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20 parte prima


sua padrona in disperazione; vuol fare strage di tutti gli animali che scorge, vuol precipitar nella tomba del suo caro gattino la sua cameriera: tutti ne prendono la difesa, e diviene generale l’altercazione. Sopraggiunge il direttore; ride, scherza, fa carezze all’afflitta dama, che termina con ridere ella stessa: ed ecco il gatto in oblio.

Ma basti fin qui; ed è forse troppo abusare del mio lettore trattenendolo sopra queste frivolezze, che non ne meritano la pena. Il vento non era favorevole, onde restammo in mare tre giorni. Sempre i medesimi divertimenti, i medesimi piaceri, il medesimo appetito. Arrivammo a Chiozza il quarto giorno. Non avevo l’indirizzo dell’abitazione di mia madre, ma non stetti molto tempo in cerca. Madama Goldoni e sua sorella portavano la cresta, erano nella classe de’ ricchi, e ognuno le conosceva. Pregai il direttore ad accompagnarmi fin là; egli condiscese con buona grazia, e ci venne; fece passare l’ambasciata, ed io restai nell’anticamera. Signora, egli disse a mia madre, io vengo da Rimini, ed ho nuove da darvi del vostro signor figlio. — Come sta mio figlio? — Benissimo. — È egli contento del suo stato? — Signora, non troppo: soffre molto. — Perchè? — Per esser lontano dalla sua tenera madre. — Povero ragazzo! Vorrei averlo presso di me (Ascoltavo tutto, e mi batteva il cuore). — Signora, continuò, il comico, gli avevo esibito di condurlo meco. — Perchè non l’avete fatto? — Lo avreste voi approvato? — Senza dubbio. — Ma i suoi studi? — I suoi studi? non ci poteva ritornare? e poi vi sono maestri per tutto. — Lo vedreste voi dunque con piacere? — Col più gran giubilo. — Signora, eccolo. — Apro la porta, entro, mi getto ai piedi di mia madre; ella mi abbraccia, e le lacrime c’impediscono di parlare. Avvezzo il comico a simili scene, ci disse alcune cose piacevoli, prese congedo da mia madre, e se ne andò. Resto seco e confesso con sincerità la sciocchezza che avevo fatta; ella mi riprende, mi abbraccia, ed eccoci l’un dell’altro contenti. Torna mia zia che era uscita di casa; altro stupore, altri abbracci: mio fratello era a dozzina. Il giorno dopo il mio arrivo, mia madre ricevè una lettera del signor Battaglini di Rimini, con la quale le dava parte della mia sciocchezza; se ne doleva amaramente, e le dava avviso che avrebbe ricevuto speditamente un bauletto pieno di libri, di biancheria e robe, di cui la sua governante non sapeva che fare. Ne fu dolentissima mia madre, e volea sgridarmi: ma a proposito di lettera, si ricordò che ne aveva una di mio padre importantissima; andò a cercarla, e me la consegnò: eccone il contenuto:

«Pavia, 17 marzo 1721.

«Mia cara consorte,

«Ho una buona nuova da darti; questa riguarda nostro figlio, e ti darà molto piacere. Ho lasciato Modena, come tu sai, per andare a Piacenza a dar sesto ad alcuni affari col signor Barilli mio cugino, che mi è ancora debitore di un resto di dote materna; e se mi riesce riunir questa somma con gli arretrati che mi son toccati a Modena, ci potremo ristabilire con tutto l’agio. Mio cugino non si trovava a Piacenza, ed era partito per Pavia onde assistere alli sponsali di un nipote di sua moglie. Mi trovavo per strada, e il viaggio non era lungo; presi dunque il partito di raggiungerlo a Pavia. Lo veggo, gli parlo, confessa il suo debito, e ci accomodiamo. Mi pagherà in sei anni di tempo. Ma ecco quel che mi è accaduto in questa città. Al mio arrivo vado a smontare all’albergo della Croce Rossa, e mi si chiede il nome per farne il rapporto al tribunale di