Memorie di Carlo Goldoni/Parte terza/I
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CAPITOLO I.
- Mio viaggio dalla riva del Varo a Parigi. — Prima fermata a Vidauban. — Breve dissertazione sulla cena e la zuppa. — Veduta di Marsiglia. — Veduta di Avignone. — Alcune parole sulla città di Lione. — Lettera da Parigi. — Unione dell’Opera Buffa con la Commedia Italiana. — Riflessione sopra me medesimo. — Mio arrivo a Parigi.
Entrato nel regno di Francia, mi accorsi subito della garbatezza francese. Alle dogane d’Italia avevo sempre incontrato qualche dispiacere; ma alla barriera di San Lorenzo, vicino al Varo, fui visitato in due minuti, e i miei bauli non furono sconvolti. Ad Antibo poi, quante gentilezze, quante buone maniere ricevetti dal comandante di quella piazza di frontiera! Nell’atto che ero per mostrar il passaporto: — Eh via, signore, dispensatevene (egli mi disse), e partite immantinente; voi siete aspettato con impazienza a Parigi. — Continuai senza frapporre dimora il mio viaggio, e mi fermai la prima volta a pernottare a Vidauban. Portano da cena, ma in tavola non c’è zuppa. Siccome mia moglie ne sentiva il bisogno, e mio nipote la desiderava, la domandiamo. È inutile; in Francia non si usa dar zuppa la sera: ma mio nipote sostiene che la zuppa appunto è quella che dà il nome au souper, e per conseguenza non deve darsi un souper sans soupe; il locandiere però non capisce, fa la riverenza e parte. Veramente mio nipote non aveva torto, ed io perciò mi divertii con fargli una breve dissertazione sull’etimologia del termine souper e sulla soppressione della zuppa. Gli antichi, presi a dire, non facevano che un pasto per giorno, consistendo questo nella cena, ch’era sempre di sera; e siccome questo pasto incominciava costantemente dalla zuppa, i Francesi perciò cambiarono il vocabolo di cena in quello souper. Il lusso poi e la gola moltiplicarono i pasti; la zuppa allora passò della cena al pranzo, e così per i Francesi la cena altro non è che un souper sans soupe. Finito il discorso, mio nipote che aveva già intrapreso un piccolo giornale del nostro viaggio, non lasciò di notare immediatamente nel suo libretto la mia erudizione, che, comunque bizzarra ella sembri, non sarà forse priva di qualche fondamento. Il giorno seguente di buonissim’ora partimmo da Vidauban ed arrivammo la sera a Marsiglia. Nel momento stesso ricevemmo visita dal signor Cornet, console di Venezia in questa città. Ci offrì un appartamento in casa propria, che ricusammo per un certo riguardo; ma tormentati all’estremo nel corso della notte da quegli insopportabili insetti che pungono ed infettano nel tempo istesso, fummo costretti ad accettare la generosa offerta del fratello dei nostri buoni amici di Venezia. Godemmo adunque per sei giorni la vista di Marsiglia, la cui situazione è piacevole, ricchissimo il commercio, amabili gli abitanti, ed il porto un capolavoro di natura e d’arte. Proseguendo sempre il viaggio, passammo per Aix; traversammo soltanto in carrozza quella stupenda passeggiata chiamata il Corso, e di buonissima ora giungemmo ad Avignone. All’ingresso della città mi si presentarono subito agli occhi le chiavi di San Pietro sormontate dalla tiara pontificia. Ero ansioso di vedere quel palazzo che per sessantadue anni è stato sede del Capo della Religione Cattolica! mi recai a far visita al vice-legato, che m’invitò a pranzo per il dì seguente. Trovai questo antico edificio così ben conservato, che se mai al papa venisse voglia di soggiornarvi, vi troverebbe ancora comodissimo alloggio.
Erano già scorsi quattro mesi dal giorno della mia partenza da Venezia: è vero ch’ero stato malato a Bologna, ma dopo mi ero anche assai divertito; onde cominciai a temere, che la lentezza del mio viaggio non mi facesse qualche demerito nell’animo di coloro che mi aspettavano a Parigi. Arrivato infatti a Lione, trovai una lettera del signor Zannuzzi con rimproveri, a dir vero, un poco risentiti, ma non tanto forti quanto mi meritavo. L’uomo è un essere inconcepibile, indefinibile. Neppure io stesso saprei render conto dei motivi, che mi fanno talvolta operare contro i miei principii e le mie idee. Benchè animato talvolta dalla miglior volontà del mondo di attendere alla cosa che più m’importa, trovo, cammin facendo, meschinità ed inezie che mi trattengono, o mi distornano. Un innocente piacere, una garbata compiacenza, una curiosità, un consiglio amichevole, un impegno inconcludente non possono dirsi abiti viziosi, ma s’incontrano per altro alcuni casi nei quali anco la menoma distrazione può essere dannosa; e da tali distrazioni appunto non ho mai potuto difendermi. La lettera trovata al mio arrivo in Lione avrebbe dovuto farmi partire nell’istante; ma come mai avrei potuto lasciare una delle più belle città della Francia senza darle un’occhiata? Potevo io tralasciare di veder da vicino quelle manifatture, che somministrano all’Europa tante eccellenti stoffe, tanti disegni diversi? Alloggiai al Parco Reale, e vi restai dieci giorni; mi sarà forse detto: bisognavano dieci giorni per esaminare le rarità di Lione? No; ma non erano troppi per accettare i tanti pranzi e le tante cene che da quei ricchi fabbricatori mi venivano offerte a gara. Inoltre non facevo torto ad alcuno, poichè i miei onorarli a Parigi non dovevano correre che dal giorno del mio arrivo; e supposto anche che i comici italiani avessero avuto bisogno di me, ero ben sicuro che dopo il mio arrivo sarebbero stati compensati dalla mia operosità.
Ma questo bisogno era cessato, essendo stata unita nel tempo del mio viaggio l’opera buffa alla commedia italiana. Il nuovo genere era preferito all’antico, e gl’Italiani che per l’avanti erano riguardati come il sostegno del teatro, divennero soltanto le parti accessorie di un tale spettacolo. In Lione seppi questa novità, ma non però in modo da farmi concepire quel rincrescimento che ne dovevo risentire! credevo anzi che i miei compatriotti per punto d’onore fossero per profittare dell’emulazione dei loro novi compagni e fossero in grado di sostenere la lotta. Animato da questa fiducia, con la solita mia letizia e col mio consueto coraggio, m’incamminai verso la capitale. Intanto l’amenità del viaggio, e le ubertose pianure che traversavo, altro non mi ispiravano se non idee bizzarre e le più dolci speranze. A Villejuif trovai il signor Zannuzzi e la signora Savi, prima attrice dell’opera italiana, che fecero salire mia moglie e me nella loro carrozza, seguitandoci il nipote nella nostra: in questa maniera andammo a smontare nel sobborgo San Dionisio, luogo ove questi due attori avevano, nella casa medesima, i loro alloggi. Il giorno stesso fu festeggiato il nostro arrivo con una cena molto galante ed allegra, alla quale fu invitata buona parte dei comici italiani. Noi, benchè stanchi, ci trattenemmo con piacere fra le delizie di una elegante brigata, che alle grazie francesi accoppiava lo strepito delle conversazioni italiane.