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capitolo xxiv 69


Questi era un uomo che aveva guadagnato molto, e che si trovava in uno stato comodissimo a Venezia; aveva però fatta fabbricare una bella ed elegante abitazione in una città di terraferma, e quivi spiegava tutto il suo fasto, tutta la sua magnificenza. Un giorno che uno dei suoi clienti andò a trovarlo a casa per consultarlo, e dirgli che doveva partire per Milano, l’avvocato lo pregò di fargli costruire una carrozza e di mandargliela alla sua casa di V***. Il cliente accettò con piacere l’incombenza, fece eseguire la commissione sotto i suoi occhi, ed il legno riuscì della maggior bellezza. Lo spedì secondo l’intelligenza, e ne diè parte al committente senza parlargli di prezzo. Torna a Venezia il cliente, e si porta col suo procuratore a consultar l’avvocato sullo stato dei propri affari. Questi a mezzo del colloquio, ricordandosi della carrozza, che aveva veduta, e di cui era rimasto pienamente contento, gliene chiede il conto. Il cliente ricusa darlo, anzi prega il suo difensore di compiacersi di accettarla come una testimonianza di amicizia e di considerazione. L’avvocato lo ringrazia, e figura d’insistere sul pagamento; ma i tre quarti d’ora passavano, ed essendovi nell’anticamera altri litiganti che aspettavano coll’orologio alla mano, fu ripreso subito il consulto. Finito il tempo, ciascuno si alza, e l’avvocato accompagna alla porta il suo cliente, come è costume; il procuratore gli presenta tre zecchini, li prende e rientra nello studio. Parve singolare al procuratore questo atto, nè potè dispensarsi dal parteciparlo ai suoi amici: questi lo dissero ad altri, e qualcheduno di essi ne rese inteso l’avvocato: ecco la sua risposta e la sua giustificazione. Il signor conte A*** mi ha fatto un dono; io l’ho ringraziato, ed eccoci pari; gli ho dato un parere, mi ha pagato, e siamo egualmente pari: mi rido degli sciocchi e tiro avanti. A dire il vero, aveva ragione quest’uomo di ridersi del mondo: la sua tavoletta era sempre piena di nomi di clienti, ed i suoi quarti d’ora erano sempre impiegati. Non veniva altro a casa mia che qualche curioso per investigarmi, o qualche pericoloso cavillatore; nulladimeno li ascoltava pazientemente, dava loro i miei pareri, non stavo coll’orologio alla mano, li tenevo quanto volevano, li accompagnavo fino alla porta; ma nessuno dava. Questa è la sorte dei principianti; v’abbisognano tre o quattr’anni prima di giungere a farsi un nome, e a guadagnare qualche danaro. Sono per altro di ferma opinione, che se avessi continuato la mia professione alla curia, avrei fatto il mio viaggio molto più presto di parecchi altri miei confratelli; infatti in sei mesi di tempo avevo difeso una causa, e l’avevo vinta. Ma la mia costellazione mi minacciava già un nuovo cangiamento, che non mi fu possibile evitare; e riserbo al capitolo seguente l’origine e le conseguenze di un rovescio più grande ancora di quello che avevo provato in collegio a Pavia.

Frattanto passavo il tempo nel mio studio, solo solo o male accompagnato, facendo almanacchi. Fare almanacchi, tanto in italiano come in francese, significa occuparsi in oggetti inutili ed immaginari; questa volta però vi era differenza, poichè realmente mi riuscì di fare un almanacco, che fu stampato, che si gustò molto, e che ottenne sommo applauso. Lo intitolai: L’esperienza del passato, Astrologo dell’avvenire. Almanacco critico per l’anno 1732. Vi era un discorso generale sull’anno, ed altri quattro sopra le quattro stagioni in terzine intrecciate alla maniera di Dante, contenenti alcune critiche su i costumi del secolo, e ciascun giorno dell’anno era accompagnato da un prognostico, che racchiudeva sempre una lepi-