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capitolo v 19


notte; vado al porto, entro il primo nella barca, mi nascondo sotto la prua, ed avendo il mio calamaio da tasca, scrivo al signor Battaglini. Mi scuso dicendo, che la voglia di riveder mia madre mi rapisce, lo prego di dare in dono le mie robe alla governante, che mi aveva assistito nella malattia, e gli dichiaro che io parto. Questa è una mancanza che ho fatta, lo confesso; ne ho fatte ancora dell’altre, e le confesserò in egual modo. Giungono i commedianti. Dov’è il signor Goldoni? Ecco Goldoni, che vien fuori dalla sua cantina; si pongono tutti a ridere, mi fanno festa, mi accarezzano, e si fa vela. Rimini, addio.


CAPITOLO V.

Barca dei commedianti. — Grande stupore di mia madre. — Lettera aggradevole del mio genitore.

I miei commedianti non erano quelli di Scarron; presentava peraltro un piacevole colpo d’occhio questa compagnia imbarcata. Dodici persone fra comici ed attrici, un suggeritore, un macchinista, un guardaroba, otto servitori, quattro cameriere, due nutrici, ragazzi d’ogni età, cani, gatti, scimmie, pappagalli, uccelli, piccioni, ed un agnello: pareva l’arca di Noè.

La barca essendo spaziosissima, vi erano molti spartimenti, ed ogni donna aveva il suo bugigattolo con tende; era stato accomodato un buon letto per me accanto al direttore, e ciascuno era ben allogato.

Il soprintendente generale del viaggio, che nel tempo istesso era cuoco e cantiniere, suonò un campanello, ch’era il segno della colazione, tutti si adunarono in una specie di salone formato nel mezzo del naviglio sopra le casse, le valigie, e le balle; eranvi sopra una tavola ovale caffè, tè, latte, arrosto acqua e vino. La prima amorosa chiese un brodo, ma non ve n’era; eccola nella maggior furia, e ci volle molta pena per calmarla con una tazza di cioccolata; era appunto la più brutta e la più incontentabile.

Dopo la colazione fu proposta la partita per aspettare il pranzo. Giuocavo benissimo a’ tressetti, giuoco favorito di mia madre, da cui l’avevo imparato. Eravamo dunque per cominciare una partita de’ tressetti e di picchetto; ma una partita di faraone cominciata sulla coperta della nave trasse a sè tutta la compagnia. Il banco indicava piuttosto passatempo che interesse, nè l’avrebbe sotto altro titolo sofferto il direttore. Si giuocava, si rideva, si scherzava, e si facevano delle burle a vicenda; ma la campana annunzia il pranzo, e tutti vi concorrono. Maccheroni! tutti vi si affollano sopra; e se ne divorano tre zuppiere; bove alla moda, pollame freddo, lombi di vitella, frutta, eccellente vino; ah, che buon pranzo, oh, che appetito! La tavola durò quattro ore; si suonarono diversi strumenti, e si cantò molto. La servetta cantava a maraviglia; io la guardava attentamente, ed essa mi faceva una sensazione singolare: ma ahimè! successe un caso, che interruppe il brio della compagnia. Scappò dalla sua gabbia un gatto, che era il trastullo della prima amorosa; ella chiama tutti in soccorso, e gli si corre dietro; ma il gatto, che era salvatico come la sua padrona, sgusciava, saltava, si rimpiattava per tutto, e vedendosi inseguito si arrampicò all’albero del legno. Madame Clarice si trova impacciata; un marinaio sale per riprenderlo, e il gatto si slancia in mare, e vi resta. Ecco la