Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/XII
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CAPITOLO XII.
- Séguito de’ miei penosi lavori. — Ingratitudine del direttore. — Proposta della prima edizione del mio Teatro. — Primo volume delle mie opere. — Mio viaggio a Torino. — Alcune parole sopra questa città. — Molière, commedia in cinque atti, ed in versi. — Istoria di questo lavoro. — Suo buon successo in Torino. — Mio viaggio a Genova. — Mio ritorno a Venezia. — Prima rappresentazione del Molière in questa capitale. — Sua bella riuscita.
Molta era la felicità che nell’età di quarantatrè anni io possedeva nell’invenzione ed esecuzione de’ miei temi: ma finalmente ero uomo come gli altri; ed essendo alterata dall’assiduità del lavoro la mia salute, caddi malato, e così pagai il fio della mia follia. Sottoposto, secondo il mio solito, a qualche accesso d’ipocondria, che assaliva in un tempo medesimo e corpo e spirito, sentii che si rinnovava nel mio individuo con maggior violenza di prima. Ero spossato dalla fatica, ma l’afflizione contribuiva non poco all’attuale mio stato: bisogna dir tutto; ormai non debbo nascondere nulla al mio lettore.
Nel corso di un anno avevo scritto sedici commedie, e quantunque il direttore non le avesse richieste, pure non lasciò di trarne profitto. Qual vantaggio ne aveva io ricavato per me? Neppure un obolo sopra il prezzo convenuto per un anno. Neppur la minima gratificazione; molti elogi, molti complimenti, mai però la più piccola riconoscenza. N’ero dolente, ma non ne facevo parola. Frattanto non vivendosi di gloria, non restavami altro partito che la stampa delle mie opere. Ebbene chi lo avrebbe mai creduto? Il Medebac istesso vi si oppose, e alcuni de’ suoi protettori gli davano ragione. Costui mi contrastava quello che è diritto di ogni autore, col pretesto di aver comprate le mie opere. Siccome dovevo ancora star qualche tempo con lui, non potevo, o, per meglio dire, non volevo essere in lite con quelle persone appunto che necessariamente dovevo vedere ogni giorno. Troppo ero amico della mia pace per sacrificarla all’interesse; onde cedetti le mie pretensioni, mi contentai del permesso di far stampare ogni anno un sol volume delle mie commedie, e conobbi bene, da questo singoiar permesso appunto, che il Medebac faceva conto che io fossi addetto a lui per tutta la mia vita. Io però aspettava il termine del quinquennio per fargli i miei ringraziamenti. Diedi adunque i manoscritti di quattro mie commedie al libraio signor Antonio Bettinelli, da cui fu intrapresa la prima edizione del mio Teatro, e ne fu pubblicato il primo volume in Venezia l’anno 1751. Siccome la compagnia de’ miei comici doveva passare la primavera e l’estate in Torino, pensai che la mutazione dell’aria ed il divertimento di un viaggio potessero contribuire al ristabilimento della mia salute. Seguitai perciò con tal fine la compagnia a mie spese, ed essendo nell’intenzione di portarmi poi anche a Genova condussi meco la cara mia compagna.
Non conoscevo Torino, e lo trovai delizioso. L’uniformità delle fabbriche nelle strade principali produce un colpo d’occhio graziosissimo, e sono parimente bellissime le sue piazze e le sue chiese. La fortezza offre una stupenda passeggiata, e nelle abitazioni reali, tanto in città come in campagna, vi si trova gusto e magnificenza. I Torinesi poi sono per loro natura molto garbati, molto puliti, partecipando assai dei costumi ed usi dei Francesi, dei quali parlano la lingua con tutta dimestichezza; anzi, vedendo arrivare nella lor patria un Milanese, un Veneziano, o un Genovese, hanno perfino l’abitudine di dire: Ecco un Italiano. In Torino pure si recitavano dai miei comici le mie commedie, ed erano frequentate ed anche applaudite, quantunque vi fossero alcuni esseri singolari che dicevano a ciascuna delle mie novità: C’est bon, mais ce n’est pas de Molière; veramente mi si onorava più di quello che meritavo, non avendo io mai avuto la pretensione di esser messo a confronto dell’autore francese; sapevo bensì, che tutti quelli i quali davano un giudizio così vago e poco ragionato non andavano allo spettacolo, se non se per girare i palchetti e farvi crocchio. Conoscevo benissimo il Molière, e rispettavo questo maestro dell’arte al pari dei Piemontesi; per questo appunto mi venne voglia di dar loro sopra di ciò una prova convincentissima. Composi subito una commedia in cinque atti, ed in versi a scena fissa, e senza maschere, il cui titolo ed il soggetto principale era Molière medesimo. Due aneddoti della sua vita privata me ne porsero argomento. Il primo è il suo matrimonio ideato con Isabella, figlia della Bejard, e l’altro la proibizione del suo Tartufo. Questi due fatti istorici così bene si prestano l’uno all’altro, che l’unità dell’azione osservasi