Lezioni accademiche/Lezione undecima
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Lezione undecima
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DELL’ARCHITETTURA
MILITARE.
LEZIONE UNDECIMA.
Adducono ancora questi lodatori dell’antichità, i maravigliosi accrescimenti della Repubblica Romana. Stupiscono, che una potenza novella di pochi Pastori, congregati da Romulo, nata colà fra l’angustie de’ Popoli Latini, Albani, e Sabini, potesse in quei tempi antichi, avanzarsi appoco appoco tanto, che della terra debellata tutto quello possedeva, che era conosciuto. Ecco, che appena nata la nuova Città, comincia a guerreggiare co’ Sabini, co’ Fidenati, e co’ Veienti; soggiogati questi, si vincono gli Albani, e si spianta loro da’ fondamenti in un ora, quella Città, che aveva regnato quattrocento anni; debellano dopo questi, i Latini, i Volsci, i Gabii, e le altre Nazioni confinanti. Ecco poi, che da’ Popoli, vengono alle Provincie, l’Umbria, il Piceno, l’Etruria, la Calabria, la Puglia. Seguitano le vittorie, ed aggiungono alle Provincie, i Regni. Ecco debellata la Sicilia, e la Sardigna; estirpano la potenza, e la Città di Cartagine; si vince l’Imperio della Macedonia, e tutti i Regni della Grecia; si conquistano il Piemonte, la Francia, e la Spagna; cadono in poter de’ Romani, la Siria, I’Egitto, e gli altri Regni dell’Asia, e dell’Affrica; in ultimo la remota Inghilterra, e la marzial Germania, dopo guerre innumerabili, restan vinte ancor esse, e finiscono d’agguagliare l’Imperio di Roma, all’estensione dell’Universo. Uno, che legga sulle storie dell’antichità, questi progressi maravigliosi, e poi consideri, quanto ne’ nostri tempi si pena, per pigliare una Città, è scusabile, ma però in errore, se gli cade nel pensiero, che la fortezza, ed il valore ne i giorni nostri, sieno diminuiti, ovvero estinti. Chi di voi Uditori, non vede, che se oggidì si è fatto difficile il far progressi nelle guerre, e conquistarsi degli Stati nuovi, ciò non nasce da mancanza di valore, ma piuttosto da accrescimento di fortezza, d’industria, e di scienza nell’arte del guerreggiare? Nella guerra si considerano due parti, una, che assale, l’altra, che si difende. Quanto agli assalitori, io so certo, che ne’ nostri tempi si assaltano le Città, con accorrezza maggiore, e con invenzioni più terribili, e con armi più spaventose, che non si faceva, o dal Magno Alessandro, o da’ vittoriosi Romani. Dunque, se i progressi nelle guerre vanno lenti, ciò non procede da altro, che dal valore accresciuto di quelli, che si difendono, e dalla scienza del fortificarsi, se non di nuovo inventata, almeno ne’ nostri tempi eccessivamente perfezionata. Però la tardanza degli acquisti, si ascriva, non a viltà d’animo, o a mancamento di valore, ma piuttosto a gloria di fortezza, e a lode del nostro secolo industroso. Noi viviamo in età, la quale con invenzioni mirabili, e non conosciute dagli antichi, ha saputo trovare il modo del difendersi, e fortificarsi, contro quelle offese, le quali col solo rimbombo potrebbero esser atte a spaventare gli Alessandri intrepidi, e i magnanimi Romani. Ora se oggidì tanti Regni, che sono sparsi, per la terra, godono la libertà; se popoli innumerabili vivono con sicurezza; che nessuna potenza nuova, potrà mai più sorgere al Mondo, e dilatarsi tanto, che soggioghi ogni cosa, e sottometta tutte le Nazioni alla sua servitù; da chi si dovrà riconoscere un benefizio tanto singolare? Certo non da altri, che dall’Arte, veramente regia della fortificazione. Questa difendendo le Provincie dall’incursioni straniere, e assicurando la libertà a’ popoli nazionali, tronca tutte le speranze ad ogni potenza novella, la quale ad imitazione d’Alessandro, o di Roma, confidasse d’impadronirsi un altra volta del Mondo, e di ridurre tutti gl’Imperi, sotto la servitù d’una sola Monarchia.
