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Encomio del Secol d'Oro.
Lezione duodecima

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Encomio del Secol d'Oro.
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ENCOMIO DEL SECOL D’ORO

LEZIONE DUODECIMA.

SS
E la lode, e gli applausi degnamente si convengono alla virtù, non è dubbio alcuno Amici, che al vizio con ogni ragione i biasimi, e le maledicenze si converranno. Pare, che non possano nominarsi senza i meritati encomi, la Giustizia, e la Temperanza, la Mansuetudine, e la Liberalità, la Prudenza, la Tolleranza, e l’altre virtù, alle quali per debito si convengono le benedizioni della fama, e le corone della gloria. Rallegratevi però fortunati compagni; quel secol d’oro, di cui celebriamo le lodi, e rinnoviamo l’usanza, in questo rozzo, ma delizioso apparato, non può [p. 89 modifica]biasimarsi, se non da quelli, che non approvano l’innocenza, e non conoscono la virtù. Al contrario poi quell’età sfortunata, che sotto nome di ferro rappresenta il secolo de’ tradimenti, e delle crudeltà, non si lodi se non da quelli, che si pregiano del vizio, e trovano nelle miserie i trionfi. Declamano con elegante facondia contro se stesse, l’Ira, e l’Avarizia, la Fraudolenza, e la Lascivia, l’Ingiustizia, e l’altra schiera innumerabile delle umane calamità; se ciò non fosse, troppo gran patrocinio, si converrebbe ora implorare alla mia inabilità, presso la vostra gentilezza, mentre con obbrobrio dell’età corrotta, scorrerò brevemente, le lodi del secolo già sì felice, e sì caro a gli Dei.

L’oro, che ancor non conosciuto, se ne stava nelle caverne della terra sepolto, diede al secolo della felicità il cognome dell’oro: forse crederà alcuno per contaminar l’innocenza, denominandola dall’autor delle colpe; ma chi non vede, che con usanza da tutti ricevuta, dal più caro metallo si derivano i nomi, e si assegnano le materie alle cose più riverite? Sentiste già, che la regia del Sole fu detta

Clara micante auro.
ma del Carro.
Aureus axis erat, temo aureus, aurea summae
Curvatura rotæ, radiorum argenteus ordo.
Così per l’appunto disse il maestro de’ costumi. Quod optimum videri volunt, saeculum aureum appellant. Ma qualunque sia la cagione, o l’origine del nome, passiamo dalle voci, alle sustanze, e contempliamo noi, che nella partenza di quel secolo perfetto, fu innondata la terra da tutte le colpe, tiranneggiata da tutti i vizi, oppressa da tutte le calamità. Figuratevi Uditori, nella mente, quello stato primiero del Mondo ancor pargoletto. Che felicità! mentre nelle Provincie indistinte giacevano le campagne senza termine, o divisione. Che ricchezze! mentre ciascuno possedeva il tutto, e numerava fra le possessioni quiete, quei che oggi son Regni combattuti.

nulli subigebant arva coloni,

Nec signare quidem, aut partiri limite campum

Fas erat: in medium quaerebant, ipsaque tellus

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Omnia liberius, nullo poscente ferebat.

La fecondità non proccurata de’ campi, e la clemenza delle stagioni mansuete, provvedevano con benefizi spontanei, a’ bisogni, e a’ disagi della mortalità. Lode nondimeno dovuta piuttosto a beneficenza di natura, che a possesso d virtù. Non è così scarso di prerogative proprie il secol d’oro, che e’ convenga mendicargli le lodi dalla fertilità della terra, o dalla misericordia del Cielo. Il timore, e la speranza son due mostri così forti, che ributtati gli assalti de’ più fieri Filosofi, e schernite le penne della più dotta, e più eloquente antichità, tormentano, ma con furie veraci, gli animi de’ viventi. Felice quel secolo, nel quale i carnefici della mente umana, i due tiranni supremi, che turbano la quiete della vita, non erano ne anche concetti. L’impudicizia, cioè l’avvoltoio degli animi, l’inferno de’ cuori, indarno colla face aborrita, fra le capanne de pudichi Pastori si raggirava: semplicità di vita esercitata; durezza d’educazione selvaggia; austerità di costumi incorrotti, sprezzavano l’ardore di quelle libidini, che nel Mondo odierno tiranneggiano ogni nazione, corrompono ogni sesso, ed ogni età.

