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capitolo xxxii | 91 |
condotto dal maresciallo di Mercy con dieci pezzi di artiglieria da campagna. Facendo i Francesi la loro marcia per la strada maestra attorniata da larghe fosse non potevano retrocedere: si avanzarono dunque bravamente, ma furono quasi tutti sbaragliati dall’artiglieria nemica. Questo fu appunto per il comandante francese il primo segnale della sorpresa. Lo spione fu impiccato sul fatto, e l’esercito si mise in marcia, raddoppiando il passo. La strada era angusta, e la cavalleria non poteva avanzarsi; la fanteria però caricò sì vigorosamente il nemico, che lo sforza a retrocedere: ed ecco il momento in cui lo spavento dei Parmigiani si convertì in giubilo. Tutti correvano allora sulle mura della città, ed io pure vi accorsi. Non si poteva vedere una battaglia più da vicino: il fumo impediva spesso di ben distinguere gli oggetti, era per altro sempre un colpo d’occhio rarissimo, che ben pochi possono darsi il vanto d’aver goduto. Il fuoco continuo durò nove ore senza interruzione, e finalmente la notte separò i due eserciti: i Tedeschi si dispersero nelle montagne di Reggio, e gli alleati restarono padroni del campo di battaglia. Il giorno dopo vidi condurre a Parma sopra una lettiga il maresciallo di Mercy ucciso nel calor della battaglia. Fu imbalsamato e mandato in Germania, e così fu fatto al principe di Wittemberg che aveva incontrato l’istessa sorte. Il dì seguente però a mezzo giorno si offrì agli occhi miei uno spettacolo molto più orribile e più disgustoso. Lo formavano i cadaveri, ch’erano stati spogliati nella notte, e si facevano ascendere a venticinquemila, tutti nudi ed ammontati. Si vedevano ovunque gambe, braccia, cranii, e sangue. Che eccidio!
Attesa la difficoltà di sotterrare tutti questi corpi trucidati, i Parmigiani temevano di un’infezione dell’aria; ma la Repubblica di Venezia, che è quasi limitrofa ai domimi parmigiani, ed interessata perciò a garantire la salubrità dell’aria, spedì calcina in grand’abbondanza, a fine di sgombrare dalla superficie della terra tutti i cadaveri. Il terzo giorno dopo la battaglia volevo continuare il mio viaggio per Modena, ma il vetturino mi fece avvertire che le strade per quella parte erano divenute impraticabili, a motivo delle continue scorrerie delle truppe dei due partiti, aggiungendo che se volevo andare a Milano sua patria, mi ci avrebbe condotto; e se a Brescia, conosceva un suo compagno, che era per partire per questa città con un abate, di cui appunto potevo esser compagno di viaggio. Accettai quest’ultima proposizione, convenendomi più Brescia, e partii il giorno dopo col signor abate Garoffini, giovine coltissimo, e gran dilettante di spettacoli.
Per strada si parlò molto; e siccome io pure avevo la malattia degli autori, non lasciai di tenergli discorso del mio Belisario. L’abate pareva desideroso di sentirlo, onde nel primo desinare levai dal baule la mia composizione, e ne cominciai la lettura. Non avevo peranche terminato il primo atto, quando il vetturino venne a sollecitarci a partire. L’abate ne era dolente, perchè ci aveva preso un po’ di gusto: Su via, io dissi allora, leggerò in vettura in egual modo che qui. Riprendiamo ognuno nel calesse i nostri posti: e siccome i vetturini vanno per lo più di passo, continuai la lettura senza la minima difficoltà. Mentre eravamo entrambi occupati, si ferma il calesse, e vediamo avanti a noi cinque persone con baffi, montura e sciabola in mano, che ci comandano di scendere. Conveniva egli recalcitrare agli ordini di questi signori? Scendo dalla mia parte, l’abate dall’altra; uno di essi mi chiede la borsa, ed io gliela do senza farmi pregare; un altro mi strappa l’orologio, un