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sempre maggiormente vigore alla libertá di pensare, d’operare e all’acume, e scemarono il sentimento dell’onoratezza e della buona fede negli uomini, germogliando e propagandosi i vizi tutti, poco a poco i miei pigionali divennero con me piú bestie creditrici che uomini debitori.

Se volessi narrare tutti gli avvenimenti fastidiosi che la mia pacifica natura sofferse co’ pigionali delle mie case, averei lunga faccenda.

Sperando di far ridere i miei lettori, di cento ne scriverò due che al parer mio tengono del comico.

Una femmina di buon aspetto mi chiese a pigione una mia casa ch’era rimasta vuota alla Giudecca.

Le feci l’affittanza e pagò pontualmente la prima rata del fitto. Dopo quella prima rata, le mie domande, le mie grida, le mie minacce furono parole al vento. Ella abitò quella casa tre anni colla sua famiglia, pagandomi di lusinghe, di promesse e talora d’ingiurie.

Le ho esibito di donarle il debito purch’ella mi lasciasse la casa libera. Una tale esibizione era per lei un insulto. Entrava nelle furie, gridando ch’ella era una donna d’onore, pontuale e che non voleva doni.

Finalmente per levarmi quella rogna ricorsi da un avvogadore, il quale, intesa la mia ragione e il dono ch’io intendeva di fare, fece chiamare la femmina al suo tribunale.

Egli durò fatica con quella gazza ciarliera a farsi promettere che, tempo otto giorni, la casa sarebbe libera.

Scorsi gli otto giorni, andai alla Giudecca sperando d’entrare nel possesso della mia casa. Furono tutte favole. La casa non era piú mia, e quella femmina colla sua famiglia la abitava con una calma maravigliosa.

Replicai il mio ricorso, e l’avvogadore sdegnato spedí i suoi ministri a far porre quella famiglia colle sue mobilie fuori dall’albergo non suo. I ministri mi consegnarono le chiavi con una polizza delle loro mercedi che pagai volontieri.

Passai alla Giudecca con quelle chiavi per rilevare lo stato della mia povera casa, di cui credeva finalmente di poter considerarmi padrone.