Ma eravamo alla penultima domenica del carnevale e non avevo ancora scritto un verso di quest’ultima commedia, nè l’avevo peranche immaginata. Esco quell’istesso giorno di casa, e per distrarmi vado in piazza di San Marco, osservando se qualche maschera, ciarlatano, mi avesse somministrato il soggetto di una commedia, o d’una comparsa spettacolosa per gli ultimi giorni del carnevale. Sotto l’arco dell’orologio m’imbatto appunto in un uomo, che mi dà ad un tratto nell’occhio, e che mi presenta il ricercato soggetto. Costui era un vecchio armeno, mal vestito, molto sudicio e con lunga barba, il quale andava girando le strade di Venezia, vendendo frutte secche, all’uso del suo paese, alle quali dava il nome di abagigi. Quest’uomo, che s’incontrava per tutto, e che aveva incontrato io medesimo parecchie volte, era sì noto e così deriso, che volendo burlarsi di una giovane, la quale avesse cercato marito, le si proponeva subito Abagigi. Non ci volle altro perchè io ritornassi a casa contentissimo. Entro, mi chiudo immediatamente nello studiolo ed immagino una commedia popolare intitolata I Pettegolezzi. Sotto questo titolo appunto essa viene esposta in Parigi sul teatro comico italiano, tradotta in francese dal signor Riccoboni il giovine. Il traduttore però ha destramente variato il personaggio di Abagigi, ignoto in Francia, in quello di un ebreo mercante d’occhiali; ma nè l’ebreo in francese, nè l’armeno in italiano sostengono le parti di protagonisti, poichè ad altro ambedue non servono, se non a formare il nodo della favola. — Frattanto ecco in compendio l’oggetto principale di questa commedia, felicemente riuscita nelle due lingue. Checchina passa per figlia di un marinaro veneziano, a cui essa era stata affidata fino dalla sua infanzia. Giunta all’età nubile, le si trova un conveniente partito; ma nascono pettegolezzi che guastano tutto. Una donna ammessa al segreto, confida ad una delle sue amiche, che Checchina non è altrimenti figlia del marinaro; costei rifà il discorso ad un’altra, e così di bocca in bocca, d’orecchio in orecchio (sempre però col patto della circospezione) si divulga l’arcano. Ecco pertanto riguardata la giovine promessa in matrimonio come bastarda, ed ecco per tal ragione interrotte le nozze. Giunge a Venezia il vero padre della fanciulla, che torna dalla schiavitù, e sembra alle maniere Levantino; trovatosi egli per caso con l’armeno mercante di abagigi, vengono presi in scambio l’uno per l’altro, e per questo solo motivo Checchina si crede figlia di quel brutto barbone. Ecco nuovi pettegolezzi: basta che a una donna sola ne nasca il dubbio, perchè tutto il quartiere sia dell’istesso sentimento. Checchina dunque è disprezzata, le si ride in faccia, si chiama signorina Abagigi ed è ridotta alla disperazione. Finalmente il padre putativo ed il vero un giorno s’incontrano. Si viene in chiaro di tutto; Checchina pertanto ritorna al suo stato, sposa il suo pretendente, mutan tono i pettegolezzi, e così termina la commedia molto allegramente. Non potè per la prima volta andare in scena che il martedì grasso, e fece la chiusura del carnevale. Il concorso poi fu così grande e straordinario, che il costo dei palchetti aumentò del triplo e quadruplo, e furono a tal segno tumultuosi gli applausi, che la gente di fuori era in dubbio, se ciò fosse effetto della pubblica contentezza o di una generale sollevazione. Io me ne stava nel mio palchetto molto in pace, attorniato da’ miei amici che piangevano dal contento. Tutto ad un tratto viene a cercarmi una folla di persone, che mi obbliga ad escire, mi porta e mi trascina mio malgrado al Ridotto, mi fa passeggiare di stanza in stanza, e mi fa raccogliere