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capitolo i | 147 |
aveva ancora recitato a viso scoperto, nel che appunto era capace di fare la più bella figura. Non ardiva esporsi nelle commedie da me fatte per il Pantalone Golinetti al teatro di San Samuele, ed io pure ne conveniva per quella gran ragione, che le prime impressioni non si cancellano così facilmente; onde torna sempre bene l’evitare i confronti, per quanto è possibile. Non poteva dunque il Darbes comparire che nella commedia veneziana da me lavorata espressamente per lui, e quantunque dubitassi con fondamento che Tonino bella-grazia non valesse quanto il Cortesan veneziano, pure bisognava arrischiarne il tentativo.
Se ne fecero le prove. I comici ridevano come pazzi, ed io al par di loro. Fummo perciò d’opinione che il pubblico potesse far l’istesso; ma questo pubblico appunto, che comunemente dicesi non aver testa, l’ebbe in ciò così ferma e decisa fin dalla prima rappresentazione di questa commedia, che fui costretto a ritirarla nel momento. In simili casi non è stato mai mio costume scagliarmi contro gli spettatori o i comici. Mi son sempre rifatto dall’esaminar me medesimo freddamente, e appunto questa volta conobbi d’avere io tutto il torto.
Una commedia andata a terra non merita che se ne dia l’estratto; il male è che è stampata; peggio per me e per quelli che si daranno la pena di leggerla. Dirò solamente per procurar qualche scusa alle mie mancanze, che quando scrissi questa commedia ero fuori di esercizio da quattr’anni; che avevo la testa piena di occupazioni relative al mio stato; che avevo dispiaceri, ch’ero di cattivo umore, e che per colmo di disgrazia essa fu trovata buona dagl’istessi comici. Facemmo a mezzo dello sbaglio, e a mezzo ne pagammo la pena. Il povero Darbes era mortificatissimo; bisognava ingegnarsi di consolarlo. A tale oggetto intrapresi subito una nuova composizione dell’istesso genere, facendolo comparire con la maschera in una commedia nella quale acquistò molto onore, e che ebbe un fortunatissimo successo. Era questa L’Uomo prudente, commedia in prosa, e di tre atti. Pantalone, ricco negoziante veneto, stabilito a Sorrento nel regno di Napoli, aveva due figli del primo letto, Ottavio e Rosaura, ed era per ammogliarsi con Beatrice, figlia d’un mercante del medesimo luogo.
Pessimo parentado. La matrigna era una civetta, e di cattivo carattere, il figliastro libertino e la giovine una sciocca; Beatrice aveva i suoi cicisbei, il giovine le sue belle, la signorina i suoi intrighi. Pantalone, uomo saggio e prudente, procura di vincerli con la dolcezza e nulla conclude; prova a minacciarli; le minaccie irritan costoro maggiormente, e l’urto li mette in disperazione. Beatrice furiosa, ed instigata da’ malvagi consigli delle persone che ha sempre attorno, porta la sua collera e la sua malignità fino al punto di disfarsi di suo marito: con questa idea guadagna ed impegna nel delitto anche il suo figliastro, scellerato ed indegno quanto la matrigna; questi provvede il veleno, e l’altra coglie il momento che il cuoco è in faccende per gettare un po’ d’arsenico nella zuppa destinata al rispettabile vecchio. Rosaura possiede una cagna che ama alla follia; volendo farle far colazione si serve di una parte di quella zuppa. La cagna ne mangia, cade convulsa, muore. Rosaura è in disperazione. Ne fa al suo amante la confidenza; egli indovina d’onde viene il colpo, nè può avere altro sospetto che sulla matrigna e sul figliastro; s’adopera dunque a tutt’uomo per la vita di Pantalone, e si porta subito a denunziare il delitto. La giustizia si assicura di Beatrice e di Ottavio. L’uomo