Son così frequenti nel Mondo perverso, gli esempi della viltà esaltata; s’incontrano così spesso, l’innocenza, e la virtù abbattute, che per mio credere non ha sensi d’umanità colui, il quale ad ogni passo non sente sbranarsi il cuore da due mastini arrabbiati, invidia, e compassione. Felicissimo però quel secolo, dove ogni vivente, non rimirando, se non eguali a se di merito, e di fortuna, non aveva cagione di compatir l’innocenza della mendicità oppressa, ovvero di perturbarsi per l’esaltazione degli indegni felicitati; godeva nel comune possesso l’egual distribuzione de’ frutti selvaggi, e d’altri alimenti, per la conservazion della vita necessari, lieto nell’universal concordia.

......neque ille

Aut doluit miserans inopem, aut invidit habenti.

Se vedete, che i Pastori del secol d’oro non alzino le moli di peregrino marmo, fino alle stelle, abitano però difesi dall’inclemenza dell’aria, sotto capanne intessute di frondi, e di canne palustri: non calcano i pavimenti di gemme, ma di fo[p. 91 modifica]glie, e di fiori: abitano, ma non sotto i pericoli, ed escludono non solamente il timore delle stagioni noiose, ma anco de’ fulmini, e de’ terremoti repentini. La bassa fabbrica dell’edificio leggiero

Securos dormire jubet pendente ruina.
Non abitano i Pastori nelle Regie dorate, ma non però temono i tradimenti de’ servi infedeli, l’impeto de’ Vassalli ribellanti, l’assalto delle Nazioni straniere: abitano, ma lungi dalla perfidia, e dalla menzogna; dove per lo contrario,
Fugit potentum limina veritas.
Non si vedono nel secol d’oro le mense aggravate dall’argento, le gemme incavate per le bevande; il metallo intessuto ne’ vestimenti, i letti innalzati, d’oro, e di porpora,
At secura quies; et nescia fallere vita,
Dives opum variarum; at latis otia fundis,
Speluncae, vivique lacus; at frigida Tempe,
Mugitusque Bovum, mollesque sub arbore somni
Non absunt.
Vegliano appresso a’ Monarchi le cure, e gli spaventi; dormono con i Pastori la sicurezza, e la tranquillità; vivono alla presenza del Cielo, e non pendono sopra di loro le soffitte di metallo indorato, ma In aperto jacentes sidera superlabuntur, et insigne spectaculum noctium, mundus in praeceps agitur, silentio tantum opus ducens. Sorgono del pari col Sole; indi pascolato l’armento.

Prostrato in gramine molli

Propter aquae rivum, sub ramis arboris altae,
Non magnis opibus jucundè corpora curant.

Abbreviano le giornate più lunghe con giuochi, e con scerzi innocenti. Ecco balli, ma senza lascivie; canti, e musiche, ma di boscereccie sampogne; contese, ma senza perfidia; spettacoli ma senza passioni: Vedete là

ubera vaccae

Lactea demittunt, pinguesque in gramine laeto
Inter se adversis luctantur cornibus haedi.

Mirate fra passatempi, ora di robustezza, ed ora di genio

Ipse dies agitat festos, fususque per herbam
Ignis ubi in medio, & socii cratera coronant [p. 92 modifica]
Te libansLenee vocat; pecorisque magistris
Velocis jaculi certamina poscit in ulmo,
Corporaque agresti nudat prædura palestra.
Che più
Aureus hanc vitam in terris Saturnus agebat.

