Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/VIII
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CAPITOLO VIII.
- Mia partenza per Pavia. — Mio arrivo a Milano. — Primo colloquio col marchese Goldoni. — Difficoltà superate.
A Venezia adempivo molto bene in casa del procuratore al mio dovere nell’impiego, ed avevo acquistata molta facilità nel fare il sommario dei processi. Mio zio mi avrebbe voluto presso di sè, ma sopraggiunse una lettera di mio padre, che mi richiamava. Era rimasto vacante un posto nel collegio del Papa, ed era già stato fissato per me; ce ne dava parte il marchese Goldoni, consigliandoci a partire.
Lasciammo Venezia mia madre ed io, e ritornammo a Chiozza. Si fanno i fagotti, si legano, ed ecco mia madre in pianti, e così mia zia. Mio fratello, che si era fatto escire dalla dozzina, sarebbe volentieri partito meco: la separazione fu commovente e patetica, ma la carrozza arriva, e convien lasciarci. Si prese la istrada di Rovigo e Ferrara, e di là arrivammo a Modena, ove restammo per tre giorni in casa del signor Zavarisi, notaio accreditatissimo in quella città, e nostro prossimo parente per parte di donne.
Questo bravo e degno giovine aveva in mano tutti gli affari di mio padre; era quello che maneggiava le nostre rendite al tribunale della città, e ritirava le pigioni delle nostre case; ci somministrò danaro, e noi andammo a Piacenza.
Non mancò mio padre di portarsi là a far visita al suo cugino Barilli, che non aveva intieramente adempiuto ai suoi impegni, e lo indusse con buona maniera al pagamento di due annate delle quali andava debitore; di maniera che eravamo molto provvisti di contante, che ci fu utilissimo in alcuni casi non preveduti, nei quali ci trovammo dipoi.
Arrivando a Milano prendemmo alloggio all’albergo dei Tre Re, e il giorno seguente andammo a fare la nostra visita al marchese e senator Goldoni.
Non potevamo esser ricevuti più graziosamente; il mio protettore parve contento di me, ed io lo era pienamente di lui. Si parlò di collegio, e destinò inoltre il giorno che dovevamo essere a Pavia; ma il signor marchese guardandomi con maggiore attenzione, domandò a mio padre ed a me, perchè io fossi in abito da secolare, e perchè non avessi il collare. Non sapevamo dove andasse a parar questo discorso: in sostanza si seppe allora per la prima volta, che per entrare nel collegio Ghislieri, detto il collegio del Papa, bisognava necessariamente: 1° Che i convittori fossero tonsurati; 2° Che avessero un attestato della loro civile condizione, e della loro condotta; 3° Altro attestato di non aver contratto matrimonio; 4° La loro fede battesimale.
Mio padre ed io restammo senza parole dallo stupore, nessuno avendocene avvertiti. Il signor senatore era persuaso che dovessimo esserne informati, avendone incaricato il suo segretario, ed avendo dato al medesimo una nota per ispedircela. Il segretario se ne era scordato, e la nota era rimasta nella segreteria. Molte scuse, molti perdoni: il suo padrone era buono, e noi non avremmo guadagnato nulla ad esser cattivi.
Bisogna però rimediarvi, e mio padre prese l’espediente di scrivere a sua consorte, che si trasferì a Venezia, e sollecitò il tutto da ogni parte. Gli attestati di stato libero e di buoni costumi non incontravano alcuna difficoltà, molto meno per la fede battesimale. La più grave difficoltà era quella della tonsura. Il Patriarca di Venezia non voleva concedere le lettere dimissorie senza la costituzione del patrimonio ordinato dai canoni della Chiesa. Come fare? I beni di mio padre nello Stato Veneto non esistevano, quelli di mia madre erano beni surrogati; bisognava ricorrere al senato per averne la dispensa. Quanti prolungamenti! Quante contraddizioni! Quanto tempo perduto! — Il segretario senatoriale con le sue scuse e col suo malgarbo ci costò caro. Pazienza! Mia madre tanto si adoperò, che finalmente riuscì; ma mentre che ella si affatica per suo figlio a Venezia, cosa faremo noi a Milano? Ecco quel che facemmo. Restammo quindici giorni a Milano, desinando e cenando in casa del mio protettore, che ci faceva osservare ciò che vi era di più bello in questa città magnifica, che è la capitale della Lombardia Austriaca. Per ora non farò parola di Milano, dovendo rivederla: ne parlerò a mio comodo, quando sarò più degno di parlarne. In questo frattempo mi si fa cangiar costume. Prendo il collare, e quindi partiamo per Pavia ben muniti di lettere commendatizie. Alloggiamo, ci mettiamo a dozzina in una buona e civil casa, e son presentato al superiore del collegio, ove dovevo esser ricevuto.
