Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/XLVIII

XLVIII

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
XLVIII
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CAPITOLO XLVIII.

Mio arrivo a Firenze. — Alcune parole sopra questa città. — Mia gita a Siena. — Conoscenza del cavalier Perfetti e suo straordinario ingegno. — Conversazioni di Siena. — Viaggio a Volterra. — Veduta delle catacombe. — Rarità raccolte in quel paese e in Peccioli. — Mio arrivo a Pisa.

Non era ancora aperta nel 1742 la nuova strada che da Bologna conduce a Firenze; presentemente vi si va in un giorno, quando prima ne abbisognavano almeno due per attraversare quelle alte montagne tra le quali è racchiusa la Toscana. Non essendo dunque possibile evitare la cattiva strada, scelsi la più corta ed affidai le mie robe ad un vetturale. Si venne per la posta fino a Castrocaro; di là attraversammo a cavallo le alpi di San Benedetto, e [p. 132 modifica] finalmente arrivammo al bel paese, cui è dovuto il rinascimento delle lettere. Non mi estenderò pertanto sulla bellezza e sulle delizie della città di Firenze. Tutti gli scrittori, tutti i viaggiatori le rendono giustizia. Belle strade, palazzi magnifici, giardini deliziosi, passeggate amenissime, molte conversazioni, molta letteratura, molte rarità, le arti in credito, stimati gli ingegni, sommamente coltivata l’arte agraria, eccellenti le produzioni della terra, favorito il commercio, un ricco fiume che attraversa la città, un porto di mare considerabilissimo nelle sue dipendenze, begli uomini, belle donne, buon umore, spirito, forestieri di ogni nazione, divertimenti di ogni sorta... È un paese da incantare. Quattro mesi mi trattenni con gran piacere in questa città, e feci conoscenze ragguardevolissime: quella del senatore Rucellai auditore della giurisdizione; del dottor Cocchi medico sistematico e piacevole filosofo; dell’abate Gori, antiquario dottissimo ed eruditissimo nella lingua etrusca; e quella dell’abate Lami, autore di un giornale letterario, la miglior opera, che si sia fin qui veduta in Italia in questo genere. La mia idea era di passar l’estate in Firenze e l’autunno in Siena; ma la voglia che avevo di conoscere di persona e sentire il cavalier Perfetti, mi determinò a partire ne’ primi giorni di agosto. Era il Perfetti uno di quei poeti che fanno composizioni in versi all’improvviso, e che solamente s’incontrano in Italia; ma talmente ad ogni altro superiore, e tanto sapere ed eleganza aggiungeva alla facilità della sua versificazione, che meritò di essere coronato a Roma nel Campidoglio, onore che a verun altro è stato conferito dopo il Petrarca. Questo uomo celebre, molto avanzato in età, raramente vedevasi nelle conversazioni e molto meno in pubblico. Mi fu detto, che doveva comparire il giorno dell’Assunzione alla accademia degli Intronati di Siena. Subito partii con la mia fida compagna. Fummo ammessi, e ci fu dato posto nell’accademia, come forestieri. Il Perfetti era a sedere in una specie di cattedra. Uno degli accademici gli diresse il discorso, e siccome non poteva svincolarsi dal soggetto della solennità che correva, ed in considerazione della quale appunto si era adunata l’accademia, gli propose per argomento il giubilo degli Angioli al presentarsi del corpo immacolato della Vergine. Il poeta cantò per un quarto d’ora parecchie strofe alla maniera di Pindaro: nulla di più bello, nulla di più maraviglioso: era il Perfetti un Petrarca, un Milton, un Rousseau, insomma mi compariva Pindaro istesso. — Avevo veramente caro di averlo sentito. Andai a fargli visita il giorno dopo, e la sua conoscenza me ne fece fare mille altre: trovai le conversazioni di Siena graziosissime. Tutte le partite di giuoco son precedute da una conversazione letteraria; ciascuno legge la sua composizioncella, o quella di un altro, mescolandosi in ciò le signore nello stesso modo che gli uomini. Così almeno si faceva a mio tempo; ora poi non so se la galanteria vi abbia ottenuta la preferenza esclusiva, come vedesi essere accaduto in tutto il resto d’Italia. Desideroso di percorrere la Toscana, presi, partendo da Siena, la strada di quel paese paludoso che si chiama le Maremme, terreno vastissimo ed inutile, messo in gran parte a cultura mercè delle cure del marchese Ginori di Firenze, che vi aveva anche stabilito una manifattura di porcellane, e salii alla città di Volterra, una delle antiche repubbliche di Toscana, fabbricata sulla cima di una montagna altissima e scoscesa. Questo paese, che pochi viaggiatori vanno a vedere, è degna di considerazione pel sito e per le vestigia che ancora vi si trovano dei monumenti degli Etruschi e del paganesimo, loro religione. Entrai carponi nelle catacombe, le [p. 133 modifica] percorsi con l’aiuto del lume di alcune torcie, e conobbi in tale occasione quanto era grande la mia poltroneria. I due condottieri che mi precedevano, si consigliavano a vicenda sopra i luoghi da scegliere per passeggiare il sotterraneo: No; non andiamo, diceva l’uno, perchè non è gran tempo che è rovinata la volta: andiamo dunque di qui, diceva l’altro; ma se cadesse l’altra parte della volta? dicevo allora io mezzo tremante alle due mie guide... Eh! eh! questo non succede ogni giorno, mi risposero: insomma n’escii, grazie a Dio, e feci anche fermo proposito di non più tornarvi. Che cosa in sostanza vid’io? Nulla: dunque ero stato il trastullo della mia curiosità. In una parola altro non feci, se non se ciò che avevano fatto molti altri prima di me. Quello che osservai con maggior piacere e senza pericolo, furono i testacei ammucchiati su quell’alte montagne una mezza lega almeno elevate dal Mediterraneo alla loro cima; questa fu la prima volta, che avevo avanti gli occhi questa prova incontrastabile delle grandi rivoluzioni della natura, l’origine delle quali è ancora incerta, ed il cui meccanismo non è stato ancora scoperto. Portai meco dei mucchi di tali conchiglie ammassate unitamente ad alcuni pezzi benissimo lavorati di alabastro di Volterra, trasparente e molto tenero. Aggiunsi a queste mie nuove ricchezze parecchi piccoli tubi, lavoro di certi insetti, i quali formano in essi il loro ricovero in tempo d’inverno, e che non si trovano se non nel paese di Peccioli da me attraversato. Sul far della notte mi trovai alle porte di Pisa, e andai a prendere alloggio all’albergo della Posta.