Ecco non solamente proposta, ma provata ancora in gran parte, la proposizione di questo discorso, col quale null’altro io pretendo, fuorche dimostrarvi l’utilità della fortificazione. Consideriamo ora, con quali arti la Repubblica Romana si avanzasse tanto, che arrivasse a impadronirsi del Mondo tutto. Certo l’unico artifizio, con cui quel Popolo operava tanti stupori di continuate vittorie, altro non era, che una pratica grande dell’esercizio della guerra e una grandissima esperienza nell’arte del fortificarsi. Però ogni volta, che i Romani, si trovarono a combatter con popoli, che sapessero fortificarsi, quasi al par di loro, incontrarono delle difficoltà immense nel superarli. Ma quando gl’Imperatori dell’esercito Romano o non seppero, o disprezzarono l’arte del fortificarsi, mostrarono, che Roma sapeva ancora perdere, con istragi tanto deplorabili, che fino al giorno d’oggi, l’Italia, e l’Europa tutta, ne partecipa l’ignominia. Annibale Capitano Cartaginese (nome sempre funesto, e sempre memorabile alla nostra Italia) passato il mare, si trasferì dall’Affrica, nella Spagna. Parte dalla Spagna, scorre per la Francia, passa l’Alpi, e discende nella Lombardia, con un esercito di dieci mila fanti Affricani, otto mila Spagnuoli, e sei mila Cavalli. Così per l’appunto lasciò intagliato egli medesimo in quella colonna, da lui innalzata, dopo passate le Alpi. Viene in Toscana, e scorrendo per tutto ruba, saccheggia, e abbrucia quanto trova. I Romani vedendosi questo flagello così vicino, per discacciarlo, gli mandano incontro Flamminio lor Consolo di quell’anno. Questi si trasferisce ad Arezzo, con esercito di trenta mila combattenti, il fiore della soldatesca, e della gioventù Romana, siccome è credibile in un caso di così grande importanza. Annibale desideroso di combattere, sentito l’arrivo del nemico, per istimolarlo alla battaglia, fa più strage, che mai, de’ paesi della Toscana, che allora era Provincia amica, e collegata con Roma. Se ne passa costui da Fiesole, verso le Chiane, e quivi mal pratico delle strade, trovandosi per le piogge lunghe, allagato tutto quel paese, ebbe a disperdere affatto l’esercito fra quelle paludi fangose. Si trovarono quattro giorni, e tre notti continuamente nell’acqua, senza mai vedere un palmo di terra asciutta, dove poter riposarsi. Esso montato sopra un Elefante, che solo gli era rimaso, faticò tanto, che finalmente cavò l’esercito fuori delle lagune. Quindi passato più oltre, acquartierò le sue genti indebolite sopra alcuni colli in riva del lago di Perugia, e con ottime fortificazioni, si trincierò, aspettando l’arrivo de’ Romani. Flamminio il Consolo di Roma, con un esercito maggiore di numero, ed ancora meno affaticato dal travaglio, comparisce sul lago al tramontar del Sole. Non si cura di trincierarsi, o di fortificare gli alloggiamenti, ma desideroso di perseguitare, e combattere il Cartaginese, si riposa la notte, senza affaticar i soldati. Appena spuntava l’alba, quando il Consolo spinge avanti l’esercito, in campo aperto senz’alcun ajuto di fortificazione, o vantaggio di sito. I Cartaginesi veduta questa temeraria confidenza de’ Romani nelle proprie forze, con disprezzo degli ajuti della fortificazione, si precipitan con furia, giù da’ colli circonvicini, e circondano l’esercito Romano da tutte le parti. Raccontano le storie, che in tre ore di combattimento, vi si perderono venticinque mila Romani, cioè quindici tagliati a pezzi, e altri dieci mila fra prigioni, e affogati nel lago, e feriti che morirono poco dopo. Il Consolo Flamminio, che anch’esso vi morì con gran numero di nobiltà Romana, conobbe che le vittorie di Roma, non nascevano semplicemente dalla forza, o dal valore, che fosse nel petto della lor soldatesca, ma ancora, e principalmente, dalla perizia, e diligenza nel fortificarsi, come per appunto avevano fatto sempre per avanti, e costumarono ancora dopo i Capitani più gloriosi di quel Popolo. Serva dunque la raccontata istoria per dimostrarvi, che ancora gli eserciti Romani, senza l’ajuto della fortificazione eran soggetti alla strage. Che gli giovò l’esser copiosi di gente, ovvero il ritrovarsi più freschi, e più riposati del Cartigenese? Ad ogni modo non solamente furono rotti, ma ancora affatto esterminati, e sconfitti. Apparirà molto più manifestamente l’utilità della fortificazione, se noi consideriamo lo stile tenuto poi da Q. Fabio Dittatore, contro l’istesso Annibale. Se ne passa l’esercito de’ Cartaginesi vittorioso, dopo la rotta narrata, e s’accampa sotto Spoleto. Quella città era ben fortificata, e provveduta, ond’egli con perdita di molti de’ suoi, e con vergogna propria fu ributtato, e si partì. S’incammina per la Marca, e va finalmente a discendere nel territorio d’Arpino. Q. Fabio Dittatore, con