Lirica (Ariosto)/Appendice prima - Liriche dubbie/Stanze

Stanze

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VI

STANZE

Ardisce cantare le bellezze della sua donna che il cielo formò vincendo se stesso e la natura: tanto essa è superiore a ogni lode poetica e a ogni creatura umana.

1
     Donne gentil, ch’a maraviglia belle
prendete qualitá da la mia diva,
come fanno dal sol tutte le stelle,
ond’è l’alto splendor che quelle aviva,
Amor mi piove al cor dolci favelle,
sì che convien che di Madonna scriva;
datemi aiuto, voi ch’avete luce
da quel lume divin ch’oggi piú luce.
2
     Ben vorrei non pur, donne, il lume vostro,
ma di Febo anco i luminosi rai;
ché, s’io debbo ritrar cosí bel mostro,
che simil non fu visto in terra mai,
bisogna un ciel di lume, un mar d’inchiostro;
e per scriver il tutto a penna è assai;
ma, s’il tutto non dico, è mio l’errore
e non diffetto alcun del suo valore.

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3
     Con quai voci darò, con quai parole
degno principio a cosí degni onori?
Con che stil le sue lodi al mondo sole,
debb’io pinger in vari e bei colori?
Qual ingegno divin tanto si còle,
ch’a par de’ merti suoi giá mai l’onori?
Quali essempi darò che non sian scarsi?
O qual beltade a lei deve agguagliarsi?
4
     Poter non poss’io quel che non può farsi;
ma tutto quel ch’io posso, io di lei sono.
Chi dá tutto ciò c’ha, non de’ chiamarsi
brieve, né scarco, abenché picciol dono;
ciò che si fa per ben, non de’ pigliarsi
in mala parte, anzi trovar perdono.
Questo argomento ardir, donne, mi porge
dir del mio Sol quel che per me si scorge.
5
     Benigno ciel, che d’ogni grazia adempí
il secol nostro bello, or senza pare,
mostrando tutto il bel ch’in tutti tempi,
fra quante belle son, si può mostrare,
per dar al mondo inusitati essempi
de le tue forze e maraviglie rare,
cred’io che nel compor simil fattura,
e te stesso vincesti, e la natura.
6
     Vinta fu la natura, e vinti ancora
i pianeti, le stelle e tutti i lumi,
quando nacque costei, ch’a tutti allora
tolse il piú bel de soi benigni numi;
ridea la vaga terra, e la fresc’ora
dolcemente spirava intorno a i fiumi;
Primavera gentil pigneva il mondo;
ogni loco, ogni prato era giocondo.

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7
     L’aer, tutto converso in fiamme d’oro,
mostrava un non so che, piú che sereno;
le ninfe leggiadrette a coro a coro
se n’andavano a spasso in loco ameno;
qual si stendea ne’ prati e qual di loro
coglieva i fiori, e se n’empiva il seno;
qual tessendo co i fior l’erbe e le fronde
facea ghirlanda alle sue chiome bionde.
8
     L’aria, la terra e ’l mar di canti e feste
vedeasi empier d’amorosetti uccelli;
e i muti pesci con le fere preste
e guizzar e saltar con atti snelli.
Tutto quel che si vede, era celeste:
l’erbe, le fronde, i fior e gli arbuscelli
movean sì dolce e con sì vago errore
che parevano dir: — Qui regna Amore,—
9
     E ben regnava Amor, ch’or de’ bei crini
di Madonna, ch’al sol rendono scorno,
i lacci tesse e par ch’i strali affini
ne begl’occhi che fan mai sempre giorno:
Amor, che si triunfa in que’ divini
sembianti, che fan vago il ciel intorno,
col bel seren de la sua fronte lieta,
specchio de l’amoroso almo pianeta.
10
     Quante mai belle fûr, quante saranno,
o sono fra l’antiche e le moderne;
quante son fra le nostre o quante vanno,
prime d’ogni valor, barbare esterne;
quante ne le memorie oggidí stanno,
lodate e vive, anzi per fama eterne,
tutte son nulla al paragon di quella,
ch’ogn’altra in terra fa parer men bella.

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11
     Tutta quella beltá ch’il ciel comparte
al mondo in mille lustri, ella possede.
Degno non è di celebrarla in carte,
chi non ha del divin ch’in lei si vede,
o almen qualche sembianza in qualche parte,
sovra l’uso mortal alzando il piede;
perciò ch’ogni beltade a lei somiglia;
né bello è quel che forma indi non piglia.
12
     Da lei piglia la forma ogni beltade;
da lei tutte le grazie hanno il valore;
da lei quante oggi son cose pregiate,
prendon le forze e ’l natural vigore;
né puonno esser giá mai degne e lodate,
se per mezzo non vien del suo favore,
ond’è il mio dir ingiurioso a lei,
ché, non sendo immortal, tacer dovrei.
13
     Tacer debbo e vorrei; ma pur mi sento
inebriato d’una tal dolcezza
che, mentre di lei penso, il cor contento,
anzi beato, sale a tanta altezza,
ch’a mal mio grado canto, e non pavento,
mortal, a dir d’un’immortal bellezza;
anzi con l’ale de’ pensieri al cielo
mi porta il mio desir, la gioia e ’l zelo.
14
     Ben temo ch’io farò come chi suole
alla vista del sol perder il lume;
e che mi debbia alfin questo mio Sole,
come d’Icaro avenne, arder le piume;
ma non posso non far quel ch’Amor vuole;
altrimente convien ch’io mi consume,
anzi ch’io mora; e se morir si deve,
morte, di lei parlando, è dolce e lieve.

