Marocco/Sul Sebù
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SUL SEBÙ
Era il mezzodì del quinto giorno della nostra partenza da Fez, quando, dopo una cavalcata di cinque ore a traverso una successione di valli deserte, ripassavamo per la gola Beb-el-Tinca e vedevamo un’altra volta dinanzi a noi la vastissima pianura di Sebù inondata d’una luce bianca, ardente, implacabile, di cui il solo ricordo mi fa salire le vampe al viso. Tutti, fuorchè l’Ambasciatore e il capitano, che partecipano della virtù favolosa della salamandra, di star nel fuoco senz’ardere, ci coprimmo il capo come fratelli della Misericordia, ci ravvoltammo con gran cura nelle cappe e nelle coperte, e senza profferire una parola, col mento sul petto, cogli occhi socchiusi, scendemmo nella terribile pianura, confidando nella clemenza di Dio. A un certo punto si sentì la voce del Comandante il quale ci annunziava che era già morto un cavallo. Era morto infatti uno dei cavalli che portavano i bagagli. Nessuno rispose. — Si sa — soggiunse il Comandante spietato; — i cavalli muoiono per i primi. — Anche queste parole furono seguite da un silenzio mortale. Dopo mezz'ora, si sentì la voce fioca d'un altro che domandava all'Ussi a chi avrebbe lasciato il suo quadro di Bianca Cappello. Per tutto il tragitto non si sentirono altre parole. Anche i soldati della scorta tacevano. Il caldo opprimeva tutti. Persino il caid Hamed Ben Kasen, malgrado il grande turbante che gli ombreggiava il viso, gocciolava di sudore. Povero generale! Quella mattina mi dimostrò una pietà di cui mi ricorderò per tutta la vita. Vedendo che rimanevo indietro, venne al mio fianco e si mise a bastonare la mia mula con uno zelo così sviscerato, che in pochi momenti passai dinanzi a tutti, portato via di galoppo, saltellando sulla sella come un automa di gomma elastica, e arrivai all'accampamento cinque minuti prima degli altri, colle budella sottosopra e il cuore pieno di gratitudine.
Quel giorno nessuno uscì dalla tenda fino all'ora del desinare, e il desinare stesso fu silenzioso, come se tutti si sentissero già oppressi dal caldo del giorno seguente. Un solo avvenimento, a sera innoltrata, destò un po' di chiasso nell'accampamento. Eravamo alle frutta, quando udimmo un gridìo lamentevole dalla parte del piccolo accampamento della scorta, e nello stesso tempo un rumore cadenzato di colpi che parevano frustate. Credendo che fossero i soldati o i servi che scherzassero, non ci badammo. Ma a un tratto le grida diventarono strazianti, e sentimmo profferire distintamente, con un accento d'invocazione supplichevole, il nome del fondatore di Fez: — Mulei-Edriss! Mulei-Edriss! Mulei-Edriss! — Ci alzammo tutti da tavola, e correndo verso quella parte, arrivammo in tempo a vedere una tristissima scena. Due soldati della scorta tenevano sospeso, uno per le spalle, l'altro per i piedi, un servo arabo; un terzo lo flagellava disperatamente con una frusta, un quarto teneva in mano una lanterna, gli altri facevano corona, il caid assisteva colle braccia incrociate sul petto. L'Ambasciatore fece rilasciare immediatamente la vittima, che s'allontanò singhiozzando, e domandò al caid che cosa era accaduto. — Nulla, nulla, — rispose, — una piccola correzione. — E soggiunse che aveva fatto punire quell'uomo perchè si divertiva a buttare ai suoi compagni delle pallottole di cuscussù, grave colpa, sacrilegio anzi per un Mussulmano, che deve rispettare ogni alimento prodotto dalla terra come un dono di Dio. Dicendo questo, il povero caid, bonissim'omo in fondo, non riusciva a nascondere, benchè volesse parere impassibile, il dolore d'aver dovuto infliggere quel castigo e la pietà che ne aveva provato; e questo bastò a rimetterlo al suo posto dentro al mio cuore.
