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268 parte terza


guente di buonissim’ora partimmo da Vidauban ed arrivammo la sera a Marsiglia. Nel momento stesso ricevemmo visita dal signor Cornet, console di Venezia in questa città. Ci offrì un appartamento in casa propria, che ricusammo per un certo riguardo; ma tormentati all’estremo nel corso della notte da quegli insopportabili insetti che pungono ed infettano nel tempo istesso, fummo costretti ad accettare la generosa offerta del fratello dei nostri buoni amici di Venezia. Godemmo adunque per sei giorni la vista di Marsiglia, la cui situazione è piacevole, ricchissimo il commercio, amabili gli abitanti, ed il porto un capolavoro di natura e d’arte. Proseguendo sempre il viaggio, passammo per Aix; traversammo soltanto in carrozza quella stupenda passeggiata chiamata il Corso, e di buonissima ora giungemmo ad Avignone. All’ingresso della città mi si presentarono subito agli occhi le chiavi di San Pietro sormontate dalla tiara pontificia. Ero ansioso di vedere quel palazzo che per sessantadue anni è stato sede del Capo della Religione Cattolica! mi recai a far visita al vice-legato, che m’invitò a pranzo per il dì seguente. Trovai questo antico edificio così ben conservato, che se mai al papa venisse voglia di soggiornarvi, vi troverebbe ancora comodissimo alloggio.

Erano già scorsi quattro mesi dal giorno della mia partenza da Venezia: è vero ch’ero stato malato a Bologna, ma dopo mi ero anche assai divertito; onde cominciai a temere, che la lentezza del mio viaggio non mi facesse qualche demerito nell’animo di coloro che mi aspettavano a Parigi. Arrivato infatti a Lione, trovai una lettera del signor Zannuzzi con rimproveri, a dir vero, un poco risentiti, ma non tanto forti quanto mi meritavo. L’uomo è un essere inconcepibile, indefinibile. Neppure io stesso saprei render conto dei motivi, che mi fanno talvolta operare contro i miei principii e le mie idee. Benchè animato talvolta dalla miglior volontà del mondo di attendere alla cosa che più m’importa, trovo, cammin facendo, meschinità ed inezie che mi trattengono, o mi distornano. Un innocente piacere, una garbata compiacenza, una curiosità, un consiglio amichevole, un impegno inconcludente non possono dirsi abiti viziosi, ma s’incontrano per altro alcuni casi nei quali anco la menoma distrazione può essere dannosa; e da tali distrazioni appunto non ho mai potuto difendermi. La lettera trovata al mio arrivo in Lione avrebbe dovuto farmi partire nell’istante; ma come mai avrei potuto lasciare una delle più belle città della Francia senza darle un’occhiata? Potevo io tralasciare di veder da vicino quelle manifatture, che somministrano all’Europa tante eccellenti stoffe, tanti disegni diversi? Alloggiai al Parco Reale, e vi restai dieci giorni; mi sarà forse detto: bisognavano dieci giorni per esaminare le rarità di Lione? No; ma non erano troppi per accettare i tanti pranzi e le tante cene che da quei ricchi fabbricatori mi venivano offerte a gara. Inoltre non facevo torto ad alcuno, poichè i miei onorarli a Parigi non dovevano correre che dal giorno del mio arrivo; e supposto anche che i comici italiani avessero avuto bisogno di me, ero ben sicuro che dopo il mio arrivo sarebbero stati compensati dalla mia operosità.

Ma questo bisogno era cessato, essendo stata unita nel tempo del mio viaggio l’opera buffa alla commedia italiana. Il nuovo genere era preferito all’antico, e gl’Italiani che per l’avanti erano riguardati come il sostegno del teatro, divennero soltanto le parti accessorie di un tale spettacolo. In Lione seppi questa novità, ma non però in modo da farmi concepire quel rincrescimento che ne dovevo