Memorie di Carlo Goldoni/Parte prima/IV
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte prima - III | Parte prima - V | ► |
CAPITOLO IV.
- Mio viaggio a Rimini. — Studio di Filosofia. — Mia prima relazione con i comici.
Fu eseguito in pochi giorni il disegno. Presa una carrozza a quattro posti, dove entrò anche mio fratello, sebbene non compreso nei patti, prendemmo la volta di Spoleto, ch’era più comoda, ed arrivammo a Rimini, ove si trovava riunita tutta la famiglia del conte Rinalducci, e dove fummo accolti con grandissima gioia.
Era per me necessario non interporre una seconda volta lacune nelle mie letterarie occupazioni; mio padre mi destinava alla medicina, ed io doveva studiare la filosofia. I Domenicani di Rimini erano in gran riputazione per la logica, che apre la strada a tutte le scienze fisiche e speculative. Il conte Rinalducci ci fece fare la conoscenza del professor Candini, ed io venni affidato alla cura di lui. Non potendo tenermi in casa propria il signor conte, fui collacato a dozzina dal signor Battaglini negoziante e banchiere, amico e patriotto di mio padre. Malgrado le rimostranze, ed i rammarichi di mia madre, che non avrebbe mai voluto distaccarsi da me, tutta la mia famiglia prese la strada di Venezia, ove non dovevo riunirmi alla medesima, che allorquando si fosse creduto a proposito di richiamarmi. Imbarcarono per Chiozza in una barca di quel paese; il vento era favorevole ed arrivarono prestissimo; ma essendo mia madre alquanto affaticata, vi si trattennero per riposarsi.
Chiozza è una città a otto leghe da Venezia, fabbricata sopra palafitte come la capitale: vi si contano quarantamila anime tutta plebe, pescatori, marinai, donne che lavorano galloni, e trine, delle quali si fa un commercio considerabile; e non vi è che un piccol numero di persone, che s’inalzino sopra il volgo. In questo paese si divide tutta la popolazione in due classi: ricchi, e poveri. Quelli che portano una parrucca ed un mantello sono i ricchi; quelli che non hanno che un berretto ed un cappotto, sono i poveri, e bene spesso questi ultimi hanno quattro volte più danaro degli altri. Mia madre stava benissimo in questo paese, poichè l’aria di Chiozza era consimile alla sua aria nativa; la sua abitazione era bella, e vi godeva un colpo d’occhio piacevole, e una deliziosa libertà. Sua sorella era compiacente, mio fratello era ancora un fanciullo che non s’esprimeva, e mio padre, che aveva certi disegni in capo, li comunicò a sua moglie, da cui furono approvati. — Converrebbe, diceva egli, non ritornare a Venezia, che in uno stato da non essere a carico di alcuno. Per questo effetto era necessario, che andasse prima a Modena da sè stesso per assestare gli affari della famiglia: così fu fatto. Ecco mio padre a Modena, mia madre a Chiozza ed io a Rimini.
Caddi ammalato: si manifestò il vaiuolo, ma di un’indole benigna. Il signor Battaglini non ne diede parte a’ miei parenti, che allorquando mi vide fuor di pericolo: non è possibile destare una maggiore attenzione, ed esser meglio serviti, di quello che io fui in tale occasione.
Appena fui in grado di escire, il mio ospite, vigilante e zelantissimo del mio bene, mi sollecitò di andare a rivedere Padre Candini. Vi andai mio malgrado: questo professore, quest’uomo celebre mi annoiava a morte. Era affabile, savio, dotto, ed aveva molto merito, ma era affatto Tomista, nè poteva scostarsi dal suo metodo ordinario. Le sue digressioni, i suoi giri scolastici mi parevano inutili, e i suoi barbara, ed i suoi baralipton mi sembravano ridicoli. Io scriveva sotto la di lui dettatura, ma in vece di dare una occhiata in casa a’ miei quaderni, pascevo lo spirito d’una filosofia molto più utile ed assai più dilettevole, leggendo Plauto, Terenzio, Aristofane, ed i frammenti di Menandro. È ben vero che io non faceva una brillante figura nei circoli che si tenevano giornalmente. Avevo però l’accortezza di far comprendere a’ miei compagni che, nè una stupida infingardaggine, nè una crassa ignoranza mi rendevano indifferente alle lezioni del maestro, la prolissità delle quali mi stancava e mi veniva a nausea: vi erano molti che pensavano come me.
