Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/VII
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CAPITOLO VII.
- Mia partenza per Venezia. — Colpo d’occhio di questa città. — Mio collocamento in casa di un procuratore.
Ritornato in me stesso dall’acciecamento in cui mi aveva posto la fervidezza della gioventù, riguardavo con orrore il pericolo che avevo corso. Ero naturalmente allegro, ma sottoposto fino dalla mia infanzia a vapori ipocondriaci e malinconici, che tetramente offuscavano la mia mente. Assalito da un accesso violento di questa malattia letargica cercavo di distrarmi, e non trovavo mezzi. I miei comici erano partiti, nè Chiozza mi offriva più divertimento alcuno di mio gusto. La medicina non mi andava a genio; ero divenuto tristo e pensieroso, e smagrivo a colpo d’occhio. Non tardarono ad accorgersene i miei genitori, e mia madre ne tenne proposito la prima: le confidai i miei disgusti. Un giorno nel quale eravamo tutti a tavola in famiglia senz’alcuno di fuori, e senza servitori, fece cadere il discorso sul conto mio. Fuvvi un dibattimento di due ore, e mio padre assolutamente voleva che io mi dessi alla medicina. Aveva un bell’agitarmi, far minacce, brontolare, egli non dava quartiere; finalmente mia madre gli dimostra che aveva torto, ed ecco come. Il marchese Goldoni, dice ella, vuol prendersi cura di nostro figlio: se Carlo è un buon medico, il suo protettore potrà favorirlo, è vero, ma potrà dargli dei malati? Potrà egli impegnare il mondo a preferirlo a tanti altri? Potrebbe procurargli un posto di professore a Pavia: ma quanto tempo, e quanta fatica per giungervi! All’opposto, se mio figlio studiasse la legge, se fosse avvocato, un senator di Milano potrebbe fare la sua fortuna senza la minima pena, e senza la minima difficoltà. Mio padre non rispose cosa alcuna, rimase per qualche momento in silenzio; indi, vôlto verso la mia parte, mi disse barzellettando: Ameresti tu il Codice ed il Digesto di Giustiniano? — Sì, padre mio, io risposi, assai più degli aforismi d’Ippocrate. — Tua madre, soggiunse, è donna; pure mi ha presentate delle buone ragioni, e potrei aderirvi; frattanto non bisogna star senza far nulla, e seguiterai a venir meco. Eccomi tuttavia in rammarico. Mia madre prende allora vivamente le mie difese; consiglia mio padre a mandarmi a Venezia, ed a collocarmi in casa di mio zio Indric, uno dei migliori procuratori della curia della capitale, proponendosi di accompagnarmi ella stessa e di restar meco fino alla mia partenza per Pavia. Mia zia spalleggia la proposta della sorella, alzo le mani, e piango dalla gioia: mio padre vi acconsente. Anderò dunque a Venezia speditamente.
Eccomi contento: le mie malinconie si dissipano nell’istante, e quattro giorni dopo partiamo mia madre ed io. Non vi erano che otto leghe di traversata: arrivammo a Venezia all’ora di pranzo, andammo in casa del signor Bertani, zio materno di mia madre, e il giorno appresso andammo in casa del signor Indric.
Fummo ricevuti gentilmente. Il signor Paolo Indric aveva sposato una mia zia paterna. Un buon marito e buon genitore, una buona madre e buona consorte, figli benissimo educati formavano una piacevole famiglia. Fui stabilito nello studio, ed ero il quarto apprendista; godevo però quei privilegi, che la parentela non poteva non procurarmi. La mia occupazione mi pareva più piacevole di quella che mio padre mi dava a Chiozza; ma questa doveva essere per me al pari dell’altra inutile. Supponendo che io dovessi esercitare la professione di avvocato a Milano, non avrei potuto profittare della pratica della curia di Venezia, ignota a tutto il resto d’Italia; nè si sarebbe mai presagito, che, mediante avvenimenti singolari e violenti, io dovessi un giorno arringare in quel medesimo palazzo, dove mi riguardavo allora come forestiero. Adempiendo esattamente al mio dovere, e meritandomi gli elogi di mio zio, non lasciavo di profittare del dilettevole soggiorno di Venezia, e di divertirmi. Era questo il mio paese natio, ma troppo giovine quando lo lasciai, io non lo conosceva quasi più.