La notte fummo svegliati da un caldissimo vento di levante, che ci fece balzar fuori della tenda colla bocca spalancata, in cerca d'un filo d'aria respirabile; e all'alba ci mettemmo in cammino con un tempo fosco che preannunziava una giornata anche più calda della precedente. Il cielo era tutto coperto di nuvole, da una parte infocate dal sole nascente e rotte in varii punti da raggi vivissimi; dalla parte opposta, nere e rigate da striscie oblique di pioggia. Da questo cielo inquieto scendeva una luce strana, che pareva passata a traverso una volta di vetro giallastro, e dava alla vastissima pianura tutta coperta di stoppie un arrabbiato colore sulfureo, che quasi offendeva la vista. Lontano, il vento sollevava e rigirava con una rapidità furiosa immensi nuvoli di polvere. La campagna era solitaria, l'aria pesante, l'orizzonte nascosto da un velo di vapori color di piombo. Senz'aver visto il Sahara, m'immaginai che dovesse presentare qualche volta quel medesimo aspetto, e già stavo per esprimere il mio pensiero, quando l'Ussi, che fu in Egitto, arrestandosi improvvisamente, esclamò con un accento di meraviglia: — Ecco il deserto!
Dopo quattr'ore di cammino, arrivammo sulla riva del Sebù, dove venti cavalieri dei Beni-Hassen, comandati da un bel ragazzo di dodici anni, figlio del Governatore Sid-Abd-Allà, ci vennero incontro di carriera, salutandoci colle solite fucilate e le solite grida.
L'accampamento fu piantato in fretta e in furia vicino al fiume, in un terreno nudo, rotto da profonde screpolature, e fatta colazione alla lesta, ci ritirammo tutti sotto le tende.
Fu quella la giornata più calda del viaggio.
M'ingegnerò di dare una lontana idea dei nostri tormenti.
I lettori gentili preparino il cuore a un sentimento di profonda pietà.
M'asciugo il sudore e scrivo.
Alle dieci della mattina, quando i miei tre compagni ed io ci ritirammo sotto la tenda, il termometro segnava quarantadue centigradi all'ombra. Per un'ora circa, la conversazione si mantenne animata. In capo a un ora, cominciando a provare una certa difficoltà a terminare i periodi, ci riducemmo a discorrere a proposizioni semplici. Poi, costandoci fatica anche il mettere insieme soggetto, verbo e attributo, smettemmo di parlare e tentammo di dormire. Fu un tentativo inutile. I letti caldi, le mosche, la sete, l'affanno non ci lasciavano chiuder occhio. Dopo aver molto sbuffato ed esserci molto dimenati, ci rassegnammo a star svegli, cercando d'ingannare il tempo in qualche modo. Ma non v'era modo. Sigari, pipe, libri, carte geografiche, tutto ci cadeva di mano. Provai a scrivere: alla terza riga la pagina era fradicia dal sudore che mi cadeva dalla fronte come acqua da una spugna spremuta. Mi sentivo tutto il corpo percorso da innumerevoli rigagnoli che s'intersecavano, s'inseguivano, formavano dei confluenti e dei ringorghi, e venivan giù per le braccia e per le mani fino ad annacquarmi l'inchiostro sulla punta della penna. In pochi minuti, fazzoletti, asciugamani, veli, tutto ciò che poteva servire ad asciugarci, era inzuppato che pareva stato immerso in un secchio. Avevamo un barile pieno d'acqua: provammo a bere: era bollente. La buttammo via: aveva appena toccato terra, che non se ne vedeva più traccia. A mezzogiorno il termometro segnava quarantaquattro gradi e mezzo. La tenda era un forno. Tutto quello che toccavamo, scottava. Mi posi una mano sulla testa: mi parve di metterla sopra una stufa. Il letto ci scaldava le reni a segno che non era più possibile star coricati. Provai a metter la mano in terra fuori della tenda: la terra era rovente. Nessuno parlava