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258 parte seconda


avrei durato fatica a ripatriare; ed oltre a ciò, divenuto precario il mio stato, io pensava che sarebbe stato necessario il sostenerlo con assidui e laboriosi lavori: mentre temevo sommamente i tristi giorni della vecchiezza, nei quali diminuiscono le forze ed i bisogni crescono. Ne feci parola a tutti gli amici, e a tutti i miei protettori di Venezia, e feci loro vedere, che per me non riguardavo il viaggio di Francia come una partita di piacere, ma che bensì era forza l’attendervi per la gran ragione di assicurarmi una volta uno stato. Aggiunsi anche a codeste persone, le quali dimostravano il desiderio che io stessi in Venezia, che nella mia qualità di avvocato potevo ottare benissimo a qualunque sorta d’impiego, ed ancora alle cariche della magistratura, e terminai il mio discorso con la sincera non meno che decisiva protesta, che allorquando mi si fosse assicurato uno stato in Venezia, o questo fosse a titolo d’impiego o di pensione, avrei preferito certamente la mia patria a tutto il resto dell’universo.

Il mio discorso fu udito con molto piacere e con somma attenzione; furono trovate giuste le mie osservazioni, onesto il mio procedere; tutti quanti assunsero l’incarico di cercar mezzi per appagare le mie brame. Si tennero diverse adunanze sul mio proposito, ed eccone il resultato. In uno Stato repubblicano le grazie non sono concesse che per la pluralità dei voti, ed è necessario che i postulanti chiedano e richiedano per lungo tempo avanti di poter esser mandati a partito: riguardo poi alle pensioni, «se vi è concorso di postulanti le arti utili hanno sempre la preferenza su gli ingegni piacevoli e rinomati. Questa osservazione doveva bastare assolutamente per determinarmi a non più pensarvi.

Scrissi adunque a Parma, ed ottenni il permesso di partire; superai con un poco di pena l’opposizione del proprietario del teatro San Luca; e allorquando mi vidi in libertà, diedi parola all’ambasciadore di Francia, e ne passai per conseguenza l’avviso al signor Zannuzzi a Parigi; ma siccome era troppo giusto assegnare un tempo conveniente ai miei comici per provvedersi di un compositore, la mia partenza da Venezia restò fissata per il mese di aprile dell’anno 1761. In quest’intervallo scrissi tre commedie, la prima delle quali era intitolata Todero Brontolon, commedia veneziana. Fuvvi un vecchio in Venezia, ma non so precisamente quando, chiamato Todero, l’uomo più aspro, più fastidioso e più incomodo del mondo, il quale lasciò di sè una reputazione sì buona che allorquando s’incontra anche adesso in Venezia, un uomo garritore, si chiama subito Teodoro Brontolon. Conoscevo uno di questi vecchi di umor nero, che teneva in iscompiglio tutta la sua famiglia, e principalmente la nuora, donna bellissima ed amabile resa anche maggiormente infelice dal proprio marito che tremava al solo aspetto del vecchio padre. Volli vendicare questa brava donna che io vedeva spessissimo, delineando nell’istesso quadro il ritratto del suocero e del marito; ella, essendo a parte del segreto, ebbe piacere più degli altri del buon incontro della commedia, perchè gli originali avean riconosciuto benissimo sè stessi; ed in fatti li vide entrambi tornare dalla commedia uno in furia, e l’altro umiliato.

Eccovi pertanto un ristretto della favola da me immaginata sulle tracce di tali caratteri istorici. Todero è un ricco negoziante che tiene sotto il giogo della più dura ed umiliante dipendenza Pellegrino suo figlio, e Marcolina sua nuora, i quali non sono ragazzi, poichè Zanetta, loro figlia, è da marito. Questo assoluto e dispo-