Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XXXIII
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CAPITOLO XXXIII.
- Ospitalità del Curato di Casal Pusterlengo. — Lettura al medesimo del mio Belisario. — Mio arrivo a Brescia. — Inaspettato incontro in questa città. — Provvedimento spiacevole, ma necessario. — Viaggio a Verona.
Giunto a Casal Pusterlengo pregai il mio conduttore di andar prima ad avvisare il curato del caso succedutomi. Questo buon pastore viene pochi minuti dopo al mio incontro, mi porge la mano, e mi fa salire nella sua casa. Rapito da questa buona accoglienza, rivolgo gli occhi verso il giovine che mi aveva scortato, e ringraziandolo gli manifesto il mio dispiacere di non poter ricompensarlo. Il curato se ne accorge, dà qualche soldo al contadino, che parte contento. Questo è ben poco, ma prova abbastanza la maniera di pensare di un uomo giusto e compassionevole.
In campagna si cena presto. Quando arrivai, la cena del curato era già pronta, nè stetti a far complimenti: egli spartì meco quel che la sua governante gli aveva preparato. La nostra conversazione cadde subito sulla guerra, e raccontai quel che avevo veduto a Parma, a Milano, e a Pizzighettone. Trovatomi adagio adagio giunto ad alcune particolarità sopra i miei impieghi e le mie occupazioni, il discorso, secondo il solito, andò a far capo all’articolo Belisario. Il curato, ecclesiastico savissimo, e sommamente esemplare non condannava gli spettacoli onesti e nel limite del buon costume, e pareva ansioso di sentir la lettura della mia composizione; ma, essendo io per allora molto stanco, fu rimesso questo divertimento al giorno di poi, ed andai a riposarmi in un letto delizioso, ove posi in dimenticanza tutti quanti i miei disgusti, tranquillamente dormendo fino alle ore dieci della mattina. Appena svegliato, mi fu portata una buona tazza di cioccolata; e dopo, siccome il tempo era bello, me ne andai a passeggiare sino a mezzogiorno, ora del desinare: ci rivedemmo con piacere, desinammo in compagnia di due altri abati della parrocchia, e dopo pranzo intrapresi la lettura della mia composizione. Mi domandò il permesso il signor curato di far venire anche la sua donna di servizio, ed il suo agente; quanto a me, avrei voluto che avesse fatto venire tutta la gente del villaggio. Con estremo piacere fu gustata la mia lettura. I tre abati, che non erano sbalorditi, presero di mira i passi più importanti e di maggior vivezza; e quei campagnuoli mi attestarono coi loro applausi che la mia composizione era a portata di chiunque, e che poteva piacere tanto ai dotti, quanto agl’ignoranti. Il signor curato si congratulò meco, e mi ringraziò della compiacenza avuta; gli altri due abati fecero l’istesso, e ciascuno di essi voleva tenermi a pranzo; io però non aveva intenzione d’incomodar di più il mio buon ospite, premendomi molto di continuare il viaggio. Mi dimandò il curato in qual modo avevo fatto conto di partire; e per me ero dispotissimo di andare a piedi, ma quel degno soggetto non me lo permise. Mi diè il suo cavallo, mandò meco il suo servitore, ed ordinò al medesimo di pagar per me il pranzo. Partii dunque il giorno dopo, confuso e ricolmato di benefizi e di garbatezze. Giunto a Brescia, ero più impacciato che mai: non avevo altro compenso che di andare al palazzo del governatore, che non conoscevo; ma dovevo io trovar in città quella stessa cordialità appunto da me trovata in un borgo? Uno de’ miei maggiori dispiaceri era di non poter rimunerare il servitore del curato. Lo pregai di aspettarmi ad un piccolo albergo, ove eravamo smontati, e diressi i miei passi verso il palazzo del governo. Voltando alla cantonata di una strada che mi aveano insegnata, vedo un uomo, che zoppicando viene al mio incontro. Era il signor Leopoldo Scacciati, zio della mia bella compatriotta. Stupito di vedermi, come era io d’incontrarlo mi fa le sue lagnanze per non avermi più riveduto in Crema all’albergo del Cervo. Lo pongo al fatto della mia precipitosa partenza da questa città, gli fo il racconto dell’avvenimento spiacevole da me provato recentemente, e