Lezioni sulla Divina Commedia/Appendice/VI. Esposizione critica della Divina Commedia/Il subbietto della Divina Commedia
Questo testo è completo. |
◄ | Appendice - VI. Esposizione critica della Divina Commedia | VI. Esposizione critica della Divina Commedia - L'Inferno. | ► |
Il subbietto della Divina Commedia.
Il subbietto della Divina Commedia è la storia finale della umanitá; è, per parlare poeticamente, lo scioglimento e la catastrofe, il quinto atto del dramma umano, nel quale ricompariscono ancora gli atti antecedenti, ma in lontananza, fuori della scena, come un passato che si offre alla memoria, trasfigurato e colorato dalle impressioni presenti. La porta del futuro è chiusa: l’azione è cessata; ogni vincolo umano e civile, che collega gli uomini sulla terra, è sciolto; collisioni, intrighi, tutto ciò che è materia concreta di poesia non ha piú scopo; al vivo movimento della umana libertá è succeduta l’immutabile necessitá. Ma mentre una parte degli attori ha abbandonata la scena di questa vita, altri vi sottentrano con le stesse ire e con gli stessi amori; ed il poeta spettatore è come un ponte gittato tra il presente e l’avvenire. E porta seco tutte le sue passioni di uomo e di cittadino, e fa risonare di terreni gemiti fino le serene volte del cielo: cosí ritorna il dramma, e nell’eterno ricomparisce il tempo. In mezzo all’immobilitá dell’avvenire vive e si agita l’Italia, anzi l’Europa del decimoquarto secolo, col suo Papa ed Imperatore, coi suoi re, principi e popoli, coi suoi costumi, le sue passioni, le sue discordie, con tutto quello che è in lei di alto o vile, di tragico o comico. È il dramma di quel secolo, scritto da un poeta che è egli stesso uno degli attori, con la veemenza della passione e con la dignitá della convinzione: talché spesso ci sentiamo rapire dal luogo ov’è collocata l’azione e ci troviamo nel bel mezzo d’Italia tra le tempeste ed il fremito della pubblica vita. Il che ha indotto alcuni a rimpicciolire le proporzioni della Commedia e rinchiuderla nell’angustia e nella prosa di uno scopo politico, quasi tanto alta invenzione non sia altro che un mezzo meschino ed un’arma codarda, di cui siasi valuto il poeta a conculcare i suoi avversari.
L’elemento politico non è giá il sostanziale, ma solo un momento dell’universo dantesco, porgendo il lavoro per la sua forma liberissima facile occasione all’autore di manifestare le sue idee e le sue predilezioni: di che egli ha usato ed abusato largamente. Certo i suoi giudizi, né le sue opinioni sono sempre giuste: ché egli pure avea in sé di quel di Adamo, e pensò e senti secondo i suoi tempi. Ma che fa?
La Commedia non è scienza, né storia, ma poesia. Sotto questo rispetto ben ci ha allusioni personali e poco felici allegorie, che dovettero aver molto favore a quei giorni e che sono la parte accidentale e transitiva del suo poema. Ma piú spesso egli guarda la vita da quell’altezza, alla quale ha innalzato il subbietto, e, spettatore dell’avvenire, tuona e folgora con la dignitá di sacerdote e di profeta; anzi di poeta. Altro è il concetto che Dante ha dell’officio della poesia, del quale sente l’orgoglio ed accetta il pericolo: ond’è che sovente l’indignazione dell’uomo offeso s’innalza in lui alla solenne autoritá del giudice, e la transitoria realtá all’immortalitá dell’ideale.
Il perché, quantunque quelle passioni e quelle opinioni abbiano oggi perduto il loro significato particolare e relativo, non pertanto è rimasto vivo il sostanziale di quegli accidenti: di che possiamo allegare ad esempio la digressione sulle condizioni d’Italia ai suoi tempi e le sue gravi parole a Niccolò III. D’altra parte la passione ond’è infiammato dá alla poesia la propria impronta dell’uomo e del tempo, senza la quale ella non ha la sua incarnazione perfetta.
Scontento di tutto e di tutti, segregatosi dalle parti e bollente di collera per nuove ingiurie e per fallite speranze, egli è in acerba opposizione col suo tempo, ed il foco dell’ira rende terribilmente ingegnosa la sua fantasia.
Dante è la sintesi vivente de’ tre mondi, i quali hanno in lui come in uno specchio la loro riflessione ed unitá. Egli non è solo spettatore, ma attore: smarrito nella selva dei vizi e degli errori, contempla lo spettacolo della caduta dell’uomo dopo la colpa d’origine; indi, passando nel luogo del pentimento, i peccati mortali incisi sulla sua fronte dalla spada della divina giustizia sono cancellati ad uno ad uno, e, rinvigorito dalla divina grazia, ei lava col pianto i suoi falli, e, pentito e confesso, giunge di grado in grado alla sua compiuta redenzione. Innalzando l’individualitá a significazione generale, vediamo in Dante espressa la stessa vita umana nella sua esplicazione terrestre, cioè nel suo triplice stadio di corruzione, d’espiazione e di redenzione: cosí nel poema dall’estremo grado dell’errore, del male e del brutto, cioè dall’ultima bolgia infernale, si passa nello stato di lotta tra’ contrari, il quale dualismo s’innalza a poco a poco alla sua idealitá assoluta, a veritá, a virtú, a bellezza. Il che non rimane giá una fredda astrazione, ma diviene persona viva nelle figure tanto poetiche di Dante, di Virgilio, di Beatrice, di Matilde, della Vergine. Onde potrebbe parere a prima giunta che Dante sia il protagonista del poema, e che l’azione sia il viaggio ch’ei fa per la sua redenzione; ma qui appunto è la differenza tra la Divina Commedia e il Faust, fondati generalmente sullo stesso concetto. Dante e Faust contemplano entrambi le diverse forme della vita, e pervengono alla loro perfetta liberazione; se non che nel Faust accanto all’obbiettivo individuato con sí ricca personalitá l’elemento subbiettivo è svolto con quelle larghe proporzioni, che consentiva all’autore del Werther la progredita civiltá; sicché per la piena esplicazione della sua intrinseca vita Faust è il vero protagonista dell’azione. Ma questa poesia intima, come oggi la dicono, quest’analisi profonda delle contraddizioni e de’ tumulti del cuore umano non è accomodata né al genio dantesco, né all’indole della poesia primitiva. Nella Divina Commedia Dante sparisce innanzi alla grandezza della visione, sulla quale si rivolge principalmente l’attenzione del lettore; né egli esprime altrimenti quello che avviene nel suo animo che simbolicamente ed obbiettivamente, come nella selva, nei peccati mortali scolpiti sulla sua fronte, nel riso di Beatrice, ecc. Quindi è che il lavoro moderno ha il titolo personale di Faust, laddove l’altro ha il titolo generale di Divina Commedia e la forma narrativa.
