Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/V

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Carlo Goldoni - Memorie (1787)
Traduzione dal francese di Francesco Costero (1888)
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CAPITOLO V.

Barca dei commedianti. — Grande stupore di mia madre. — Lettera aggradevole del mio genitore.

I miei commedianti non erano quelli di Scarron; presentava peraltro un piacevole colpo d’occhio questa compagnia imbarcata. Dodici persone fra comici ed attrici, un suggeritore, un macchinista, un guardaroba, otto servitori, quattro cameriere, due nutrici, ragazzi d’ogni età, cani, gatti, scimmie, pappagalli, uccelli, piccioni, ed un agnello: pareva l’arca di Noè.

La barca essendo spaziosissima, vi erano molti spartimenti, ed ogni donna aveva il suo bugigattolo con tende; era stato accomodato un buon letto per me accanto al direttore, e ciascuno era ben allogato.

Il soprintendente generale del viaggio, che nel tempo istesso era cuoco e cantiniere, suonò un campanello, ch’era il segno della colazione, tutti si adunarono in una specie di salone formato nel mezzo del naviglio sopra le casse, le valigie, e le balle; eranvi sopra una tavola ovale caffè, tè, latte, arrosto acqua e vino. La prima amorosa chiese un brodo, ma non ve n’era; eccola nella maggior furia, e ci volle molta pena per calmarla con una tazza di cioccolata; era appunto la più brutta e la più incontentabile.

Dopo la colazione fu proposta la partita per aspettare il pranzo. Giuocavo benissimo a’ tressetti, giuoco favorito di mia madre, da cui l’avevo imparato. Eravamo dunque per cominciare una partita de’ tressetti e di picchetto; ma una partita di faraone cominciata sulla coperta della nave trasse a sè tutta la compagnia. Il banco indicava piuttosto passatempo che interesse, nè l’avrebbe sotto altro titolo sofferto il direttore. Si giuocava, si rideva, si scherzava, e si facevano delle burle a vicenda; ma la campana annunzia il pranzo, e tutti vi concorrono. Maccheroni! tutti vi si affollano sopra; e se ne divorano tre zuppiere; bove alla moda, pollame freddo, lombi di vitella, frutta, eccellente vino; ah, che buon pranzo, oh, che appetito! La tavola durò quattro ore; si suonarono diversi strumenti, e si cantò molto. La servetta cantava a maraviglia; io la guardava attentamente, ed essa mi faceva una sensazione singolare: ma ahimè! successe un caso, che interruppe il brio della compagnia. Scappò dalla sua gabbia un gatto, che era il trastullo della prima amorosa; ella chiama tutti in soccorso, e gli si corre dietro; ma il gatto, che era salvatico come la sua padrona, sgusciava, saltava, si rimpiattava per tutto, e vedendosi inseguito si arrampicò all’albero del legno. Madame Clarice si trova impacciata; un marinaio sale per riprenderlo, e il gatto si slancia in mare, e vi resta. Ecco la [p. 20 modifica] sua padrona in disperazione; vuol fare strage di tutti gli animali che scorge, vuol precipitar nella tomba del suo caro gattino la sua cameriera: tutti ne prendono la difesa, e diviene generale l’altercazione. Sopraggiunge il direttore; ride, scherza, fa carezze all’afflitta dama, che termina con ridere ella stessa: ed ecco il gatto in oblio.

Ma basti fin qui; ed è forse troppo abusare del mio lettore trattenendolo sopra queste frivolezze, che non ne meritano la pena. Il vento non era favorevole, onde restammo in mare tre giorni. Sempre i medesimi divertimenti, i medesimi piaceri, il medesimo appetito. Arrivammo a Chiozza il quarto giorno. Non avevo l’indirizzo dell’abitazione di mia madre, ma non stetti molto tempo in cerca. Madama Goldoni e sua sorella portavano la cresta, erano nella classe de’ ricchi, e ognuno le conosceva. Pregai il direttore ad accompagnarmi fin là; egli condiscese con buona grazia, e ci venne; fece passare l’ambasciata, ed io restai nell’anticamera. Signora, egli disse a mia madre, io vengo da Rimini, ed ho nuove da darvi del vostro signor figlio. — Come sta mio figlio? — Benissimo. — È egli contento del suo stato? — Signora, non troppo: soffre molto. — Perchè? — Per esser lontano dalla sua tenera madre. — Povero ragazzo! Vorrei averlo presso di me (Ascoltavo tutto, e mi batteva il cuore). — Signora, continuò, il comico, gli avevo esibito di condurlo meco. — Perchè non l’avete fatto? — Lo avreste voi approvato? — Senza dubbio. — Ma i suoi studi? — I suoi studi? non ci poteva ritornare? e poi vi sono maestri per tutto. — Lo vedreste voi dunque con piacere? — Col più gran giubilo. — Signora, eccolo. — Apro la porta, entro, mi getto ai piedi di mia madre; ella mi abbraccia, e le lacrime c’impediscono di parlare. Avvezzo il comico a simili scene, ci disse alcune cose piacevoli, prese congedo da mia madre, e se ne andò. Resto seco e confesso con sincerità la sciocchezza che avevo fatta; ella mi riprende, mi abbraccia, ed eccoci l’un dell’altro contenti. Torna mia zia che era uscita di casa; altro stupore, altri abbracci: mio fratello era a dozzina. Il giorno dopo il mio arrivo, mia madre ricevè una lettera del signor Battaglini di Rimini, con la quale le dava parte della mia sciocchezza; se ne doleva amaramente, e le dava avviso che avrebbe ricevuto speditamente un bauletto pieno di libri, di biancheria e robe, di cui la sua governante non sapeva che fare. Ne fu dolentissima mia madre, e volea sgridarmi: ma a proposito di lettera, si ricordò che ne aveva una di mio padre importantissima; andò a cercarla, e me la consegnò: eccone il contenuto:

