Luna paese incomodo/Qui scrive il traduttore del manoscritto
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Qui scrive il traduttore del manoscritto.
I messaggi di Marcello e di Silvano
Arrivai, una triste sera di autunno, alla casa dell’astronomo, un po’ fuori del paese, sul margine dei campi che luccicavano sotto ampie coltri di nebbia. Bussai timidamente all’usciolino: mi venne ad aprire una donna di mezza età grande e legnosa, con due festoni di capelli grigi ai lati del viso arcigno...
— Il signor professore non c’è - disse subito. — È all’estero. Voi siete un suo amico? Se volete passare....
— Vorrei scambiare soltanto qualche parola con la signora Romilde.
— La signora non abita qui. Non si trova piú a Recanati.
— E i suoi figlioli?
La donna crollò la testa energicamente.
— No. Sono andati lontano.
— Molto lontano?
— Chissà? Credo che sieno andati in Abruzzo. Su, nelle montagne.... Ma passate, signore.... Gradirete qualche cosa....
— Vi prego.... Ditemi di quei ragazzi....
Ci fu un lungo silenzio, durante il quale gli occhi larghi e grigi della donna si fissarono spesso nei miei in una strana espressione di diffidenza e di mistero.
— Voi, certo — mormorai da ultimo, appoggiandomi allo stipite della porta, per far capire che non me ne sarei andato via tanto presto — voi non ignorerete quel che è successo.... Il viaggio del professore....
La bocca della mia interlocutrice si spalancò, si richiuse, si contorse.
— Ah! sapete anche voi?
— Sicuro che so.
— Povero padrone! era un uomo tanto buono, tanto serio, tanto bravo!... Ma, purtroppo, aveva perso il cervello a guardare il cielo tutte le notti attraverso quel suo maledetto canocchiale! Io glielo ripetevo sempre: «Signor padrone, pensate ad altro: ci son tante belle cose da fare nel mondo: c’è proprio bisogno di rovinarsi la vista con quelle brutte macchine puntate contro le stelle?». Lui, rideva, poveretto, e mi pregava. di lasciarlo in pace. Chi avrebbe pensato che un giorno.... Ci credete voi?
— A che cosa?
— Che il professore. sia andato.... lassu? — la voce della fedele Cecchina si era fatta fioca. — A me pare impossibile....
— Nulla è impossibile, oggi — sentenziai: ed aggiunsi: — Forse egli era certo del ritorno. Non avrebbe lasciato i suoi nipoti, se avesse avuto la certezza di abbandonarli per sempre.... Da un lato la passione per la scienza, dall’altro l’amore per quei figlioli, per la sorella....
— Oh! La signora Romilde voi non la conoscete. Quella è una donna che non si spaventa mai di nulla. Era lei che metteva coraggio ai suoi figliuoli. Quando apparivan tristi, e la interrogavano con gli occhi, lei aggrottava le ciglia e diceva: «Vostro zio sta benissimo. Tutto procede regolarmente. Tra poco avremo sue notizie....».
Troncai ad un tratto questi discorsi con una domanda:
— Insomma, sapete o no dove si trovino la signora Romilde e i suoi ragazzi?
— Veramente, mi raccomandò di non dirlo a nessuno....
— Io non sono nessuno: sono un cronista.
La donna finse di capire.
— Ah!... allora.... sicuro.... è un’altra cosa. Dunque, la signora Romilde è al Campo Imperatore; una casetta nel Vado di Siella. Però, io la corrispondenza gliela mando ad Aquila.
E la sera dopo, mi trovavo al Vado di Siella.
Era una notte abbagliante di luce. La Luna piena disegnava i rilievi e i contorni della montagna con larghe pennellate fosforescenti, facen doli apparire come un gigantesco ammassarsi di scogliere d’argento lanciate verso l’altissimo azzurro. Salivo faticosamente per un sentiero scavato nel sasso, reggendomi ad un grosso bastone, mentre la mia ombra nera e tozza mi ballonzolava tra i piedi in modo ridicolo. Dove bisogna arrivare? In vetta al Gran Sasso? Le mie virtú alpinistiche non sono mai state eccezionali; e, disgraziatamente, quella volta non mi ero neanche provveduto di scarponi chiodati, di corde, di ferri acconci per una scalata. Avevo preso quel duro cammino per puro spirito di avventura, convinto che, in qualche modo, sarei arrivato all’«osservatorio» della signora Romilde.
Ma probabilmente, se la casetta-rifugio dove quella cara creatura si era condannata a vivere fosse stata più lontana di un chilometro, avrei finito per rinunciare alla passeggiata e al piacevole incontro, e sarei tornato vilmente al Campo Imperatore. Per fortuna, quando proprio stavo per abbandonarmi allo scoraggiamento, vidi apparire le lunghissime antenne di una stazione radio, e, accovacciata sotto quelle antenne, una capanna di legno larga e bassa. Sentii lunghe risate infantili e la voce severa di una donna. Pochi momenti dopo mi trovavo dinanzi alla sorella dell’uomo lunare e ai suoi nipoti, Marcello e Silvano. Romilde era una donna ancor giovane, bruna, alta, piuttosto forte di membra, con il viso regolare, ma un po’ duro: una maschera di marmo illuminata da due larghe pupille celesti. Ai fianchi della donna stavano i due ragazzi, che fissavano in me la loro curiosità ansiosa. Si somigliavano in modo strano: avevano la stessa grazia di membra, la stessa espressione astuta, la stessa vivacità di occhi e di sorriso. La presentazione con quei tre interessanti personaggi fu facile e rapida. Entrammo subito in argomento.