quel poco avanzo di soldatesca spaventata, che s’era potuta adunare in Roma, allora estenuatissima di forze, va ad opporsi al Cartaginese vittorioso, e potentissimo. Ciascuno di voi Uditori s’immaginerà, che se Flamminio Consolo fu disfatto, benchè avesse un esercito numeroso, e fiorito di soldatesca scelta, Q. Fabio ancora con un rifiuto di pochi soldatucci avviliti dallo spavento della fresca sciagura, andasse propriamente al macello, e al supplizio, piuttosto, che alla guerra. Così penso ancor io, che fosse succeduto, quand’egli avesse tenuto il medesimo stile del Consolo Flamminio, col mettersi avanti, senza l’ajuto, pur troppo necessario della fortificazione, e del sito. Ecco Q. Fabio, comparisce alla vista de’ Cartaginesi, sotto la Città d’Arpino. Egli non corre con temerità ad affrontar l’inimico, ma piantata l’insegna, ed ordinati i guastatori, comincia a disegnar sul terreno, e poi comanda. Su presto non si perda tempo; qui voglio, che si cavin le trinciere; qui staranno ben piantati i quartieri; queste sieno le circonvallazioni degli alloggiamenti; colà staranno i cavalli; qui voglio i pedoni; in quell’ultimo si custodisca il bagaglio; voi sarete di guardia in quel posto, e voi in quell’altro: in questo modo dispone per tutto le sentinelle, e i corpi di guardia, e in somma si fortifica, come se fusse stato in una sicurissima Città. Annibale conoscendo di non poter vincere costoro, ne meno poter accostarsi a Roma, va raggirandosi pel paese, e mutando più d’un posto. Q. Fabio in giusta distanza lo va seguitando, ed ogni volta se gli trincera avanti agli occhi, togliendogli totalmente la speranza, e del combattere, e dell’approssimarsi alla Città. Si parte Annibale qualche volta maliziosamente dagli alloggiamenti propri, e raggirando intorno intorno a qualche colle, o a qualche selva, torna poi correndo colà donde si era partito, sperando di cavar fuori Q. Fabio dalle fortificazioni; ma tutto indarno. Se ne passa Annibale a Samnio, e poi a Benevento, quindi a Telesia. Q. Fabio sulla cima de’ colli, gli cammina al pari, e subito, che porta l’occasione il fermarsi, benche per pochissimo tempo, si fortifica al solito negli alloggiamenti. Annibale discende sul Volturno, ecco a fronte di lui Q. Fabio si trinciera sul monte Massico: il medesimo avviene sul monte Callicola, e poi nel Castel Casilino. Annibale si volta verso la via Appia, che conduce a Roma; Q. Fabio sulla medesima strada si fortifica, pigliando un posto sovra un colle assai erto, e scosceso. Annibale, per farlo diloggiare trova quel suo famoso strattagemma, che oramai da ciascuno si sa; lega sulle corna a due mila tori gran fasci di sermenti, e fascine; e poi dandogli fuoco sul mezzo della notte, indirizza verso il posto de’ Romani quelle bestie infuriate, con un incendio per ciascuna sul capo. Conobbe Q. Fabio, che quelli non eran soldati, che avessero occupato il monte, ma una invenzion militare, per farlo uscir da’ quartieri, e poi disfarlo: però stette saldo ne posti fortificati, e sicuri. Annibale s’incammina verso il campo Alisano; ecco Q. Fabio sopra il monte Alisano si fortifica. Annibale disperato si parte alla volta di Sulmona, e Q. Fabio sempre nell’istesso modo lo perseguita. Accade, che in questo tempo Q. Fabio fu richiamato a Roma, e in suo luogo furono mandati a comandar l’esercito ambidue i Consoli Romani di quell’anno. Annibale intesa la nuova di questa mutazione, giubbilava d’allegrezza, pensando che i Consoli non fussero per seguitar lo stile di Q. Fabio; ma s’ingannò. Per tutto dovunque egli andava, i Consoli ammaestrati gli si fortificavano a fronte, coll’arte tanto salutare imparata da Q. Fabio. In ultimo Annibale vinto dalla disperazione, vedendo di non poter combattere, ne accostarsi verso Roma, pensa un altro strattagemma; si parte di mezza notte, con tutto l’esercito da’ suoi quartieri, e si nasconde dietro a un monte, che gli era vicinissimo, acciò i Romani credessero, che egli fusse fuggito, e lo seguitassero. I Consoli vedendo gli alloggiamenti abbandonati da’ Cartaginesi, mandano una Compagnia di Cavalli a certificarsi. Questi vanno, e poi tornano, e riferiscono che i padiglioni sono aperti, che le cose più preziose sono sparse, e abbandonate, e che i gran vasi d’argento son lasciati alla peggio, per terra, e che ognuno è partito. Mentre questi consultavano, se si dovesse perseguitare, o no, giungono due Romani fuggitivi, già prigioni d’Annibale. Questi danno avviso, che l’esercito Cartaginese se ne sta imboscato tutto, dietro al monte vicino, che però non partano, poichè Annibale fingendo quella fuga, e lasciando quegli argenti, e quelle ricchezze per terra, null’altro pretendeva, se non allettare i Romani, e cavargli fuori delle fortificazioni, per tagliarli a pezzi.
