Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XXIII

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO XXIII.

Mio ricevimento nel corpo degli avvocati. — Mia presentazione al palazzo. — Dialogo tra una donna e me.

Arrivato a Venezia, dopo aver abbracciata mia madre e la zia, ch’erano nel colmo dell’allegrezza, andai a trovare il mio zio procuratore, e lo pregai di collocarmi presso un avvocato per istruirmi nel formulario che si tiene dalla curia. Mio zio, che era in grado di scegliere, mi raccomandò al signor Terzi, uno dei migliori avvocati ed abili consultori della Repubblica. Dovevo starvi due anni; ma vi entrai nel mese di ottobre 1731, e ne uscii, fatto già avvocato, nel mese di maggio 1732. Per quel che pare, si guardò soltanto la data dell’anno, e non quella dei mesi; sicchè adempii a tutte le formalità in otto mesi di tempo. In tutti i miei collocamenti però vi doveva esser sempre qualche cosa di straordinario, e quasi sempre, per dire il vero, a mio vantaggio. Ero nato felice; se non sono stato sempre tale, è colpa mia. In Venezia gli avvocati debbono avere le loro abitazioni, o almeno i loro studi nel quartiere ove resta la curia. Presi dunque a pigione un appartamento a San Paterniano, e mia madre con la zia non mi lasciarono. Vestii la toga conveniente al mio nuovo stato, ch’è come la patrizia: imbacuccai la testa in un’immensa parrucca, e con impazienza aspettai il giorno della mia presentazione al palazzo. Questa presentazione non si fa senza cerimonie. Il novizio deve aver due assistenti, che si chiamano a Venezia Compari di Palazzo. Gli cerca il giovane nel numero dei vecchi avvocati, che hanno per lui maggiore affezione: io scelsi il signor Uccelli ed il signor Roberti, ambedue miei vicini. Andai pertanto in mezzo dei miei due Compari a piè della grande scala nel gran cortile del palazzo, facendo per un’ora e mezzo tante riverenze e tanti scontorcimenti, che avevo rotto il dorso, e la mia parrucca era divenuta una giubba di leone. Ognuno che passava davanti a me diceva il suo parere sul conto mio: gli uni, ecco un giovine che ha buona indole; gli altri, ecco un nuovo scopatore del palazzo; questi mi abbracciavano, quelli mi ridevano in faccia. In somma salii la scala, e mandai il servitore a cercare una gondola, per non farmi vedere per strada arruffato com’ero, fissando per punto di riunione la sala del gran Consiglio, dove mi posi a sedere sopra un banco, e donde vedevo passar tutti senza esser veduto da alcuno. Facevo in questo tempo le mie riflessioni sopra lo stato ch’ero per abbracciare. In Venezia sono scritti al registro ordinariamente 240 avvocati; ve ne sono dieci o dodici di primo ordine, venti a un bel circa che occupano il secondo; tutti gli altri poi vanno a caccia dei clienti; e i procuratorelli fanno volentieri ad essi da cane da caccia, a condizione però di spartire insieme la preda. Ero in timore, essendo io l’ultimo arrivato, e mi dispiaceva di aver lasciato le Cancellerie. Vedevo però dall’altra parte che non vi era stato più lucroso e di maggiore estimazione, di quello dell’avvocato. Un nobile veneziano, un patrizio membro della Repubblica che sdegnerebbe esser negoziante, banchiere, notaro, medico, e professore di un’università, abbraccia la professione di avvocato, l’esercita al palazzo, e dà il nome di confratelli agli altri avvocati. Non ci vuol altro che sorte; perchè doveva io averne meno di un altro? Bisognava porsi al cimento, ed entrare senza timore nel caos [p. 67 modifica] forense, ove la fatica e la probità conducono al tempio della fortuna. Mentre stavo là solo facendo castelli in aria, vedo avvicinarsi a me una donna di circa trent’anni, non sgradevole di figura, bianca, tonda e grassa, con naso schiacciato ed occhi tristi, con molt’oro al collo, agli orecchi, alle braccia, alle dita, ed in un arnese, che annunziava essere ella una donna di comune sfera, ma in sufficiente comodità. Mi si appressa e mi saluta: — Signore, buon giorno. — Buon giorno, signora. — Mi permettete che io vi faccia le mie congratulazioni? — Di che cosa? — Del vostro ingresso nel Foro; vi ho veduto nel cortile, quando facevate i vostri salamelec. Per bacco! Signore, voi