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15
     Dolce e lieve mi fia l’uscir di vita,
per gir portando al ciel il suo bel nome;
cosí s’essalterá quella infinita
beltá ch’or vorrei, ma non so come;
cosí la lode fia degna e gradita
del bel viso, de li occhi e de le chiome;
fra tanto, s’il mio dir sará imperfetto,
merta la sua pietá questo difetto.
16
     Chi vuol veder quantunque puonno i cieli,
con li elementi e la natura e l’arte;
chi vuol veder quanto di bel si celi
raccolto in un fra le bellezze sparte;
chi vuol veder come s’adombra e veli
ogni luce, e ogni bel vada in disparte;
venga a mirar costei, che sola altrove
par al suo valor par che non trove.
17
     Non si può, donne care, il piú mostrarvi
de le sue lode, a cui nulla s’agguaglia;
tutto quel che di lei sappia contarvi,
e ciò c’ha di mortal, è il men che vaglia;
che, s’il piú, ch’è divin, ho da narrarvi,
uopo sará che troppo in alto saglia;
perché la parte ch’al divin ascende
tanto si vede men quanto piú splende.
18
     Deh, perché a dir di lei mi spigni, Amore,
se col mio dir l’offendo e s’io vaneggio?
s’io pur non so mostrar, né posso, fuore,
quello che dentro col pensier io veggio?
se non si può veder questo mio core,
ove tu la sculpisti, ov’ella ha ’l seggio?
Salvo se forsi a dimostrar mi vale
ch’a sue bellezze è la mia fede uguale.

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19
     Questo è ben, donne, essempio ugual e degno
di sua beltade, e del mio amor certezza;
questo va ben de le sue lode al segno,
or su per dignitá, ma per grandezza;
questo è quel caro e precioso pegno,
che da l’almo Fattor via più s’apprezza;
questo è quel che mi fa lieto e felice,
e che m’inalza quanto alzarsi lice.
20
     Questo è quel che mi fa dolce l’ardore,
e immortal il desir che si morria,
questo è quel che fa lieve ogni dolore,
e trovar pace ne la donna mia;
né a tanta fede una beltá minore,
o a tal beltá men fé si convenia,
perché l’una e l’altra è tanta e tale
che non si de’ scemar cosa mortale.
21
     Ché si portano i cieli al mio bel foco
la piú bella cagion che mai sia vista,
il mio fido servir s’inalza al loco
dove attinger non può l’umana vista;
se alli suoi merti ogni gran merto è poco,
l’alta mia fé non minor merto acquista;
e se beltá non è piú bella e cara,
cosí fede non è piú fida e rara.
22
     Amor, che si triunfa a tanta forza,
tanto vigor de la mia donna piglia,
che dolcemente lega ogn’alma a forza,
che d’amar altamente si consiglia;
Amor, ch’anzi non pur gli uomini sforza,
ed empie di dolcezza e maraviglia,
ma può tirar i dèi del Paradiso
con la vaga beltá del suo bel viso.

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23
     Alla vaghezza, alla beltá di quello
non si può ritrovar degna sembianza;
quando piú vaga di color novello
orna Flora la terra e di speranza;
quando mostra l’Aurora il suo piú bello,
o Febo che di lume ogn’altro avanza;
sono al celeste viso essempio vile,
sol a se stesso e a null’altro simile.
24
     La bianca gola e ’l suo bel collo ornato
vincono di bianchezza il bianco giglio.
Le guance ha ponto Amor, ha colorato
d’un non so che piú bel ch’ogni vermiglio.
Vaga è la bocca; il naso è ben formato;
il mento ben composto; e nero il ciglio:
i bei denti e le labbia hanno a vederle
queste di rubin forma, e quei di perle.
25
     Fra i dolci pomi de l’eburneo petto
si trastulla Cupido, ed arde i cori;
ivi scherzando siede, ed ha diletto
star con le Grazie e i pargoletti Amori.
Formano in somma un corpo il piú perfetto
di tutte le sue membra i bei lavori,
che si possa pensar di donna alcuna,
o si vedesse mai sotto la luna.
26
     Le grazie, l’accoglienze, i risi, e quanti
modi son di vaghezza e leggiadria,
il suave parlar, gli alti sembianti,
la beltade, il valor, la cortesia,
il senno e li costumi onesti e santi,
e tutto quel che di lodato sia,
con quanto di valor proveno i dèi,
s’accoglie, e fa sol una lode in lei.

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27
     Sol una lode in lei si può chiamare
quanto altrove è giá mai sparso di bene.
Ella è sola Fenice, e sola pare
di questo secol nostro unica spene.
Ella sola tra noi si vede alzare,
ove non puonno andar cose terrene.
Ella quanto può dar benigna sorte,
sola nel mondo ha da le stelle in sorte.
28
     Beltá dunque divina e senza pare
del mio bel Sol, che sovra ogn’altra monti,
allora io cesserò di non te amare,
quando al contrario correranno i fonti;
ma fin che l’acque avranno il corso al mare,
o fin che staran saldi i scogli e i monti,
fará la molta fede in che mi fermo,
ch’io starò nel desir sempre piú fermo.
29
     Quanto devete voi, ricche ed adorne,
aventurose, liete, alme contrade,
dove tanto di ben par che soggiorne,
quanto non vide mai la prisca etade;
quanto devete al ciel, che par che v’orne
con la maggior de le sue grazie rade;
quanto devete alla mia dolce fiamma,
che di chiara vertú tutte v’infiamma!
30
     Ma che dich’io? Non pur in fiamma dove
alberga il mio bel Sol, l’alma mia dea;
anzi dovunque i cari passi move,
de’ mill’alti desir vaghezza crea;
e dal parlare e da begli occhi piove
vertú che col mirar gli uomini bea.
Beato chi l’ascolta, e chi la mira;
e piú beato chi per lei sospira.