La filosofia moderna non aveva ancora fatti i considerabili progressi, che fece dipoi: bisognava attenersi (per gli ecclesiastici sopratutto) a quella di san Tommaso, o a quella di Scoto, o alla peripatetica, o alla mista, che tutte insieme non fanno altro, che allontanarsi dalla filosofia del buon senso. Avevo gran bisogno, per alleviare la noia che mi opprimeva, di procurarmi qualche piacevole distrazione: mi se ne porse l’opportunità, ed io ne profittai; nè dispiacerà forse di passar meco dai circoli filosofici a quelli di una truppa di commedianti. Ve ne era una in Rimini, che mi parve deliziosa. Era la prima volta che io vedeva le donne sul teatro, e trovai, che ciò abbelliva la scena in una maniera più seducente. Rimini è nella legazione di Ravenna, si ammettono le donne sul teatro, nè vi si veggono, come a Roma, uomini senza barba, o barbe ancor nascenti.
Andai alla commedia molto modestamente in platea nei primi giorni, e vedevo alcuni giovani come me tra le scene, tentai di penetrarvi, nè vi trovai difficoltà: davo delle furtive occhiate a quelle signorine, ed esse mi fissavano arditamente. A poco a poco mi addomesticai, e di discorso in discorso, di domanda in domanda intesero che io era Veneziano. Erano tutte mie compatriotte, mi fecero carezze, e mi usarono attenzioni senza fine. Il direttore medesimo mi colmò di gentilezze, e mi pregò di pranzare da lui: vi andai, nè vidi più il reverendo Padre Caudini.
Erano i commedianti per terminare le recite pattuite, e dovevano partire; la loro partenza mi dava veramente pena. Un venerdì, giorno di riposo per tutta l’Italia fuori che per lo Stato Veneto, fu fatta una scampagnata, ov’era tutta la compagnia. Il direttore annunziò la partenza fra otto giorni, ed aveva già assicurata la barca, che doveva condurli a Chiozza. A Chiozza? Io dissi pieno di stupore. — Sì, signore, noi dobbiamo andare a Venezia, ma ci tratterremo quindici o venti giorni a Chiozza, per darvi qualche rappresentazione di passaggio. — Ah mio Dìo! mia madre è a Chiozza, ed io la vedrei con molto piacere. — Venite con noi. — Sì, sì, (tutti gridarono un dopo l’altro) con noi, con noi, nella nostra barca; ci starete bene, non spenderete nulla, si giuoca, si canta, si ride, ci divertiamo. — Come resistere a tanto allettamento? Perchè perdere un’occasione così bella? Accetto, mi impegno, e fo i miei preparativi.
Incomincio dal parlarne al mio ospite che vi si oppone vivissimamente: insisto, ed egli ne rende inteso il conte Rinalducci. Erano tutti contro me. Fo sembiante di cedere, sto quieto; il giorno fissato per partire mi metto in tasca due camicie, ed un berretto da notte; vado al porto, entro il primo nella barca, mi nascondo sotto la prua, ed avendo il mio calamaio da tasca, scrivo al signor Battaglini. Mi scuso dicendo, che la voglia di riveder mia madre mi rapisce, lo prego di dare in dono le mie robe alla governante, che mi aveva assistito nella malattia, e gli dichiaro che io parto. Questa è una mancanza che ho fatta, lo confesso; ne ho fatte ancora dell’altre, e le confesserò in egual modo. Giungono i commedianti. Dov’è il signor Goldoni? Ecco Goldoni, che vien fuori dalla sua cantina; si pongono tutti a ridere, mi fanno festa, mi accarezzano, e si fa vela. Rimini, addio.