perfettamente. Agli impostori di Parigi, inviperiti contro la commedia di Molière, giunse la notizia che l’autore aveva spedito al campo di Luigi XIV una domanda per ottenere dal medesimo la permissione di esporla sul teatro; erano adunque nel timore che gli venisse concessa la revoca della proibizione. Feci prender parte in questa commedia ad un uomo della lor classe chiamato Pirlone, ipocrita in tutto il rigor del termine, il quale s’introduce nella casa dell’autore, e scopre alla Bejard l’amore del Molière con la sua figlia, alla medesima ignoto, persuadendola a lasciare il suo compagno e direttore. Fa l’istesso con Isabella, e le pone in vista lo stato di commediante come la strada della perdizione, procurando inoltre di sedurre la Forêt, loro serva che, assai più ancora delle padrone, burla chi voleva burlar lei, rendendo l’ipocrita amante, e togliendogli ferraiuolo e cappello, dei quali fa dono al Molière, che comparisce in scena con le vesti stesse dell’impostore. Ebbi anche l’ardire di rappresentare nella mia commedia un ipocrita molto più espressivo di quello del Molière; bene è vero però che allora i falsi devoti avevano perduto in Italia non poco del loro antico credito. Nell’intervallo fra gli ultimi due atti della mia commedia si finge che sia recitato L’Ipocrita del Molière sul teatro di Borgogna: al quint’atto tutti i personaggi della mia commedia vengono a complimentar il Molière, e in questo mentre appunto Pirlone, nascosto in uno stanzino, ove aspettava la Forêt, esce suo malgrado alla vista di ciascuno, tollerando tutti i sarcasmi ben da lui meritati. Il Molière poi per colmo della sua gioia e felicità sposa Isabella a dispetto di sua madre, che aspettava a conquistare chi era per essere genero di lei. In questa commedia vi sono molti particolari relativi alla morte del Molière. Il Baron, comico della compagnia del Molière, era figurato dal personaggio di Valerio; Leandro era il ritratto del De la Chapelle amico dell’autore, conosciutissimo nella sua istoria; ed il conte Lasca rappresentava uno di quei Piemontesi che giudicavano le composizioni teatrali senza averle vedute mettendo a confronto male a proposito con l’autore francese il veneziano, che è quanto dire lo scolaro col maestro. Questa commedia è in versi, e benchè avessi fatto tragicommedie in versi sciolti, ciò nonostante questa fu la prima commedia da me composta in versi con rima. Siccome si trattava di un autor francese che aveva molto scritto in questo stile, bisognava imitarlo; onde non trovai se non se i versi chiamati martelliani, che più si accostassero agli alessandrini; di questo genere di versificazione ho fatto già parola nel capitolo XVII della prima parte delle mie Memorie.
Terminata la mia composizione e distribuite le parti, ne feci fare in Torino due prove, indi partii per Genova senza vederla rappresentare. I comici ed alcuni altri della città erano al fatto dell’allegoria del conte Lasca, onde gli avevo incaricati di darmene notizia: seppi dunque alcuni giorni dopo, che la commedia aveva avuto un gran successo, che era stato perfin riconosciuto l’originale della critica, e che il medesimo si era dimostrato ingenuo a segno da confessare apertamente di esserne meritevole.
In Genova mi trattenni tutto il tempo dell’estate, conducendovi una vita deliziosa, e nel più perfetto riposo. Ah! quanto è dolce, ed in special modo dopo aver molto lavorato, passar qualche giorno senza far nulla! Frattanto andavamo a gran passi avvicinandoci alla stagione dell’autunno, ed il tempo cominciava a raffrescare; ripresi dunque quella strada che ricondur doveami al luogo del mio lavoro. Giunto a Venezia, trovai stampato il mio primo volume, e qualche danaro dal mio libraio: ricevei nel tempo stesso un orologio d’oro, una tabacchiera dell’istesso metallo, ed un vassoio d’argento con cioccolata, unitamente a quattro paia di manichetti di punto di Venezia. Questi erano i regali di quelle persone alle quali avevo dedicato le mie prime quattro Commedie.
Alcuni giorni dopo arrivò anche il Medebac, e mi parlò molto dell’incontro del mio Molière in Torino: e siccome avevo gran desiderio di vederlo rappresentare, andò in scena in Venezia nel mese di ottobre del 1751. Questa commedia conteneva due novità in una: quella del soggetto e quella della versificazione. Infatti i versi martelliani erano già in dimenticanza, poichè la monotonia della cesura, e la rima troppo frequente e sempre accoppiata, avevano già disgustato le orecchie italiane, nel tempo in cui viveva ancora il loro autore; onde tutti erano preoccupati contro di me che pretendevo di far rivivere un genere di versi già proscritto. L’effetto però smentì la preoccupazione; i miei versi piacquero quanto la rappresentazione, dimodochè per voce pubblica il Molière ebbe posto accanto alla Pamela.