Venezia è una città sì straordinaria, che non è possibile formarsene una giusta idea senza averla veduta; le carte, le piante, gli esemplari, le descrizioni non bastano; bisogna vederla. Tutte le città del mondo si rassomigliano più o meno; questa non ha somiglianza con alcuna. Ogni volta che io l’ho riveduta dopo lunghe assenze, sorse in me un nuovo stupore. A mano a mano ch’io cresceva negli anni, che si aumentavano le mie cognizioni, e che avevo dei confronti da fare, vi scoprivo nuove singolarità, nuove bellezze.
L’ho veduta questa volta qual giovine di quindici anni, che non può valutare a fondo ciò che vi è di più notevole, nè può confrontarla che con piccole città da esso abitate. Ecco quel che mi ha colpito anco di più. Una prospettiva maravigliosa al primo ingresso, una estensione considerabilissima di piccole isolette così bene ravvicinate e sì ben riunite per mezzo di ponti, che credereste vedere un continente alzato sopra una pianura, e bagnato da tutte le parti da un immenso mare che lo circonda. Non è mare, ma bensì una vastissima laguna più o meno coperta d’acqua all’imboccatura di più porti con canali profondi, che conducono i piccoli e grandi navigli nella città e nei contorni. Se voi entrate dalla parte di San Marco, a traverso una quantità prodigiosa di bastimenti di ogni sorte, vascelli da guerra, vascelli mercantili, fregate, galere, barche, battelli, gondole, mettete piede a terra sopra una riva chiamata la Piazzetta, ove vedete da una parte il Palazzo e la Chiesa Ducale, che annunziano la magnificenza della Repubblica, e dall’altra la piazza di San Marco circondata da portici fabbricati sul disegno del Palladio e del Sansovino.
Innoltratevi per le strade di Merceria fino al ponte di Rialto, e voi camminate sopra pietre quadre di marmo d’Istria leggermente scarpellate ad oggetto di impedire che vi si sdruccioli, percorrete un luogo, che rappresenta una fiera perpetua, ed arrivate a quel ponte, che con un solo arco di ottanta piedi di larghezza traversa il Canal grande, assicura con la sua altezza il passaggio alle barche e ai battelli nel tempo del maggior crescere del flusso del mare, offre tre differenti vie ai passeggieri, e sostiene sopra la curva ventiquattro botteghe con le respettive abitazioni, e co’ loro tetti coperti di piombo. Confesso, che questo colpo d’occhio mi è parso meraviglioso, nè l’ho trovato descritto tal quale egli è da nessuno dei viaggiatori, che io ho letti. Chiedo scusa al mio lettore, se ho dato un po’ troppo luogo alla mia compiacenza. Non ne dirò altro per ora, riservandomi a dar qualche idea dei costumi e degli usi di Venezia, delle sue leggi e della sua costituzione, di mano in mano che l’occasione mi ricondurrà su tal proposito, e che la mia mente avrà acquistato una maggior fermezza e precisione di giudizio. Terminerò questo capitolo con una succinta relazione de’ suoi spettacoli. Le sale per gli spettacoli in Italia hanno il nome di teatri. Ve ne sono sette a Venezia, portando ognuno il nome del Santo titolare della respettiva parrocchia.
Il teatro di San Giovanni Grisostomo era allora il primo della città, e vi si davano le opere serie. Quivi Metastasio espose la prima volta i suoi drammi, e Farinello, Faustina e la Cozzoni fecero sentire il loro canto. Quello di San Benedetto ha preso in oggi il primo posto. Gli altri cinque si chiamano: San Samuele, San Luca, Sant’Angiolo, San Cassiano, e San Moisè. Di questi sette teatri, ve ne sono ordinariamente due per l’opere serie, due per l’opere buffe, e tre per le commedie. Parlerò di tutti in particolare, quando sarò divenuto l’autor di moda di questo paese, poichè non ve n’è alcuno, che non abbia avuto qualche mia opera, e che non abbia contribuito al mio onore ed al mio vantaggio.