Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XXXIV

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO XXXIV.

Verona. — Suo anfiteatro opera de’ Romani. — Commedia di giorno contro l’uso d’Italia. — Fortunato incontro — Lettura ed accoglienza del mio Belisario. — Mia prima lega con i comici.

Cammin facendo nella sassosa pianura da Brescia a Verona, riflettevo sopra i miei avvenimenti, ora buoni, ora cattivi, trovando sempre il male accanto al bene, e il bene accanto al male. L’ultimo compenso avuto in Brescia fissò maggiormente il mio pensiero. Sono spogliato da birbanti, da un birbante mi vien dato soccorso. Com’è possibile, che in un cuore delittuoso possa penetrar la virtù? No: Scacciati non fu generoso verso di me che per amor proprio o per ostentazione. Qualunque però sia il motivo che lo determinasse, gli dovrò sempre riconoscenza.

La provvidenza usa diversi mezzi per dispensare i suoi favori: servesi spesso del malvagio per soccorrere l’uomo di garbo, e noi dobbiamo sempre benedire l’autore del benefizio, ed esser grati a chi ne fu il mezzo secondario. Arrivato a Desenzano, desinai in quella medesima osteria sul lago di Garda, ove ero stato ad alloggiare per due volte, ed arrivai a Verona sul far della notte. Verona è una delle belle città d’Italia; meriterebbe senza dubbio, che io mi occupassi delle sue bellezze, dei suoi ornamenti, delle sue accademie, e degli ingegni da essa prodotti e coltivati in tutti i tempi; ma una tal digressione mi condurrebbe troppo lungi: mi limiterò pertanto unicamente a far parola di quel monumento che può aver qualche relazione alle presenti mie Memorie. Trovasi in Verona un anfiteatro, opera dei Romani. Non si sa se la sua costruzione rimonti ai tempi di Traiano o di Domiziano: è però tuttora così ben conservato, che se ne può far uso ai nostri giorni, come quando fu costruito. Questo vasto edifizio che si chiama in Italia l’Arena di Verona, è di figura ovale, l’interno suo gran diametro è di dugento venticinque piedi, e il più piccolo ne ha sopra cento trentatrè di larghezza. Quarantacinque gradinate di marmo lo circondano, e possono contenere ventimila persone a sedere col massimo loro comodo. In quello spazio, che ne compone il centro, si danno [p. 96 modifica]spettacoli d’ogni sorte, corse, giostre, combattimenti di tori; e nell’estate vi si recitano inclusive commedie senz’altro lume che quello del giorno naturale. A tale effetto si erige nel mezzo di questa piazza, sopra cavalletti fortissimi, un teatro di legno, che si disfà nell’inverno e che si monta di nuovo nella bella stagione, e vengono le migliori compagnie d’Italia ad esercitarvi a vicenda il loro ingegno. Per gli spettatori non vi sono palchetti, formandosi mediante un bel recinto di panche una vasta platea con sedie. La plebe prende posto con pochissima spesa sulle gradinate, che sono in faccia al teatro, e malgrado la meschinità del prezzo d’ingresso, non vi è platea in Italia che renda quanto l’Arena. Il giorno dopo il mio arrivo, nell’uscir dall’albergo vidi avvisi teatrali, e lessi che si rappresentava in quel giorno Arlecchino muto per timore. Ci vado il dopo pranzo, e mi pongo nel recinto in mezzo all’Arena, ov’era una comitiva numerosissima. S’alza il sipario. I comici dovean fare una scusa per motivo della mutazione della rappresentazione; non si recitava altrimenti il Muto per timore, ma bensì un’altra commedia, del cui titolo adesso più non mi ricordo. Ma qual piacevole maraviglia fu la mia! L’attore che si presenta ad arringare il pubblico, è appunto il mio caro Casali, promotore e proprietario del mio Belisario. Lascio il posto per salir subito sul palco; ma siccome il luogo non era troppo vasto, non mi si voleva lasciar entrare. Cerco del signor Casali; viene, mi vede, rimane in estasi. Mi fa salire, mi presenta al direttore, alla prima attrice, alla seconda, alla terza, a tutta la compagnia. Tutti volean parlarmi: Casali mi strappa dal circolo, e mi conduce dietro una scena; in questo tempo si muta la decorazione, mi trovo allo scoperto, fuggo, son fischiato. Cattivo annunzio per un autore: i Veronesi però mi hanno in seguito molto bene indennizzato di questo piccolo disgusto. Questa compagnia era appunto quella di cui Casali mi aveva parlato a Milano, e che era addetta al teatro Grimani a San Samuel in Venezia, ove andava tutti gli anni per far le sue recite l’autunno e l’inverno, passando poi l’estate, e la primavera in terraferma. Direttore della medesima era il signor Imer genovese, uomo pulitissimo e sommamente garbato, che mi invitò a desinar con lui il giorno dopo, giorno di vacanza; ed io accettai l’invito promettendogli in contraccambio la lettura del mio Belisario. Eravamo tutti d’accordo e contenti. Vado adunque il giorno dipoi a casa del direttore, e vi trovo adunata tutta la compagnia. Voleva Imer fare il regalo ai suoi compagni di una novità di cui Casali gli aveva già avvertiti. Il pranzo era splendido, e l’allegria dei comici piacevolissima. Si facevano brindisi, si cantavano canzonette da tavola. Questa era gente che mi preveniva in ogni cosa; in somma erano arrolatori che facean di tutto per ingaggiarmi. Finito il pranzo, ci radunammo nella camera del direttore, ed io lessi il mio scritto; fu ascoltato con attenzione, e al termine della lettura l’applauso fu completo e generale. Imer, in tuono magistrale, mi prese per la mano, e mi disse: Bravo! Tutti si congratulano meco; Casali piange dal contento. Mi domandò molto cortesemente uno degli attori, se i suoi compagni potevano essere sì fortunati da recitare i primi la mia rappresentazione. Casali si alza, e con deciso tono ripiglia: Sì, signore, il signor Goldoni m’ha fatto l’onore di lavorar per me: e prendendo la composizione, che era restata sulla tavola, soggiunse: Con buona licenza dell’autore vado a farne la copia io medesimo. — E senza aspettar risposta dall’autore la porta seco. Imer mi tira da parte, e mi prega di [p. 97 modifica] accettare un quartiere da servitù che era nell’istessa casa accanto al suo, come pure di non sdegnare la sua tavola per tutto il tempo che la compagnia restava a Verona. Nella condizione in cui ero nulla potevo ricusare.