Poco tempo dopo, ma però avanti, che le trombe marziali, s’udissero infiammare altrui all’uccisioni, e alle rapine.

Hanc olim veteres vitam coluere Sabini,
Hanc Remus, et Frater: Sic fortis Etruria crevit.

Non parve già al secolo successore, che i folti rami d’un albero verdeggiante, o l’ombra, dell’intrecciate capanne, fussero bastanti per sottrar dalla vista del Cielo, le vergogne della vita, e l’oscenità della libidine; però non è maraviglia se s’innalzarono nelle Città sublimi, i Palazzi tanto superbi. Ma qual follia fu l’inventrice, Uditori, di trasportar per mari così lunghi, le montagne di Paro, o le rupi dell’Egitto? quasi che il sassoso Appennino somministrasse materia troppo scarsa, e troppo vile, mentre non costava tesori, e non veniva fra i pericoli.

La Giustizia dovendo pure allontanarsi dal secolo corrotto, abbandonate le Regie de’ Potenti fece l’ultime sue dimore fra’ tuguri umilissimi de’ Pastori

extrema per illos

Iustitia excedens terris vestigia fecit.
Così la descrive la più sublime di tutte le penne; tale la dipinse il più vivace di tutti i pennelli, mentre rosa il mirabile, la colorì.

Della Temperanza, e della Parsimonia, che altro resta da perdersi fuori che il nome, e la memoria? Non vedete voi accumulata in una mensa sola la fecondità, non dirò di una pianta, o d’un orto, ma d’una Provincia intiera? Gli animali non di più pascoli, o di più selve, ma di tutte le stagioni, e di tutti gli elementi? È pur vero, che a molti Tori è comune un prato solo; molti, e smisurati Elefanti in una sola selva si nutriscono; e il ventre ancorche angusto di un uomo non potrà riempirsi se non co’ i tributi adunati di tutto l’Universo? Chi mai crederà, che un ventre solo, e sì piccolo, sia quello, a cui si dedicano tante vite d’animali innocenti, per [p. 93 modifica]cui si semina in tante Provincie, i cui poderi son capaci di peregrinazione, gli armenti incapaci di numero? Che un ventre solo sia quello, per cui vendemmia nell’Italia il Vesuvio, Siracusa nella Sicilia, Smina, e Creta nell’Arcipelago, il Libano nell’Oriente, la Spagna nell’Occidente? Una voragine, o piuttosto un abisso senza fondo, sarà sempre stimato quello, per cui s’impoverisce l’aria d’uccelli, a cui si votano tante selve, per cui si pescano tanti laghi, tanti fiumi, e tanti mari, non solo del Mediterraneo a noi vicino, ma anco del remotissimo Settentrione. Non già mi maraviglio per questo Ascoltatori; perdonisi all’industria golosa, se trasportò le vendemmie di Creta, o le caccie del Fasi, e di Numidia, per accrescer delizie a una mensa dell’Italia. Erano merci lontane, e difficili sì, ma però conosciute, ed esposte: la perspicacia delle gole ingegnose, è passata più oltre, e per investigar cibi più occulti, è discesa sin sotterra. Non sono stati sicuri su gli scogli più dirupati dell’Appennino scosceso di Norcia, i frutti sotterranei della terra più infelice. Che giovò alla natura perspicace, il privar della luce quegli aborti, e seppellirgli fra l’alpi rovinose? frutti egualmente degni degli animali, che li trovano, e delle bocche, che gli appetiscono; frutti che non nascono, se il Cielo adirato non tuona: ma sentite.

et facient optata tonitrua caenas

Majores.