più. Solo di tratto in tratto si sentiva qualche languida esclamazione: — È una morte. — Non si può più resistere. — Si diventa matti. — S'affacciò un momento l'Ussi, cogli occhi fuori della testa, alla porta della tenda, mormorò con voce soffocata: — Si muore — e disparve. Diana, la povera bestiuola, accovacciata accanto al letto del Comandante, ansava in maniera da far temere che morisse di momento in momento. Fuori della tenda non si sentiva una voce umana, non si vedeva nessuno, tutto era immobile come in un accampamento abbandonato. I cavalli nitrivano in suono lamentevole. La lettiga del medico, vicina alla nostra tenda, crepitava come se si volesse spezzare. A un tratto si sentì la voce di Selam che gridò passando di corsa: — Se ha muerto un perro! (È morto un cane). — E uno! — rispose con voce fioca il Comandante, faceto fino alla morte. Al tocco il termometro segnava quarantasei gradi e mezzo. Allora cessarono anche i lamenti. Il Comandante, il viceconsole ed io stavamo distesi in terra immobili come corpi morti. In tutto l'accampamento, il capitano e l'Ambasciatore erano forse i due soli cristiani che dessero ancora segno di vita. Non ricordo quanto tempo io sia rimasto in quello stato. Ero immerso in una specie di stupore, sognavo ad occhi aperti, mi ribollivano nel capo mille immagini confuse di luoghi freschi e di cose gelate: mi precipitavo dall'alto d'una rupe in un lago, mettevo la nuca contro la bocca d'una pompa, mi fabbricavo una casa di ghiaccio, divoravo in dieci minuti tutti i pezzi duri di Napoli, e più sguazzavo nell'acqua e bevevo freddo, più mi sentivo morire di caldo, di sete, di rabbia, di sfinimento. Finalmente il capitano esclamò con voce funerea: — Quarantasette! — Fu l'ultima voce che mi ricordo d'aver sentita....
Verso sera venne a visitar l'Ambasciatore, in nome di suo padre malato, il figliuoletto del Governatore dei Beni-Hassen che avevamo veduto la mattina. Entrò nell'accampamento a cavallo, accompagnato da un ufficiale e da due soldati che lo presero in braccio quando scese di sella, e s'avanzò a passo grave verso la tenda dell'Ambasciatore, strascicando come un paludamento la sua gran cappa turchina, con la mano sinistra appoggiata sulla sciabola più lunga di lui, e la destra distesa in atto di saluto.
La mattina, visto a cavallo, c'era parso un bel ragazzo; ed aveva infatti due begli occhioni pieni di pensiero e un visino pallido d’un ovale gentile; ma vedendolo a piedi, ci accorgemmo ch’era rachitico e gibboso. Da ciò nasceva forse la sua tristezza. In tutto il tempo che rimase con noi, non spuntò un sorriso sulla sua bocca, non si rasserenò un momento il suo volto. Ci fissò l’un dopo l’altro con uno sguardo profondo e non rispose alle domande dell’Ambasciatore che con parole tronche e sommesse. Una sola volta gli passò un barlume di allegrezza negli occhi; e fu quando l’Ambasciatore gli fece dire che aveva ammirato, nelle cariche della mattina, il suo modo ardito e grazioso di cavalcare; ma non fu che un barlume.
Benchè gli tenessimo tutti gli occhi addosso, e fosse quella probabilmente la prima volta ch’egli compariva, in carattere ufficiale, davanti a un Ambasciata europea, non mostrò ombra d’imbarazzo. Sorbì lentamente il suo tè, mangiò dei confetti, parlò nell’orecchio al suo ufficiale, s’aggiustò due o tre volte sul capo il suo turbantino, osservò attentamente tutti i nostri stivali, lasciò indovinare che si seccava; poi si strinse sul petto, accommiatandosi, la mano dell’Ambasciatore, e tornò verso il suo cavallo colla stessa gravità di Sultano con cui s’era avvicinato alla tenda.