Parmi Uditori d’aver detto non solamente abbastanza, ma anco a superfluità, per mostrarvi di quanta utilità sia stato mai sempre il sapersi giudiziosamente fortificare. Avete veduto Annibale, quando può venir a battaglia intrepido, insuperabile, ed ora non potendo espugnare un piccol avanzo di soldatesca afflitta, ridotto quasi all’ultima disperazione. Trovavasi angustiato da una grandissima carestia di viveri, finalmente fu astretto a partirsi, e a ritirarsi nella Puglia sotto al Castello di Canne. Felici i Romani, se lo lasciavano andare, o se col medesimo stile lo seguitavano, sempre mantenendosi chiusi nel recinto delle loro fortificazioni. Avevano intanto raccolto dalla Città di Roma, e dagli stati uniti col Popolo Romano un esercito numerosissimo, e di gran lunga superiore a quello d’Annibale. Vanno a ritrovarlo a Canne ambedue i Consoli di Roma, e conoscendosi tanto vantaggiosi di forze, si vergognano di fuggir la battaglia, e sprezzano lo star sempre racchiusi fra le trinciere della forticazione. Non vi tedierò più colle noiose narrazioni di cose divulgate. Fu combattuto, e la battaglia fu di tal sorta, che furon tagliati a pezzi quarantacinque mila Romani, morì uno de’ Consoli, trenta Consolari, ottanta Senatori, e un numero tanto grande di Cavalieri Romani, che gli anelli solamente levati dal dito a i nobili morti, e mandati a Cartagine empivano un grandissimo sacco. Soggiungono poi le storie (e quì finisco il discorso) che dopo questa strage tanto memorabile, alcuni pochi Romani feriti, s’erano ritirati ne’ lor quartieri già fortificati, e muniti; l’esercito vittorioso Cartaginese s’accampò per finir la vittoria, ed espugnare i quartieri; i difensori erano pochissimi, e spaventati, e malamente feriti; l’assalitore era un esercito glorioso per le molte vittorie, ardito per la continuata fortuna, ed omai divenuto, per così dire, insuperabile, e onnipotente. In ogni modo, se Annibale volle impadronirsi de’ quartieri Romani, gli convenne accordarsi a giusti patti di guerra, i quali furono stabiliti tra di loro, ed anco poi dal Capitan vincitore osservati. Parmi dunque Uditori, d’aver dimostrato quanto grande sia stata l’utilità della fortificazione, anco ne’ tempi de’ nostri antenati. Nel passato ragionamento, fu discorso della nobiltà, ed eccellenza dell’Arte del fortificare; ora abbiamo trattato dell’utilità, e del benefizio, che da essa, si cava; così andremo obbedendo al comandamento de’ Padroni, i quali hanno voluto, che dalla mia inabilità in questo luogo di quest’arte si ragioni. Intanto resta solo, che io di nuovo m’esibisca prontissimo a servir ciascuno, che vorrà imparare i principj della fortificazione; parendomi molto più giovevole l’insegnare i precetti dell’arte, con documenti, e lezioni familiari, le quali ammaestrano, ed erudiscono, che passar il tempo con leggende noiose, pronunziate di quassù, le quali infastidiscono, e tormentano.