Adunque la corruttela del secolo si estenderà fino a bramare un fulmine, per accrescere una vivanda, ed invocherà una tempesta, per fomentare una lussuria? Lungi pur sieno da noi, e dalle nostre mense innocenti, frutti così contaminati, ed indegni, che non nascono se non sepolti, e non abitano, che in precipizi, figliuoli di terra infeconda, aborti di sterilità, gemelli di fulmini, padri di libidine. Ma chi crederebbe giammai Uditori, le mostruose invenzioni dell’arte, nel condimento de’ cibi, e nella sozza mistura delle vivande? Non piacciono più al lusso delle gole erudite, i parti della Natura, ma i mostri. Quindi è, che non si apprezzano più nelle cose i sapori nativi, se non mutati, o confusi. Non dilettano le carni de’ più delicati animali, se non vengono alterate da’ sughi spiacevoli, de’ frutti più aspri, ed inappetibili. Era forse poco aggravio, [p. 94 modifica]che le Orientali Molucche infettassero con tanta merce di fuocosi aromati ogni cibo dell’Europa svogliata? Nuova industria, anzi nuova stolidità, confondendo l’ordine de’ sentimenti, ministrò al gusto i tributi dell’odorato, ed unite le vivande con i profumi, tramutò in cibo i più preziosi di tutti quanti gli odori. La brevità del tempo non mi permette il seguitar quelli, che discesi nelle viscere della madre comune, cercano le ricchezze superflue nella regione de’ morti, dove trovano spesso, prima la sepoltura, che i tesori.

Ma parve poco all’insaziabilità del lusso, l’invenzione dell’oro, e dell’argento: si reputava povero Nisi haberet etiam quod posset totum statim perire. Però nuova industria sagace, con mistura di marmo polverizzato, e di erba incenerita, formò vasi trasparenti. Quibus pretium faceret ipsa fragilitas.

Altri nel profondo del mare cercano al lusso le superfluità, o tra i calcoli dell’arena, o nel seno delle conchiglie. Altri mossi dall’avarizia, e scorti dalla temerità, per comprar merci straniere, spendono fra le tempeste la vita, e cambiano la sicurezza co’ naufragi.

Exilioque domos, et dulcia limina mutant,
Atque alio quærunt Patriam sub sole jacentem.

Le fraudi della plebe interessata, l’ignominie dell’effemminata gioventù, i furori de’ Popoli armati, gli odi intestini, il contagio de’ costumi, le persecuzioni, l’invidie, i tradimenti, gli spergiuri, e le crudeltà, le rapine, e i veleni, tanti nomi di sceleraggine, tante forme di libidini, di lusso e di sensualità, mi spaventano di maniera, che arresto l’impeto nel principio del corso.

M’accorgo nondimeno d’esser giunto a quel segno, dove sarà difficile a i vostri purgatissimi giudizi il discernere, e sentenziare, qual fusse il secolo dell’innocenza, e della felicità, e qual sia quello del vizio e delle miserie. Godete pur dunque voi, Uditori felici, che racchiudete nel petto, non solo quelle virtù, che nel secol d’oro si donavano dalla natura, ma quelle ancora, che nell’età del ferro s’insegnano dalla sapienza. Voi che ancora nelle ricreazioni d’allegrezza, non ammettete passatempi, se non virtuosi, cavando frutti di gloria, donde altri trarrebbe messe di sensualità: voi che con eserci[p. 95 modifica]zi lodati, vi dimostrate figliuoli ben degni di quella forte Etruria, la qual crebbe in questo modo istesso. Sono i vostri lussi conferenze di poesie singolari, gare, ma d’eloquenza, controversie, ma d’erudizione, e d’ingegno. Trionfa nelle vostre mense la sobrietà, ma col contento, e col diletto; vi scherzano i risi, e le facezie, ma congiunte colla sapienza, e colla modestia; a segno tale, che io supplicherò sempre la clemenza del Cielo, acciò voglia, o renderci interamente il possesso del secol d’oro, ovvero continuarci lungamente la felicità di questa conversazione, e di questa vita.

IL FINE.