Messo in sella dal suo ufficiale, disse ancora una volta: — La pace sia con voi! — e partì di galoppo, seguito dal suo piccolo stato maggiore incappucciato.
Quella stessa sera vennero parecchi malati a cercare il dottore, il quale col dracomanno Salomone e un drappello di soldati era partito poco prima, per la via d’Alkazar, alla volta di Tangeri. Venne, fra gli altri, un povero ragazzo mezzo nudo, macilento, cogli occhi rovinati, che appena ci vedeva e pareva affranto dalla fatica. — Che cosa vuoi? — gli domandò il Morteo — Cerco il medico cristiano, — rispose con voce tremante. Quando intese ch’era partito rimase un momento come istupidito, e poi gridò con accento disperato: — Ma io non ci vedo più!... Io ho fatto otto miglia per venir qui a farmi guarire dal medico cristiano!... Io ho bisogno di vedere il medico cristiano! — E diede in uno scoppio di pianto da straziare il cuore. Il Morteo gli mise in mano una moneta, che accettò con indifferenza, e indicandogli la via che aveva preso il dottore, gli disse che, andando di buon passo, avrebbe forse potuto ancora raggiungerlo. Il ragazzo stette un po’ incerto, guardando verso quella parte cogli occhi pieni di lagrime, e poi si mise lentamente in cammino.
Il sole tramontò quella sera sotto un padiglione immenso di nuvole color d’oro e di bragia, e lanciando rasente la pianura i suoi ultimi raggi sanguigni, calò dietro la linea diritta dell’orizzonte come un enorme disco rovente che si sprofondasse nelle viscere della terra.
E la notte fece freddo!
La mattina, al levar del sole, eravamo già sulla riva sinistra del Sebù, nel medesimo punto dove l’avevamo passato venendo da Tangeri; e appena giunti, vedevamo comparire sulla riva opposta, accompagnato dai suoi ufficiali e dai suoi soldati, il simpatico governatore Sid-Bekr-el-Abbassi, colla stessa cappa bianca e collo stesso cavallo nero bardato di color celeste, con cui ci s’era presentato la prima volta.
Ma il passaggio del fiume presentò questa volta una difficoltà impreveduta.
Dei due barconi sui quali dovevamo traghettare, uno era in pezzi; l’altro rotto in più parti e mezzo affondato nella mota della sponda. Il piccolo duar abitato dalle famiglie dei barcaioli, era deserto; il fiume non guadabile che con grave pericolo; nessun altro barcone che alla distanza d’una giornata almeno di cammino da quel punto. Come passare? Che fare? Un soldato attraversò il fiume a nuoto e andò a portar la notizia al Governatore, il quale mandò un altro soldato, a nuoto, a dare una spiegazione della cosa. I barcaiuoli erano stati avvertiti il giorno prima di tenersi pronti per traghettare l’Ambasciata che sarebbe arrivata la mattina; ma trovandosi i barconi, per loro incuria, ridotti in stato da non poter servire, e non essendo capaci essi, o non volendo durar la fatica di accomodarli, erano fuggiti durante la notte, Dio sa dove, colle loro famiglie e coi loro animali, per sottrarsi al castigo del Governatore. Non rimaneva dunque altro da fare che tentar di riparare alla meglio il barcone meno fracassato, e così si fece. I soldati corsero a raccoglier uomini nei duar vicini e subito furono cominciati i lavori sotto l’alta direzione di Luigi il calafato, che in quell’occasione per lui memorabile, sostenne gloriosamente l’onore della marina italiana. Era bello vedere come lavoravano gli arabi e i mori. Dieci insieme, urlando e agitandosi, non facevano in mezz’ora il lavoro che facevano Luigi e il Ranni, militarmente silenziosi, in cinque minuti. Tutti comandavano, tutti criticavano, tutti andavano in collera, tutti tagliavan l’aria con gesti imperiosi, che parevan tanti ammiragli, e nessuno levava un ragno dal buco. Intanto il Governatore e il caid conversavano ad alta voce da una sponda all’altra; i cavalieri delle due scorte galoppavano lungo le rive cercando all’orizzonte i fuggitivi; le bestie da soma guadavano il fiume in lunghe file coll’acqua a mezzo il collo; i lavoratori cantavano le lodi del profeta; e sulla sponda opposta sorgeva una gran tenda azzurrina sotto la quale i servi di Sid-Bekr-el-Abbassi si affaccendavano a prepararci una squisita colezione di fichi, di confetti e di tè, che noi pregustavamo col cannocchiale, canterellando il coro d’un’opera semi-seria composta durante gli ozi di Fez col titolo: — Gl’Italiani nel Marocco.
