Memorie di Carlo Goldoni/Parte seconda/XI

XI

../X ../XII IncludiIntestazione 30 novembre 2019 100% Da definire

Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
XI
Parte seconda - X Parte seconda - XII

[p. 174 modifica]

CAPITOLO XI.

L’Incognita, commedia romanzesca di tre atti in prosa. — L’Avventuriere onorato, commedia di tre atti in prosa. — Analogia del protagonista con l’autore. — La Moglie capricciosa, I Pettegolezzi, commedia di tre atti ed in prosa. — Fortunato successo di queste quattro commedie. — Adempimento del mio impegno. — Soddisfazione del pubblico.

Dopo la Pamela, e sopratutto nel tempo dell’esito equivoco del Cavalier di buon gusto e la caduta del Giuocatore, i miei amici volevano assolutamente qualche altro soggetto romanzesco, affine, dicevano essi, di risparmiarmi la pena dell’invenzione. Stanco delle loro instigazioni terminai la questione con dire, che invece di leggere un romanzo per farne una commedia, avrei più gradito, comporre una commedia da cui potesse ricavarsi un romanzo. Alcuni si misero a ridere, altri mi presero in parola: Fateci dunque, mi dissero, un romanzo in azione, o almeno una commedia intrecciata quanto un romanzo. — Sì, ve la farò. — Sì? — Sì, in parola d’onore. — Ritorno in casa, e caldo del mio nuovo impegno, do’ principio alla commedia ed al romanzo nel tempo stesso, senza avere soggetto nè per l’una nè per l’altro: è necessario, dicevo tra me medesimo, molto intreccio, sorpresa, maraviglia, e a un tempo stesso vivacità e sentimento comico e patetico. Una eroina richiamerebbe forse l’attenzione più che un eroe; ma dove andrò io a cercarla? Vedremo. Per ora prendiamo per protagonista una incognita; e getto addirittura sulla carta L’Incognita, commedia, Atto primo, Scena prima. Questa donna per altro deve avere un nome; oh! sì certamente: ebbene, diamole quello di Rosaura. Va benissimo: ma dovrà essa poi venir sola sola a dare al pubblico le prime notizie dell’argomento? questo no, poichè sarebbe un difetto delle antiche commedie. Facciamola pertanto comparire con... sì: con Florindo... Rosaura, e Florindo. Ecco come incominciai e continuai l’Incognita, fabbricando un vasto edifizio, senza sapere se ne formavo un tempio, o un ridotto. Ogni scena me ne produceva una seconda, ed ogni avvenimento me ne faceva nascer quattro, onde alla fine del primo atto il quadro era già sbozzato, nè altro mancava se non che riempirlo. Io medesimo era stupito della quantità e novità degl’incidenti somministratimi dall’immaginazione.

Al termine del secondo atto pensai allo scioglimento, anzi fin d’allora incominciai a prepararlo perchè riuscisse appunto e maraviglioso e inaspettato, ma non tale da sembrare disceso dal cielo. Il fondo sostanziale adunque della commedia consiste nel soggetto di una figlia incognita, affidata nella sua infanzia da un forestiero ad una contadina, con danaro bastante per impegnarla ad averne tutta la cura. Questa ragazza divien grande, bella, benfatta, ed ha due amanti, Florindo l’uno, che realmente essa ama, Lelio [p. 175 modifica] l’altro, per lei insopportabile. Rapita dal primo, il secondo la séguita, onde si trova ora in potere dell’uno, ora in potere dell’altro, ma sempre però in condizioni da non far temere per la sua innocenza. In tale stato trova un protettore zelante; la moglie di lui ne è gelosa, ed ecco nuove disgrazie, nuovi casi: essa passa da una sventura all’altra; divien sospetta, è arrestata, è rinchiusa; insomma è lo scherzo della fortuna. In una parola la commedia ed il romanzo terminano secondo il solito: Rosaura si cangia nella contessa Teodora, figlia d’un nobile napoletano, e dà la mano a Florindo a lei eguale di condizione. I miei amici ne furono contenti, come pure il pubblico, confessando tutti unanimemente, che la mia commedia avrebbe potuto somministrare materiali sufficienti per un romanzo di quattro grossi volumi in ottavo.

