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capitolo vii | 25 |
Eccomi contento: le mie malinconie si dissipano nell’istante, e quattro giorni dopo partiamo mia madre ed io. Non vi erano che otto leghe di traversata: arrivammo a Venezia all’ora di pranzo, andammo in casa del signor Bertani, zio materno di mia madre, e il giorno appresso andammo in casa del signor Indric.
Fummo ricevuti gentilmente. Il signor Paolo Indric aveva sposato una mia zia paterna. Un buon marito e buon genitore, una buona madre e buona consorte, figli benissimo educati formavano una piacevole famiglia. Fui stabilito nello studio, ed ero il quarto apprendista; godevo però quei privilegi, che la parentela non poteva non procurarmi. La mia occupazione mi pareva più piacevole di quella che mio padre mi dava a Chiozza; ma questa doveva essere per me al pari dell’altra inutile. Supponendo che io dovessi esercitare la professione di avvocato a Milano, non avrei potuto profittare della pratica della curia di Venezia, ignota a tutto il resto d’Italia; nè si sarebbe mai presagito, che, mediante avvenimenti singolari e violenti, io dovessi un giorno arringare in quel medesimo palazzo, dove mi riguardavo allora come forestiero. Adempiendo esattamente al mio dovere, e meritandomi gli elogi di mio zio, non lasciavo di profittare del dilettevole soggiorno di Venezia, e di divertirmi. Era questo il mio paese natio, ma troppo giovine quando lo lasciai, io non lo conosceva quasi più.
Venezia è una città sì straordinaria, che non è possibile formarsene una giusta idea senza averla veduta; le carte, le piante, gli esemplari, le descrizioni non bastano; bisogna vederla. Tutte le città del mondo si rassomigliano più o meno; questa non ha somiglianza con alcuna. Ogni volta che io l’ho riveduta dopo lunghe assenze, sorse in me un nuovo stupore. A mano a mano ch’io cresceva negli anni, che si aumentavano le mie cognizioni, e che avevo dei confronti da fare, vi scoprivo nuove singolarità, nuove bellezze.
L’ho veduta questa volta qual giovine di quindici anni, che non può valutare a fondo ciò che vi è di più notevole, nè può confrontarla che con piccole città da esso abitate. Ecco quel che mi ha colpito anco di più. Una prospettiva maravigliosa al primo ingresso, una estensione considerabilissima di piccole isolette così bene ravvicinate e sì ben riunite per mezzo di ponti, che credereste vedere un continente alzato sopra una pianura, e bagnato da tutte le parti da un immenso mare che lo circonda. Non è mare, ma bensì una vastissima laguna più o meno coperta d’acqua all’imboccatura di più porti con canali profondi, che conducono i piccoli e grandi navigli nella città e nei contorni. Se voi entrate dalla parte di San Marco, a traverso una quantità prodigiosa di bastimenti di ogni sorte, vascelli da guerra, vascelli mercantili, fregate, galere, barche, battelli, gondole, mettete piede a terra sopra una riva chiamata la Piazzetta, ove vedete da una parte il Palazzo e la Chiesa Ducale, che annunziano la magnificenza della Repubblica, e dall’altra la piazza di San Marco circondata da portici fabbricati sul disegno del Palladio e del Sansovino.
Innoltratevi per le strade di Merceria fino al ponte di Rialto, e voi camminate sopra pietre quadre di marmo d’Istria leggermente scarpellate ad oggetto di impedire che vi si sdruccioli, percorrete un luogo, che rappresenta una fiera perpetua, ed arrivate a quel ponte, che con un solo arco di ottanta piedi di larghezza traversa il Canal grande, assicura con la sua altezza il passaggio alle barche e ai battelli nel tempo del maggior crescere del flusso del mare, offre tre differenti vie ai passeggieri, e sostiene sopra la curva venti-