Coll’aiuto del Profeta, il barcone fu accomodato in due ore, il Ranni ci pigliò sulle spalle e ci scaricò l’un dopo l’altro sulla prua, e giungemmo all’altra riva, coi piedi immersi fino alla noce nell’acqua che filtrava dentro da tutte le parti, ma senza esser costretti a gettarci a nuoto; inestimabile fortuna, di cui non eravamo sicuri partendo.
Il Governatore Sid Bekr-el-Abbassi che aveva risaputo le lodi fatte di lui al Sultano dal nostro Ambasciatore, fu con noi anche più amabile e più seducente della prima volta... Preso un po’ di riposo, ci rimettemmo in cammino verso Karia-el-Abbassi, dove arrivammo sul mezzogiorno, e fummo ricevuti e passammo le ore bruciate nella stessa stanzina bianca, in cui trentacinque giorni innanzi avevamo visto la bella figliuoletta del nostro ospite far capolino dietro il turbante paterno.
Qui Sid Bekr-el-Abbassi presentò all’Ambasciatore, fra gli altri personaggi, un moro sui cinquant’anni, di aspetto signorile e di modi simpatici, che nessuno di noi, credo, ha mai più dimenticato, non per sè, ma per le strane cose che ci raccontarono della sua famiglia. Era fratello d’un Sid-Bomedi, antico governatore della provincia di Ducalla, il quale languiva da otto anni nelle prigioni di Fez. Tiranno e scialacquatore sfrenato, dopo aver dissanguato il suo popolo, contratto imprestiti rovinosi coi negozianti europei, ammontato debiti su debiti, fatto ira di Dio in casa sua e fuori, era stato arrestato e condotto a Fez per ordine del Sultano, il quale credendolo possessore di tesori nascosti, aveva fatto spianare la sua casa, frugare fra i ruderi, scavare fra le fondamenta, e bandito dalla provincia, sotto pena di morte, tutta la sua famiglia, per timore che, conoscendo il nascondiglio, non s’impadronisse dei denari. Ma non essendosi trovato, forse perchè non c’era, il tesoro che si cercava, e persistendo il Sultano a credere che ci fosse, e che il prigioniero non lo volesse rivelare, questo non aveva più rivisto la luce del sole ed era forse condannato a morire in prigione. E il caso di Sid-Bomedi non è raro fra i governatori del Marocco, i quali, chi più chi meno, arricchendosi a spese del loro popolo, forniscono sempre al Governo che vuole impadronirsi dei loro averi, il vantaggio di poterlo fare sotto colore di punire un colpevole. Il Governatore o il Pascià a cui il Sultano ha posto gli occhi addosso, è chiamato, in forma amichevole, a Fez o a Marocco, oppure arrestato improvvisamente, di notte, da un drappello di soldati imperiali che lo conducono a marcie forzate alla capitale, legato supino sulla groppa d’una mula, colla testa spenzoloni e il viso rivolto al sole. Appena giunto, vien caricato di catene e gettato in una segreta. Se rivela dove ha nascosto il tesoro, è rimandato con tutti gli onori alla sua provincia, dove in poco tempo, facendo peggio di prima, può rifarsi di quello che gli è stato carpito. Se non rivela, è lasciato marcire nel suo sepolcro, e bastonato a sangue una volta al giorno, finchè, ridotto agli estremi, si decide a parlare per non morire fra le catene. Se non rivela che in parte, è bastonato