Fresco di una commedia romanzesca, misi mano ad un altro soggetto, che per quanto non presentasse alcun che di maraviglioso, poteva esser collocato nulladimeno nella classe dei Tom-Jones, dei Tompson, dei Robinsons, e dei loro simili, per motivo delle singolari sue combinazioni. Il protagonista per altro aveva qualche principio storico, poichè se l’Avventuriere onorato, che dà il titolo alla commedia, non è in tutto e per tutto il mio vero ritratto, ha provato almeno tali avvenimenti, ed ha egli pure esercitato tanti mestieri, quanti ne ho provati ed esercitati io stesso; onde, siccome il pubblico, applaudendo questa composizione, mi faceva la grazia di appropriarmi fatti e massime che mi facevano onore, non potei occultare di essermi dato un’occhiata nel comporla. Frattanto la mia produzione, e per la parte isterica e per la favolosa, fu ricevuta nella più favorevole guisa. L’Avventuriere onorato ebbe un successo quanto deciso altrettanto costante, e mi compiacqui al tempo stesso e del buon incontro della composizione, e dell’onore dell’allegoria. Era però necessario l’escire una volta da questo genere di commedie di sentimento, e ritornare di nuovo ai caratteri e al vero comico, molto più che eravamo prossimi alla fine del carnevale, e per conseguenza nella necessità di ravvivare lo spettacolo ponendolo a portata di chicchessia. La Donna volubile fu dunque la penultima composizione dell’anno. Avevamo appunto nella compagnia un’attrice, ch’era la donna più capricciosa del mondo; non feci altro che farne la copia, onde alla signora Medebac, che ne conosceva bene l’originale, non dispiacque, benchè buona come essa era, di burlarsi un poco della compagna. Un carattere di tal sorte per sè stesso è molto comico, ma potrebbe bensì facilmente divenir noioso, quando non fosse sostenuto da scene e tratti piacevoli. La continua mutazione delle mode, delle cuffie, come dei divertimenti, può, è vero, fornir materia a ridicolezze, ma per rendere la donna volubile un soggetto propriamente da commedia, bisogna che ne somministrino il ridicolo i capricci dell’animo. Una donna poco fa amante, che un’ora dopo non vuol più amare, e che nel tempo stesso in cui spaccia massime rigide, si accende di una passione del tutto contraria alla sua maniera di pensare, ecco il personaggio comico. Lo scioglimento della commedia è quello appunto, che convenir poteva a una follia meritevole di correzione; infatti determinatasi finalmente Rosaura al matrimonio, tutti l’evitano, nessuno vuol saperne nulla. La signora Medebac sostenne la sua parte a perfezione, e la sua dolcezza naturale fece spiccare a maraviglia la dappocaggine della donna volubile; onde questa commedia ebbe il maggiore effetto desiderabile. Restavami ancora da dare una sola commedia nell’anno per adempire pienamente al mio impegno. [p. 176 modifica] Ma eravamo alla penultima domenica del carnevale e non avevo ancora scritto un verso di quest’ultima commedia, nè l’avevo peranche immaginata. Esco quell’istesso giorno di casa, e per distrarmi vado in piazza di San Marco, osservando se qualche maschera, ciarlatano, mi avesse somministrato il soggetto di una commedia, o d’una comparsa spettacolosa per gli ultimi giorni del carnevale. Sotto l’arco dell’orologio m’imbatto appunto in un uomo, che mi dà ad un tratto nell’occhio, e che mi presenta il ricercato soggetto. Costui era un vecchio armeno, mal vestito, molto sudicio e con lunga barba, il quale andava girando le strade di Venezia, vendendo frutte secche, all’uso del suo paese, alle quali dava il nome di abagigi. Quest’uomo, che s’incontrava per tutto, e che aveva incontrato io medesimo parecchie volte, era sì noto e così deriso, che volendo burlarsi di una giovane, la quale avesse cercato marito, le si proponeva subito Abagigi. Non ci volle altro perchè io ritornassi a casa contentissimo. Entro, mi chiudo immediatamente nello studiolo ed immagino una commedia popolare intitolata I Pettegolezzi. Sotto questo titolo appunto essa viene esposta in Parigi sul teatro comico italiano, tradotta in francese dal signor Riccoboni il giovine. Il traduttore però ha destramente variato il personaggio di Abagigi, ignoto in Francia, in quello di un ebreo mercante d’occhiali; ma nè l’ebreo in francese, nè l’armeno in italiano sostengono le parti di protagonisti, poichè ad altro ambedue non servono, se non a formare il nodo della favola. — Frattanto ecco in compendio l’oggetto principale di questa commedia, felicemente riuscita nelle due lingue. Checchina passa per figlia di un marinaro veneziano, a cui essa era stata affidata fino dalla sua infanzia. Giunta all’età nubile, le si trova un conveniente partito; ma nascono pettegolezzi che guastano tutto. Una donna ammessa al segreto, confida ad una delle sue amiche, che Checchina non è altrimenti figlia del marinaro; costei rifà il discorso ad un’altra, e così di bocca in bocca, d’orecchio in orecchio (sempre però col patto della circospezione) si divulga l’arcano. Ecco pertanto riguardata la giovine promessa in matrimonio come bastarda, ed ecco per tal ragione interrotte le nozze. Giunge a Venezia il vero padre della fanciulla, che torna dalla schiavitù, e sembra alle maniere Levantino; trovatosi egli per caso con l’armeno mercante di abagigi, vengono presi in scambio l’uno per l’altro, e per questo solo motivo Checchina si crede figlia di quel brutto barbone. Ecco nuovi pettegolezzi: basta che a una donna sola ne nasca il dubbio, perchè tutto il quartiere sia dell’istesso sentimento. Checchina dunque è disprezzata, le si ride in faccia, si chiama signorina Abagigi ed è ridotta alla disperazione. Finalmente il padre putativo ed il vero un giorno s’incontrano. Si viene in chiaro di tutto; Checchina pertanto ritorna al suo stato, sposa il suo pretendente, mutan tono i pettegolezzi, e così termina la commedia molto allegramente. Non potè per la prima volta andare in scena che il martedì grasso, e fece la chiusura del carnevale. Il concorso poi fu così grande e straordinario, che il costo dei palchetti aumentò del triplo e quadruplo, e furono a tal segno tumultuosi gli applausi, che la gente di fuori era in dubbio, se ciò fosse effetto della pubblica contentezza o di una generale sollevazione. Io me ne stava nel mio palchetto molto in pace, attorniato da’ miei amici che piangevano dal contento. Tutto ad un tratto viene a cercarmi una folla di persone, che mi obbliga ad escire, mi porta e mi trascina mio malgrado al Ridotto, mi fa passeggiare di stanza in stanza, e mi fa raccogliere [p. 177 modifica] complimenti e congratulazioni che volentieri avrei evitate, se mi fosse stato possibile. Troppo stancò per sostenere una cerimonia di tal sorte, ed oltreciò non sapendo d’onde nascesse l’entusiasmo di quel momento, mi dispiaceva che quella commedia fosse posta al di sopra di tant’altre che mi erano assai più care. Rintracciai bensì a poco a poco il motivo di una così universale acclamazione. Questo era il trionfo dell’adempito mio impegno.