siete molto bene pettinato! — Non è egli vero? Non son io un bel ragazzo? — La pettinatura però non vi giova niente: il signor Goldoni fa sempre la sua figura. — Voi dunque, o signora, mi conoscete? — Non vi vidi io quattr’anni sono nel paese dei curiali in lunga parrucca e mantello? — È vero, avete ragione, ero allora in casa del procuratore. — Così è: in casa del signor Indric. — Conoscete dunque anche mio zio? — Io, in questo paese, cominciando dal doge, conosco fino all’ultimo copista della corte. — Siete voi maritata? — No. — Siete vedova? — No. — Oh! non ardisco domandarvi di più. — Meglio. — Avete qualche impiego? — No. — Alla vostr’aria... voi mi sembrate donna di garbo. — Tale sono realmente. — Avete dunque delle rendite? — Niente affatto. — Ma voi siete bene vestita; come fate dunque? — Io sono figlia del palazzo, e il palazzo mi mantiene. — Oh questa sì ch’è singolare! siete figlia del palazzo, voi dite? — Sì, signore; mio padre ci era impiegato. — Che cosa ci faceva egli? — Stava in orecchi alle porte, e andava poi a portar le buone nuove a quelli che aspettavano grazie, sentenze o giudizi favorevoli, aveva buone gambe, ed arrivava sempre il primo. Mia madre poi era sempre qui con me. Essa non era già orgogliosa, riceveva la sua mancia, e s’incaricava di alcune commissioni. Sono nata e cresciuta in queste sale dorate, ed io pure, come voi vedete, sulla mia persona ho dell’oro. — La vostra istoria è singolarissima. Voi dunque seguitate le tracce di vostra madre? — No, signore, fo un’altra cosa. — Ciò è? — Sollecito i processi. — Sollecitate i processi? Non intendo. — Sono conosciuta come Barabba; si sa benissimo, che tutti gli avvocati e tutti i procuratori sono miei amici, e parecchie persone s’indirizzano a me, perchè procuri loro consigli e difensori. Quelli che ricorrono a me ordinariamente non son ricchi, ed io vado intorno a novizi o a sfaccendati, che altro non chiedono se non se lavoro per farsi conoscere. Sapete voi, o signore, che quantunque mi vediate così, io ho fatto la fortuna d’una buona dozzina dei più famosi avvocati della curia? Su via, coraggio, signore, se voi volete, farò ancor la vostra. — Io mi divertiva a sentirla, e siccome non arrivava il mio servitore, continuavo la conversazione. — Ebbene, signorina, avete voi presentemente fra mano qualche buon affare? — Sì, signore: io ne ho parecchi, anzi ne ho degli eccellenti. Ho una vedova che è incorsa nel sospetto di avere occultato il suo scimmiotto; un’altra che vorrebbe far valere una convenzione di matrimonio concertata dopo il fatto: ho fanciulle che fanno istanza di essere dotate; ho donne che vorrebbero litigare pel divorzio; ho figli di famiglia perseguitati dai loro creditori; come vedete, avete da scegliere. — Mia buona donna, le dissi, fino ad ora avete parlato voi, io vi ho lasciata dire; ora tocca a me a parlare. Sono giovine, sono per intraprendere la mia professione, e desidero occasioni per produrmi, e stare occupato; [p. 68 modifica] ma la voglia di lavorare e il prurito di litigare non mi faranno mai dar principio colle cattive cause che mi proponete. — Ah, ah, ella disse ridendo, voi disprezzate i miei clienti, perchè vi avevo avvertito che non vi era da guadagnar nulla; ma sentite: le mie due vedove sono ricche, sarete ben pagato, e sarete inclusive pagato anticipatamente, se volete. — Vedo venire da lontano il servitore; mi alzo, e dico alla ciarliera in un tono di voce intrepido e risoluto: — No, voi non mi conoscete, io sono un uomo d’onore... — Ella mi prende allora per la mano, e mi dice con aria grave: — Bravo. Continuate sempre nei medesimi sentimenti. — Ah, ah, io le dissi, voi mutate linguaggio? — Sì, ella riprese, e quello che io prendo adesso, vale assai più dell’altro, di cui mi ero servita. La nostra conversazione non è stata senza mistero; ricordatevene, e guardatevi di non parlare a veruno. Addio, signore: siate sempre saggio, siate sempre onorato, ve ne troverete bene. — Ella se ne va, ed io resto nella maggior maraviglia. Non sapevo che cosa volesse dire questo; intesi bensì dopo, essere questa una esploratrice venuta per scandagliarmi, ma non seppi, nè volli sapere, chi me l’avesse indirizzata.