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capitolo xxxiv | 95 |
tesa l’ora e lo stato critico nel quale mi ritrovavo; gli dissi bensì nel tempo medesimo, che ero risoluto di partire il giorno dopo.
Avendo tentato invano di farmi restar di più, Scacciati con tutta l’effusione di cuore, e nella maniera più amichevole, che io avrei molto ammirata se non fosse provenuta da un’anima corrotta, mi disse che sapeva bene che mi ritrovavo nella maggior costernazione, e che perciò mi esibiva tutti quegli aiuti dei quali dovevo essere in bisogno. — Ebbene, io risposi, giacchè voi siete disposto ad obbligarmi, prestatemi sei zecchini, ed io ve ne farò la ricevuta. — Mi diede i sei zecchini, ricusò il foglio, e senza ascoltarmi di più escì dalla stanza ove eravamo, e fece portar da cena.
Cenammo molto bene, e me ne andai a riposare nel mio letticciuolo. La mattina feci colazione in compagnia dello zio e dalla supposta nipote; ringraziai ambidue, e partii per la posta verso Verona. Siccome non avrò più occasione di parlare di queste due persone, dirò in due parole al mio lettore, che pochi anni dopo vidi la signorina maritata in Venezia molto bene, e che il signor Scacciati terminò coll’essere condannato alla galera.
CAPITOLO XXXIV.
- Verona. — Suo anfiteatro opera de’ Romani. — Commedia di giorno contro l’uso d’Italia. — Fortunato incontro — Lettura ed accoglienza del mio Belisario. — Mia prima lega con i comici.
Cammin facendo nella sassosa pianura da Brescia a Verona, riflettevo sopra i miei avvenimenti, ora buoni, ora cattivi, trovando sempre il male accanto al bene, e il bene accanto al male. L’ultimo compenso avuto in Brescia fissò maggiormente il mio pensiero. Sono spogliato da birbanti, da un birbante mi vien dato soccorso. Com’è possibile, che in un cuore delittuoso possa penetrar la virtù? No: Scacciati non fu generoso verso di me che per amor proprio o per ostentazione. Qualunque però sia il motivo che lo determinasse, gli dovrò sempre riconoscenza.
La provvidenza usa diversi mezzi per dispensare i suoi favori: servesi spesso del malvagio per soccorrere l’uomo di garbo, e noi dobbiamo sempre benedire l’autore del benefizio, ed esser grati a chi ne fu il mezzo secondario. Arrivato a Desenzano, desinai in quella medesima osteria sul lago di Garda, ove ero stato ad alloggiare per due volte, ed arrivai a Verona sul far della notte. Verona è una delle belle città d’Italia; meriterebbe senza dubbio, che io mi occupassi delle sue bellezze, dei suoi ornamenti, delle sue accademie, e degli ingegni da essa prodotti e coltivati in tutti i tempi; ma una tal digressione mi condurrebbe troppo lungi: mi limiterò pertanto unicamente a far parola di quel monumento che può aver qualche relazione alle presenti mie Memorie. Trovasi in Verona un anfiteatro, opera dei Romani. Non si sa se la sua costruzione rimonti ai tempi di Traiano o di Domiziano: è però tuttora così ben conservato, che se ne può far uso ai nostri giorni, come quando fu costruito. Questo vasto edifizio che si chiama in Italia l’Arena di Verona, è di figura ovale, l’interno suo gran diametro è di dugento venticinque piedi, e il più piccolo ne ha sopra cento trentatrè di larghezza. Quarantacinque gradinate di marmo lo circondano, e possono contenere ventimila persone a sedere col massimo loro comodo. In quello spazio, che ne compone il centro, si danno spetta-