Marcello mi domandò, frettoloso:
— Ci porti notizie dello zio?
— No! — e frattanto passai la mia mano carezzevole su quella testa ricciuta. — Non sono andato nella Luna, io....
— Dunque non l’hai veduto, lo zio — osservò con una sfumatura di rimprovero Silvano.
— No.... non l’ho veduto, disgraziatamente: Ma credevo che voi foste stati più fortunati di me.
— È tanto che si lavora intorno a questa macchina! — e Marcello indicò l’apparecchio radio. — Qualche volta si crede di essere riusciti a stabilire una comunicazione con lassú.... e invece....
Silvano interruppe:
— Intanto noi lavoriamo anche al modello di aeroplano stratosferico....
Mi condusse per mano ad un angolo. della capanna, dove riposava su appositi sostegni un bel velivolo, snello ed elegante, perfetto di linee e di particolari meccanici.
— Lo proveremo domani — spiegò il ragazzo. — Dovrebbe andare molto in alto. Nella riproduzione in grande, poi, s’intende, si potranno conseguire quote fortissime, dieci o quindicimila metri.
Quella fiducia e quell’entusiasmo mi còmmossero.
— Bravi figlioli!....
A questo punto intervenne la signora Romilde.
— Sí, sono intelligenti e buoni. Figuratevi che sperano sempre, un giorno o l’altro, di poter andare a portare_ aiuto al loro zio, nella Luna. Amano Nicola come un vero padre. Niente può scuotere la certezza che essi hanno di rivederlo, un giorno o l’altro. Sono miei figli. Anch’io penso che questo incubo finirà.
Adesso Romilde accennò un grande apparecchio radio, in un angolo della stanza. Era pallida, stanca, aveva gli occhi cerchiati per le lunghe veglie. Le sue parole non rivelavano alcuna incertezza.
— Bisogna bene che anche lui trovi il modo di comunicare con noi. E questione di tempo. Io non ho impazienze. Aspetto.
Volli conoscere la struttura interna di questa assoluta fiducia, che somiglia va tanto a una follìa tremenda.
Siete proprio certa che vostro fratello sia arrivato nella Luna? Non vi è mai venuto il dubbio che un grave incidente potesse· aver interrotto il suo viaggio nello spazio? Uno sbaglio di calcolo, per esempio.
Romilde si strinse nelle spalle.
— Ho riveduto io stessa i disegni e i calcoli di preparazione dell’impresa: non vi ho riscontrato il minirrio errore. Quel lavoro mirabile su cui dovevano modellarsi l’astronave e i profili della corsa di 400. mila chilometri poteva dirsi cosa perfetta. Ogni ostacolo era esaminato e ridotto a quantità trascurabile oppure superato con genialissimi ripieghi. Tutte le incognite erano state prevedute. I viaggiatori avrebbero potuto vivere nell’astronave sei mesi, se fosse stato loro impossibile di scendere sul suolo della Luna, a causa della mancanza d’aria. Il razzo doveva essere ampiamente fornito di combustibile anche per il ritorno. No no, vi assicuro, un giorno o l’altro, «ritorneranno». Da piú di cinque mesi sono là nelle solitudini lunari, e pensano a noi Nicola, certo, sta lavorando per mettersi in comunicazione con la Terra. Questa è la realtà, signore, e non si può pensare ad altro. Certo, se fosse possibile disporre una spedizione di soccorso, credo che quelli, «lassú», l’accoglierebbero con gioia. Ma il problema del combustibile è ancora un problema insoluto, eccetto che per il prof. Max, il quale avrebbe dovuto forse lasciare presso un istituto scientifico la sua formula.... Però, questo non modifica in nulla quello che deve succedere. I tre viaggiatori ritorneranno. Sani e salvi. E per affrettare l’ora desiderata di questo ritorno, io mi sono spinta fin quassu, a duemila metri, e vivo con i miei figliuoli, in questa capanna, accanto al mio apparecchio, cui sono riuscita a dare una insperata potenza di penetrazione negli spazi.
Mentre mi offriva un bicchierino di liquore, la sua mano candida e sottile non tremava.
— Non siete davvero una donna comune — osservai dopo un certo tempo, tanto per riallacciare la conversazione.