Avevamo una lettera del senatore Goldoni per il signore Lauzio professore di legge. Mi condusse egli stesso all’università, dove lo seguitai nella classe che occupava, e non perdei tempo, mentre aspettavo il titolo di collegiale.
Era il signor Lauzio un giureconsulto del più gran merito. Aveva una libreria ricchissima di cui ero padrone, come lo ero della sua tavola, e la di lui signora consorte aveva molta bontà per me. Era ancora molto giovine, e sarebbe stata bella, se non fosse stata enormemente sfigurata da un mostruoso gozzo, che dal mento scendeva alla gola. Non son rari questi gioielli in Milano ed in Bergamo; quello però di madama Lauzio era di una specie particolare, avendo intorno a sè una piccola famiglia di altri piccoli gozzi. Un gran flagello per le donne è il vaiuolo; ma non credo, che una giovine, che ne fosse bezzicata, baratterebbe mai le sue bezzicature con un gozzo milanese. Profittai molto della libreria del professore, percorsi le Instituzioni del Gius Romano, ed arricchii la mente delle materie per le quali ero destinato. Non sempre mi fermavo sopra i testi della Giurisprudenza; vi erano dei palchetti forniti ancora di una collezione di commedie antiche e moderne, e questa era la mia lettura favorita. In tutto il tempo della mia dimora a Pavia mi ero proposto di dividere le mie occupazioni fra lo studio legale ed il comico; ma il mio ingresso nel collegio mi cagionò più dissipazione che studio, e feci bene a mettere a profitto quei tre mesi che dovetti aspettare le lettere dimissorie e gli attestati di Venezia.
Rilessi con maggior cognizione e maggior piacere i poeti greci e latini, e dicevo a me stesso: vorrei poterli imitare nei loro disegni, nel loro stile, nella lor precisione, ma non sarei contento se non giungessi a porre nelle mie produzioni una maggior commozione, caratteri meglio espressi, più arte comica, e scioglimenti più felici. Facile inventis addere. Dobbiamo rispettare i gran maestri, che ci hanno spianata la strada delle scienze e delle arti; ma ogni secolo ha il suo genio dominante, ed ogni clima il suo gusto nazionale. Gli autori greci e romani hanno conosciuta la natura, l’hanno seguita da vicino; ma l’hanno esposta senza illusione e senza destrezza. Questa è la ragione, per la quale i Padri della Chiesa hanno scritto contro gli spettacoli, ed i Papi li hanno proscritti; ma la decenza li ha corretti, e l’anatema è stato rivocato in Italia; molto più dovrebbe esserlo in Francia; questo è un fenomeno che io non posso concepire.
Scartabellando sempre in questa libreria, vidi Teatri inglesi, Teatri spagnoli, Teatri francesi, ma non trovai Teatri italiani. Vi erano qua e là delle produzioni italiane di antica data, ma veruna raccolta, veruna collezione che potesse fare onore all’Italia. Vidi con pena, che mancava qualche cosa di essenziale a questa nazione, che aveva conosciuta l’arte drammatica prima di qualunque altra delle moderne: nè potevo comprendere, come l’Italia l’avesse negletta, avvilita, e imbastardita: desideravo però con passione di veder la mia patria rialzarsi a livello delle altre, e mi ripromettevo contribuirvi. Ma ecco una lettera di Venezia, che ci porta le dimissorie, gli attestati, la fede battesimale. Poco mancò, che quest’ultimo recapito non ci ponesse in un nuovo impiccio. Bisognava aspettare due anni, perchè giungessi all’età richiesta per il mio ricevimento nel collegio; non so qual fosse il santo che facesse il miracolo; so bene, che andai un giorno a letto con sedici anni, e il giorno dopo allo svegliarmi ne avevo diciotto.