercare il rimedio e trovai che il piovano m’aveva detta una spiacevole veritá.

Mi recai tosto a cercare dalla giustizia un sollecito sommario effetto della giustizia, e informando del caso mio un patrizio [p. 233 modifica]che mostrava per me della cordialitá e che aveva un fratello avvogadore, egli mi promise di far ardere il fratello del desiderio di farmi giustizia.

La risposta ch’ebbi fu questa: che fatto maturo riflesso dal fratello, egli aveva deciso che, trattandosi di puttane e di scandalo, la materia era per il tribunale della bestemmia e non per quello dell’avvogaria; che mi consigliava a indurre il piovano di Santa Maria a presentare una supplicazione al magistrato della bestemmia perché fosse sbandito quello scandalo dalla sua contrada; che rilevata con un processetto e con testimoni la veritá, io sarei stato consolato da quel tribunale.

— Perdoni — diss’io, — la materia è dell’avvogaria, perocché essendo la mia fittanza fatta ad un nome datomi con inganno d’uomo supposto, que’ scellerati abitano la mia casa illegittimamente, con usurpo, con violenza di fatto e propria autoritá. Il vendicarmi spetta a un avvogadore. Per caritá non mi voglia assoggettato a lungaggini di processi e mi faccia far ragione sommariamente. — Indurrò mio fratello — disse il patrizio — a far chiamare quelle femmine per domattina al di lui tribunale. Ella si trovi all’avvogaria domattina, tre ore innanzi la terza, esponga le sue ragioni in faccia alle avversarie. Ascoltate ambe le parti, naturalmente l’avvogadore condannerá quelle femmine a sloggiare dalla sua casa. — Bella! — rispos’io. — Vostra Eccellenza vuole ch’io sbuchi dal letto all’aurora percorrere all’avvogaria a tener controversia, arringo e deputazioni a fronte d’un ruffiano e d’un branco di bagascie? La ringrazio della buona disposizione. Scusi l’incomodo che le ho dato. Piuttosto tenterò che il piovano presenti un memoriale di supplicazione alla bestemmia, ch’io appoggerò colla mia informazione del caso. — Bravissimo! questo è il miglior consiglio: cosí va fatto — disse il patrizio mio benevolente piantandomi.

Non tardai a trovare il piovano, chiedendo l’assistenza sua del memoriale al magistrato della bestemmia, promettendo d’appoggiare al di lui ricorso. Quel piovano guardandomi con fiero ciglio si pose a gridare come un castrato: — Come! Ella vorrebbe indurmi a fare una tale bestialitá? A quel tribunale niente [p. 234 modifica]si determina senza prima formare un processo, per rilevare se la istanza sia giusta o calunniosa. Le puttane in questa cittá hanno de’ protettori tremendi e tanti testimoni falsi sotto al loro dominio, che colle loro deposizioni e i loro giuramenti fanno divenire la veritá calunnia. Ho fatto ancora la castroneria di presentare a quel tribunale una supplicazione per liberare la mia contrada dallo scandalo che dava una sfacciatissima conosciutissima sgualdrina. Dopo un lungo processo e lunghi esami di testimoni, fui chiamato ex offitio da que’ giudici, e dovei subire una lunga intemerata di correzione, in cui i titoli di calunniatore, d’insidiatore la buona fama d’una povera innocente colomba, di persecutore vendicativo, e le minacce di castigo se non avessi giudizio nell’avvenire, mi mandarono sbalordito e scorticato ad essere miglior pastore delle mie pecore. Non sarò piú beccato a presentar memoriali a quel tribunale, se la mia contrada divenisse il ricettacolo di tutte le pubbliche prostituite. Ella ha fatto l’errore. Tocca a lei il liberare la sua casa da quel scandaloso bordello, e deve farlo sotto pena di mortalissimo peccato.

Confuso tra l’imbarazzo in cui mi trovava e tra il timore di commettere il mortalissimo peccato, me ne andai trasognando dal patrizio Paolo Balbi contraddittore alla Quarantia, che mi amava, e narrandogli da capo a fondo la storia, ridemmo insieme. Indi egli mi disse ch’io averei dovuto andare da lui prima di fare i passi che aveva fatti; che un altro de’ tre avvogadori di lui amico averebbe sommariamente fatta la giustizia di liberarmi da una sopraffazione, ch’era scelleraggine vera punibile sommariamente. — Ella però ha fatto bene — soggiunse egli — a non andare all’avvogaria ad arringare in controversia con que’ bricconi. La sentenza sarebbe stata in di lei favore, ma forse quella canaglia avrebbe notato un appello alla Quarantia, e lei averebbe avuto spesa, tardanza d’anni e molto fastidio a uscire dalla pozzanghera.

— Ella dunque mi favorisca di parlare all’altro avvogadore suo amico — diss’io. — Non è piú tempo — rispos’egli; — non fará piú nulla, sapendo che l’altro avvogadore non ha fatto nulla. Temerá di dare un rimprovero all’indolenza dell’altro operando. [p. 235 modifica]Tra avvogadori si rispettano per politica. — Bella politica! E la giustizia dove alberga? — diss’io. — Lasci a me la briga — rispose il cavaliere. — Farò ricorso a tal tribunale che spaccerá immediatamente questa scelleraggine.

Infatti il giorno dietro, un servo di quel patrizio mi recò le chiavi della mia casa e la fausta notizia ch’ella era vuota alla mia disposizione.

Corsi a ringraziare il cavaliere, e anche pieno di curiositá di sapere i modi da lui tenuti per favorirmi.

— Breve — diss’egli, — ho informato «messer grande», che comanda a tutta la masnada de’ sbirri, della faccenda e l’ho pregato a trovar maniera di dar la fuga alla canaglia abitatrice della sua casa. Egli ha spedito uno de’ suoi satelliti conoscente di quelle bagascie, che sotto aria d’amicizia, di caritá e secretezza le avvertisse che «messer grande» aveva avuto comando di farle legar tutte colle funi e condurre prigioniere.

Un tal secreto caritatevole avviso artificioso aveva spaventato per modo quel nefando drappello, che raccogliendo in fretta le masserizie era schizzato e fuggito.

Dopo aver riso alquanto del caso, chiedendo al cavaliere qual debito avessi a pagare verso i satelliti di «messer grande» per il benefizio ricevuto, e rispondendomi egli che niente doveva pagare, ringraziando io del grandissimo favore, sono partito riflettendo per via sull’avvenutomi co’ tribunali di giustizia e sopra «messer grande», generoso e ingegnoso giudice spacciativo.

S’io volessi narrare tutte le sciagure ch’io soffersi e che soffro co’ miei pigionali di Venezia, potrei formare una lunga filza di novellette piacevoli per chi non fosse ne’ panni miei.

Di tutti cotesti miei pigionali forse tre soli sentono lo stimolo del debito e dell’onore.

Possedo quattro case nella contrada di Santa Marta, appigionate per cinquantaquattro ducati di rendita annuale. Non fo che donare il credito non riscosso di tre in tre anni, cambiare affittuali, ridonare il credito, rifare questo giuoco di tempo in tempo con somma rassegnazione; e va a pennello il titolo ironico di questo capitolo: Fortune de’ non ricchi possidenti di beni.