Oltre l’allegoria generale, ciascuna invenzione particolare ha il suo senso riposto: e presso di noi, durato il vezzo delle allegorie sin quasi al termine del secolo decimosesto, non è maraviglia che i cementatori si sieno principalmente studiati d’investigare e dichiarare questa parte della Divina Commedia. A’ nostri giorni il simbolo è ritornato in onore; le forme hanno perduto il loro ingenuo valore e lo scettico poeta lo trasmuta e combina a suo grado, come caratteri e segni del suo pensiero. La critica aveva giá prima preso questo stesso indirizzo e, guidata da un idealismo dissolvente ed impersonale, traducendo in miti e tipi i principali personaggi storici e poetici, essa ha trasmodato per modo che nei pedanti di questo sistema la poesia è ridotta poco meno che a nudo pensiero.
Non è quindi a maravigliare che alcuni critici valorosi abbiano riposta l’essenza della poesia dantesca nel suo significato allegorico, come vediamo aver fatto Schlosser e Rosenkranz. Certo l’allegoria dantesca è parte viva del concetto, non un significato postremo e soprapposto, come nel Boiardo e nel Tasso; ma il viaggio allegorico non è altro che un mezzo, di cui si è giovato il poeta a rendere intelligibile la sua visione, la quale ha il suo valore in sé e per sé. I tre mondi corrispondono per la loro natura alla vita terrena nelle sue varie gradazioni: ma il poeta non li prende punto in un senso simbolico, considerandoli con piena fede quali sono in sé stessi, nel loro valore proprio ed immediato. E quanto alle allegorie particolari, essendo il pensiero non di rado un accessorio, di cui non si scorge nell’immagine alcuna orma distintiva, rimasto nella mente del poeta, è impresa quasi disperata a volere indagare i suoi fini segreti e le allusioni storiche, politiche, morali non penetrate nell’essenza della poesia. E poniamo pure che i critici si accordino in questo; certo ne sarebbe aiutata l’interpretazione del poema, ma ben poco aggiunto al valore intrinseco della poesia, che ha in sé medesima il principio della sua esplicazione.
Quanto alla forma, la Divina Commedia è una visione narrata, nella quale tutto è rappresentato in singoli quadri, ciascuno compiuto per sé, senza un’azione che si snodi di mezzo al contrasto delle passioni: il qual difetto inerente alla natura dell’argomento toglie molta parte di quella sospensione e diletto che rende tanto popolari l’Iliade, l’Orlando e la Gerusalemme. Ciascuno de’ tre mondi ha i suoi compartimenti, ordinati secondo divisioni scientifiche e morali: ed ogni specie è una compiuta totalitá che comprende in s^ la forma generale: sono diverse pitture di una stessa storia. Il poeta apre, d’ordinario, la scena con la descrizione del luogo; indi gitta un rapido sguardo sui gruppi, distinti di abitudine e di espressione: di mezzo a’ gruppi si erge il personaggio principale, l’individualitá, con la sua forma propria e spiccata: qui comincia il dialogo, ed alla evidenza del pennello succede l’eloquenza della parola. L’unitá di questa vasta comprensione non è né in un’azione particolare, né in un protagonista: l’unitá è la stessa comprensione, vivente indivisibile unitá organica, i cui momenti si succedono e si riflettono nello spirito del poeta, non ordinati pedantescamente, come morto aggregato di parti separabili, ma penetranti gli uni negli altri, mescolantisi, immedesimantisi, com’è la vita nella sua veritá.
Si è disputato a qual genere di poesia appartenga la Divina Commedia. Il poeta ha trovato egli stesso il nome del suo lavoro, chiamandolo il poema sacro. Esso è l’epopea divina, la storia di Dio nella sua ultima ideale espressione; o piuttosto esso non é propriamente il genere, ma il Tutto, contenente in sé il germe di ogni varia esplicazione dell’arte moderna. Di mezzo al narrativo e al descrittivo spunta il dramma in tutte le sue gradazioni, la lirica in tutte le sue forme. Non è la Divina Commedia questa o quella poesia, ma la Poesia, la quale dal sublime negativo esce fuori sotto la forma dell’umana bellezza, luce riflessa, immagine ancora velata, ma trasparente, infino a che, fattosi il velo piú e piú sottile, essa brilla in tutta la sua purezza ideale, nel regno stesso della luce.