ugualmente, fin che abbia fatto la rivelazione completa. Qualche governatore più accorto, subodorando per tempo la catastrofe, la scongiura, recandosi in persona alla Corte con una lunga carovana di cammelli e di mule cariche di doni preziosi; ma per far questi doni, dovendo spendere gran parte delle proprie ricchezze, ne segue che la sua salvezza non riesce meno funesta alla provincia governata da lui, di quello che riuscirebbe il suo ritorno dalla prigionia, quando fosse stato spogliato a forza dei suoi tesori. Qualcuno, anche, muore in carcere o sotto il bastone, ma non rivela, per lasciare il tesoro alla famiglia; che sa dov’è e lo scoverà a tempo opportuno; ed altri muoiono perchè non hanno nulla da rivelare. Ma son rari, perchè è uso comune nel Marocco di nascondere le ricchezze, e si sa che i mori sono meravigliosi maestri in quest’arte. Si parla di tesori murati sotto la soglia della porta di casa, nei pilastri dei cortili, negli scalini, nelle finestre; di case demolite dalle fondamenta, pietra per pietra, senza che vi si trovasse un tesoro che pure c’era; di schiavi uccisi e sepolti segretamente, dopo aver aiutato il padrone a nascondere; e il volgo mescola a queste verità dolorose ed orribili, le sue amene leggende di spiriti e di prodigi.
Il Governatore el-Abbassi ci accompagnò, verso sera, fino all’accampamento, ch’era a due ore di cammino dalla sua casa, in un prato pieno di fiori e di tartarughe, tra il fiume Dà, che si divide là presso in un gran numero di canali, e una bella collina coronata d’una tomba di santo dalla cupola verde. A un tiro di fucile dalle nostre tende v’era un gran duar circondato d’aloé e di fichi d’India. Al nostro passaggio, tutti gli abitanti saltaron fuori. Allora vedemmo quanto il governatore el-Abbassi era amato dal suo popolo. Vecchi cadenti, frotte di bimbi, uomini maturi, giovanetti, tutti correvano da lui a farsi mettere la mano sul capo, e se ne tornavano contenti, voltandosi indietro a guardarlo con un’espressione d’affetto e di gratitudine. La presenza però dell’amato Governatore non bastò a salvar noi dai soliti sguardi biechi e dai soliti improperi. Le donne, mezzo nascoste dietro alle siepi, spingevano con una mano uno dei loro figliuoletti a farsi benedire dal Governatore, coll’altra mano un altro figliuolo a dirci ch’eravamo dei cani. Vedemmo dei bimbi alti due palmi, tutti nudi, che appena si reggevano in piedi, venir verso di noi barcolloni, e mostrandoci il pugno grosso come una noce, gridare: — Maledetto il padre tuo! — E siccome avevano paura ad avanzarsi soli, si radunavano in sette o otto, e così stretti in un gruppo, che si sarebbe potuto portar tutto ritto sopra un vassoio, s’avanzavano con aria minacciosa fino a dieci passi dalle nostre mule a balbettare la loro insolenzina. Quanto ci divertimmo! Un gruppo, fra gli altri, s’avanzò contro il Biseo per augurargli che fosse arrostito non so quale suo parente. Il Biseo alzò la matita: i due primi, dando indietro atterriti, urtarono gli altri; e mezzo l’esercito andò in terra a gambe levate. Persino il Governatore diede in uno scoppio di risa.