gli dipingo il doloroso stato in cui mi vedevo ridotto. Quest’uomo, qualunque fosse, pareva veramente commosso fino al punto di piangere, e mi pregò di andare in sua casa. In quel momento mi abbisognava tutto; non sapendo per altro quello che Scacciati e la sua nipote facessero in Brescia, ricusai di andarvi. Lo zoppo, assai più piccolo di me, mi salta al collo, mi prega, mi abbraccia, mi rammenta le sue obbligazioni, la sua riconoscenza, il suo attaccamento per me, mi prende per la mano, mi trascina seco. La sua abitazione non era molto lungi: arriviamo alla porta, mi serra dentro, indi grida quanto poteva: Margherita, Margherita, abbiamo il signor Goldoni! — Scende la signora Margheritina, mi abbraccia, mi persuade a salire, mi fa violenza, ed io salgo con loro. Mi domandò subito la veneziana molte cose riguardanti la mia persona; avrei voluto soddisfarla, ma ricordandomi del servitore del curato, dimostrai una certa inquietudine, della quale mi dimandarono il motivo; lo dissi, e Scacciati partì nell’atto per dar qualche quattrino a quel buon uomo che mi aspettava. Rimasto solo con la mia compatriotta, le fo il quadro della mia istoria, ed ella mi rende conto della sua. Scacciati non era altrimenti suo zio; ma bensì un birbante che l’aveva rapita ai genitori, e l’avea venduta ad un uomo ricco, che l’abbandonò in capo a due mesi, pagando meglio il rapitore che la signorina. Ella era stanca di condurre i suoi giorni con un vagabondo di tal sorte, il quale con profusione spendeva quello ch’ella guadagnava con repugnanza. Avea messo insieme a Milano molto oro; con tutto ciò erano partiti da questa città con più debiti che capitali. Fecero a Brescia altrettanto. Scacciati era l’uomo più vizioso del mondo, ed il meno ragionevole. Ella voleva disfarsene, e chiese a me consiglio per eseguirne l’idea. Se fossi stato ricco, l’avrei liberata subito dalla schiavitù del suo tiranno; ma nella condizione in cui ero, non potei darle altro consiglio che quello di ricorrere ai genitori, procurando di avvicinarsi di nuovo a quelli che avevano tutto il diritto di reclamarla.
Mentre ci trattenevamo in tali discorsi, entra lo zoppo, e vedendoci ambedue accanto, scherza, e crede subito che la signorina si sia data premura di farmi scordare i miei dispiaceri. Che uomo cattivo! altro non conosceva che la dissolutezza. Veramente mi dispiaceva di trovarmi costretto a condannarlo, mentre egli faceva di tutto per obbligarmi. — Ebbene, egli disse, giacchè quest’oggi non abbiamo da noi veruno, ceneremo tutti tre insieme. Venite, venite meco. — Gli vado dietro, ed egli mi conduce in una camera benissimo mobiliata, ove era un letto a padiglione; questa, soggiunse, è la camera di cerimonia della signorina; voi l’occuperete solo, o accompagnato, come più vi piacerà. — Il luogo mi fece orrore; e volevo andarmene nell’atto; ma l’uomo accorto avvedutosi della mia repugnanza, mi fece vedere un’altra stanzetta, che non ricusai, attesa l’ora e lo stato critico nel quale mi ritrovavo; gli dissi bensì nel tempo medesimo, che ero risoluto di partire il giorno dopo.
Avendo tentato invano di farmi restar di più, Scacciati con tutta l’effusione di cuore, e nella maniera più amichevole, che io avrei molto ammirata se non fosse provenuta da un’anima corrotta, mi disse che sapeva bene che mi ritrovavo nella maggior costernazione, e che perciò mi esibiva tutti quegli aiuti dei quali dovevo essere in bisogno. — Ebbene, io risposi, giacchè voi siete disposto ad obbligarmi, prestatemi sei zecchini, ed io ve ne farò la ricevuta. — Mi diede i sei zecchini, ricusò il foglio, e senza ascoltarmi di più escì dalla stanza ove eravamo, e fece portar da cena.
Cenammo molto bene, e me ne andai a riposare nel mio letticciuolo. La mattina feci colazione in compagnia dello zio e dalla supposta nipote; ringraziai ambidue, e partii per la posta verso Verona. Siccome non avrò più occasione di parlare di queste due persone, dirò in due parole al mio lettore, che pochi anni dopo vidi la signorina maritata in Venezia molto bene, e che il signor Scacciati terminò coll’essere condannato alla galera.