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178 | parte seconda |
Seguitai perciò con tal fine la compagnia a mie spese, ed essendo nell’intenzione di portarmi poi anche a Genova condussi meco la cara mia compagna.
Non conoscevo Torino, e lo trovai delizioso. L’uniformità delle fabbriche nelle strade principali produce un colpo d’occhio graziosissimo, e sono parimente bellissime le sue piazze e le sue chiese. La fortezza offre una stupenda passeggiata, e nelle abitazioni reali, tanto in città come in campagna, vi si trova gusto e magnificenza. I Torinesi poi sono per loro natura molto garbati, molto puliti, partecipando assai dei costumi ed usi dei Francesi, dei quali parlano la lingua con tutta dimestichezza; anzi, vedendo arrivare nella lor patria un Milanese, un Veneziano, o un Genovese, hanno perfino l’abitudine di dire: Ecco un Italiano. In Torino pure si recitavano dai miei comici le mie commedie, ed erano frequentate ed anche applaudite, quantunque vi fossero alcuni esseri singolari che dicevano a ciascuna delle mie novità: C’est bon, mais ce n’est pas de Molière; veramente mi si onorava più di quello che meritavo, non avendo io mai avuto la pretensione di esser messo a confronto dell’autore francese; sapevo bensì, che tutti quelli i quali davano un giudizio così vago e poco ragionato non andavano allo spettacolo, se non se per girare i palchetti e farvi crocchio. Conoscevo benissimo il Molière, e rispettavo questo maestro dell’arte al pari dei Piemontesi; per questo appunto mi venne voglia di dar loro sopra di ciò una prova convincentissima. Composi subito una commedia in cinque atti, ed in versi a scena fissa, e senza maschere, il cui titolo ed il soggetto principale era Molière medesimo. Due aneddoti della sua vita privata me ne porsero argomento. Il primo è il suo matrimonio ideato con Isabella, figlia della Bejard, e l’altro la proibizione del suo Tartufo. Questi due fatti istorici così bene si prestano l’uno all’altro, che l’unità dell’azione osservasi perfettamente. Agli impostori di Parigi, inviperiti contro la commedia di Molière, giunse la notizia che l’autore aveva spedito al campo di Luigi XIV una domanda per ottenere dal medesimo la permissione di esporla sul teatro; erano adunque nel timore che gli venisse concessa la revoca della proibizione. Feci prender parte in questa commedia ad un uomo della lor classe chiamato Pirlone, ipocrita in tutto il rigor del termine, il quale s’introduce nella casa dell’autore, e scopre alla Bejard l’amore del Molière con la sua figlia, alla medesima ignoto, persuadendola a lasciare il suo compagno e direttore. Fa l’istesso con Isabella, e le pone in vista lo stato di commediante come la strada della perdizione, procurando inoltre di sedurre la Forêt, loro serva che, assai più ancora delle padrone, burla chi voleva burlar lei, rendendo l’ipocrita amante, e togliendogli ferraiuolo e cappello, dei quali fa dono al Molière, che comparisce in scena con le vesti stesse dell’impostore. Ebbi anche l’ardire di rappresentare nella mia commedia un ipocrita molto più espressivo di quello del Molière; bene è vero però che allora i falsi devoti avevano perduto in Italia non poco del loro antico credito. Nell’intervallo fra gli ultimi due atti della mia commedia si finge che sia recitato L’Ipocrita del Molière sul teatro di Borgogna: al quint’atto tutti i personaggi della mia commedia vengono a complimentar il Molière, e in questo mentre appunto Pirlone, nascosto in uno stanzino, ove aspettava la Forêt, esce suo malgrado alla vista di ciascuno, tollerando tutti i sarcasmi ben da lui meritati. Il Molière poi per colmo della sua gioia e felicità sposa Isabella a dispetto di sua madre, che aspettava a conquistare chi era per essere