«Pavia, 17 marzo 1721.

 «Mia cara consorte,

«Ho una buona nuova da darti; questa riguarda nostro figlio, e ti darà molto piacere. Ho lasciato Modena, come tu sai, per andare a Piacenza a dar sesto ad alcuni affari col signor Barilli mio cugino, che mi è ancora debitore di un resto di dote materna; e se mi riesce riunir questa somma con gli arretrati che mi son toccati a Modena, ci potremo ristabilire con tutto l’agio. Mio cugino non si trovava a Piacenza, ed era partito per Pavia onde assistere alli sponsali di un nipote di sua moglie. Mi trovavo per strada, e il viaggio non era lungo; presi dunque il partito di raggiungerlo a Pavia. Lo veggo, gli parlo, confessa il suo debito, e ci accomodiamo. Mi pagherà in sei anni di tempo. Ma ecco quel che mi è accaduto in questa città. Al mio arrivo vado a smontare all’albergo della Croce Rossa, e mi si chiede il nome per farne il rapporto al tribunale di [p. 21 modifica] polizia: il giorno dopo, l’albergatore mi presenta uno staffiere del governatore, che mi prega con buonissima maniera a portarmi con tutto mio comodo al palazzo del governo. Malgrado il termine a vostro comodo, non mi trovavo punto accomodato in tal momento non potendo indovinare quello che si fosse voluto da me. Nell’uscire, andai subito a casa di mio cugino, e dopo la sistemazione dei nostri affari gli partecipai questa maniera d’invito, che non lasciava di tenermi inquieto, e gli domandai se conosceva il governatore di Pavia personalmente. Mi disse di sì che lo conosceva da lungo tempo, ch’era il marchese Goldoni-Vidoni, una delle buone fammiglie di Cremona, e senatore di Milano. A questo nome di Goldoni sbandii dall’animo ogni timore, e concepii delle idee lusinghiere; nè m’ingannai. Mi portai dopo pranzo dal governatore, che mi fece l’accoglienza più compita e graziosa. Il rapporto del mio cognome gli aveva risvegliata la voglia di conoscermi: ci trattenemmo a crocchio molto tempo; gli dissi, che ero originario di Modena, ed egli mi fece l’onore di farmi avvertire, che la città di Cremona non era molto distante da quella di Modena. Arrivò gente, e mi pregò ad essere a pranzo da lui il giorno dopo. Non mancai d’esservi, come tu puoi credere. Eravamo soli quattro a tavola, e si pranzò molto bene; gli altri due commensali partirono dopo il caffè, sicchè restammo soli il senatore ed io. Parlammo di parecchie cose, principalmente della mia famiglia, del mio stato, e della mia situazione; insomma, per abbreviare la lettera, mi promesse che avrebbe procurato di far qualche cosa per mio figlio maggiore. A Pavia vi è una università celebre quanto quella di Padova, e vi sono parecchi collegi, dove si ricevono gratuitamente gli alunni; il signor marchese s’impegnò d’ottenere per me uno di tali posti nel collegio del Papa; e se Carlo si porterà bene, avrà premura di lui. Non scriver nulla, sopra tal proposito a tuo figlio; al mio arrivo lo farò tornare, e voglio riserbarmi il piacere di metterlo al fatto di tutto io medesimo. Non tarderò molto, lo spero».

Tutto il contenuto di questa lettera era fatto per lusingarmi, e per farmi concepir le speranze più estese. Compresi allora l’imprudenza del temerario mio passo, e temevo l’indignazione di mio padre, come pure che non diffidasse della mia condotta in una città più distante nella quale avrei potuto avere una maggiore libertà. Mia madre mi assicurò che avrebbe procurato di garantirmi dai rimproveri del mio genitore, e che prendeva ogni carico sopra di sè, tanto più che le pareva sincero il mio pentimento.

Ero abbastanza ragionevole per la mia età; ma ero soggetto a certe scappate irreflessive, e queste mi hanno fatto molto torto. Voi lo vedrete e mi compatirete forse qualche volta.