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458 sul sebù


bel ragazzo; ed aveva infatti due begli occhioni pieni di pensiero e un visino pallido d’un ovale gentile; ma vedendolo a piedi, ci accorgemmo ch’era rachitico e gibboso. Da ciò nasceva forse la sua tristezza. In tutto il tempo che rimase con noi, non spuntò un sorriso sulla sua bocca, non si rasserenò un momento il suo volto. Ci fissò l’un dopo l’altro con uno sguardo profondo e non rispose alle domande dell’Ambasciatore che con parole tronche e sommesse. Una sola volta gli passò un barlume di allegrezza negli occhi; e fu quando l’Ambasciatore gli fece dire che aveva ammirato, nelle cariche della mattina, il suo modo ardito e grazioso di cavalcare; ma non fu che un barlume.

Benchè gli tenessimo tutti gli occhi addosso, e fosse quella probabilmente la prima volta ch’egli compariva, in carattere ufficiale, davanti a un Ambasciata europea, non mostrò ombra d’imbarazzo. Sorbì lentamente il suo tè, mangiò dei confetti, parlò nell’orecchio al suo ufficiale, s’aggiustò due o tre volte sul capo il suo turbantino, osservò attentamente tutti i nostri stivali, lasciò indovinare che si seccava; poi si strinse sul petto, accommiatandosi, la mano dell’Ambasciatore, e tornò verso il suo cavallo colla stessa gravità di Sultano con cui s’era avvicinato alla tenda.