— Sono nata a Rosburgo, che è un paese di gente semplice e tenace Non mi è mai accaduto, nemmeno quando ero bambina, di dover rinunciare a un mio proposito, ardito o no, per l’insorgere di pericoli imprevisti o di difficoltà gravi. Io penso che mio fratello potrà esser trattenuto su la Luna un po’ più del tempo previsto... Certo, ci sono le incognite, in un viaggio tanto lungo. Ma proprio per questo, il giorno dopo la partenza di Nicola, pensai di procurarmi un apparecchio che mi permettesse di comunicare con lui. Disgraziatamente, l’apparecchio non era ancora stato costruito. Mi recai da tutti gli specialisti in macchine radio: molti mi presero per grulla, altri si divertirono a illudermi e a spillarmi denari. A poco a poco però io avevo acquistato una certa conoscenza della materia.... Sapevo ormai che riuscendo a produrre radio-onde di venti centimetri o meno sarebbe stato possibile lanciarle negli spazi interstellari, superando senza difficoltà i due strati ionizzati della alta atmosfera terrestre. Allora mi misi all’opera insieme con un intelligente meccanico e la fortuna seguí le nostre pazienti ricerche, tanto che dopo venti giorni di lavoro il nuovo apparecchio a onde cortissime «per comunicare con l’infinito» fu pronto. Bisognava metterlo nelle migliori condizioni di operare: ossia, portarlo molto in alto, in un’atmosfera tranquilla e rarefatta, che facilitasse il raffreddamento delle valvole e la trasmissione delle onde. Cosí fu fatto....
Guardai quella donna con affettuosa simpatia.
— Deve esser costato molto, un simile impianto! — Dicendo queste parole inutili, accennai vagamente all’esterno, dove le cime delle antenne si incoronavano di scintille.
— Sí, mi è costato molto.... Gran parte delle mie modeste sostanze.... Ma era necessario. Nicola è tutto quello che mi rimane della vecchia mia famiglia; Avrete facilmente intuito quale affetto gli pòrtino i miei figli. (I quali — avevo dimenticato di dirvelo — sono stati sempre i miei compagni fedeli, e i miei intelligenti e devoti collaboratori). Questi ragazzi, mi hanno aiutato a rimontare la radio: poi si sono dati alla costruzione del modello che avete visto. Insomma, ecco, in questa nostra vita di tristezza e di attesa, ci conforta un grande amore. Io penso che se Nicola potesse «sentirci», lassú, riprenderebbe la sua fiducia, e vedrebbe piú limpidamente la possibilità di riprendere il viaggio di ritorno. Con questa speranza, da tante sere, io e i miei figli lanciamo i nostri messaggi nell’etere: poche parole: «ci senti? Siamo i tuoi nipoti e tua sorella: Marcella, Silvano, Romilde!» Proprio: con questa speranza. Finora non ha risposto nulla. Ma risponderà!
Cercai di dire qualche cosa di spigliato, di consolante: ma non ero molto in vena, quella sera:
— Forse.... vostro fratello non ha ancora potuto trovare, sulla Luna, quel che è riuscito di trovare a voi, qui.... Un apparecchio a onde cortissime non è un apparecchio comune....
Romilde mi interruppe, pacata.
— Su l’astronave, i viaggiatori avevano portato una specialissima radio per comunicazioni intersiderali. Forse questa radio si è guastata.... ma potranno ripararla. Sí, certo. E io aspetto.
D’improvviso, l’apparecchio radio-ricevente crepitò. Subito la signora rispose, toccando alcuni tasti dell’apparecchiò trasmettitore.
Poi ci fu un silenzio. Ci guardammo negli occhi, ansiosamente. C’era, in quella piccola stanza sospesa su l’universo come un odor di prodigio. Tac.... tac.... trà.... trà.... la macchina riprese a crepitare.
— È lui — sussurrò Romilde. È Nicola!...Venite, bambini! Venite.... È lo zio!
Marcello e Silvano, pallidi, ansanti, accorsero e curvarono le loro testoline arruffate su l’apparecchio per ascoltare.
Una voce acuta, saltellante, riempí il silenzio della casetta: una voce che somigliava al rumore di un ingranaggio urtato con qualche piastra metallica. Poi ci sembrò di afferrare certi suoni articolati, come:
— Lu.... lu.... na.... io.... pre.... si.... rip....
— Piú forte, Nicolino! — trasmise Romilde terribilmente serena. — Io son qui.... Siamo qui! tutti e tre!
— Im.... pos.... si.... bi.... le..... — sillabò la macchina, con un ultimo sforzo.
E ancora, dilagò il silenzio.
Romilde si passò le mani su le tempie, in un gesto di malinconia.
— Non può tornare, per ora.... Poveretto!
Un’altra pausa: poi, con un divino accento di incrollabile certezza: Im.... pos.... si.... bile.
— Eppure, lo rivedremo, un giorno o l’altro!
Marcello e Silvano si strinsero alla madre per consolarla. E Marcello disse:
— Tra poco, quando saremo grandi, impareremo a volare!
— E andremo a cercare lo zio! — aggiunse Silvano.
— Nella Luna? — questa mia domanda scettica e inopportuna fece rialzare la testa a Marcello, che mi guardò severamente.
— Proprio, signore. Tra qualche anno, ci andremo tutti, nella Luna!