Lezioni accademiche/Lezione decima
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Lezione decima
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DELL’ARCHITETTURA
MILITARE.
LEZIONE DECIMA.
Ma come potrei io liberarmi oggi dall’accusa di manifesta adulazione, e sfacciataggine, se fussi comparso in questo luogo, non con altr’animo, che di tessere un Panegirico in lode della Pittura, e della Scultura? In questo luogo appunto dove le Regine dell’Arti quasi in propria abitazione dimorano, e regnano come in trono dominante. Non sono così peregrine in questa Città, che abbiano bisogno d’esser lodate, per accender gli animi al fervore dello studio loro; e non sono così ignote in questa famosissima Accademia, che tengano necessità d’encomi mendicati per accreditarsi appresso di voi Uditori, che con tanta vostra gloria ve ne dimostrate, o professori, o seguaci.
In vero le lodi della Pittura, e Scultura sono infinite, ma siami lecito l’additarvi fra tante loro eccellenze un biasimo solo, che se ben tutto può convertirsi in lode, nulladimeno per esser di molta conseguenza, può giudicarsi degno di qualche accurata considerazione. Il fine di queste due professioni tanto illustri, altro per mio credere non è, che l’ornamento de’ Templi, e de’ Palazzi, l’abbellimento e lo splendore delle Città. Ma qual pregiudizio più dannoso può farsi a una Città, e a un Regno, che renderlo eccessivamente adornato, ed arrichito di preziosissimi, e famosissimi ornamenti? L’abbondanza delle statue famose, e la moltitudine delle pitture inestimabili, non solo rapiscono i passeggeri, che le contemplano all’ammirazione, ma anco allettano le Nazioni straniere, che le invidiano alla rapina. La Grecia, che più d’ogni altra Provincia inclinava alle splendidezze, ed al lusso, abbondò in quei tempi, ch’ella fioriva, di simili ricchezze assai più ella sola, che tutto il rimanente insieme dell’Universo. Non fu perciò maraviglia se il Popolo Romano passato il mare soggiogò quelle nazioni, e col sacco di tante industriose Città, abbellì Roma, alla quale già cresciuta di grandezza, e potente, altra dote non pareva mancare, fuor che gli adornamenti. Da una sola Città dell’Epiro espugnata da Marco Fulvio, furon portate in Roma poco meno di trecento statue di bronzo, e quasi altrettante di marmo, tutte singolari per la bellezza, e inestimabili di valore.
La Sicilia per la vicinanza della Grecia, si era provveduta d’una merce innumerabile di pitture, e di statue famosissime. Non è dunque maraviglia, se invitò l’invasione de’ Cartaginesi più d’una volta, a saccheggiare un Regno fioritissimo, per depredare in esso le preziose delizie di quella suppellettile, che gli cagionò l’invidia, e la rovina. Gran parte invero gli fu fatta restituire da i Romani vincitori, dopo la seconda guerra Cartaginese; ma non minor quantità ne aveva trasportata Marcello da Siracusa espugnata, a Roma trionfante. Incredibil moltitudine ancora ne trassero gli altri Pretori, e Proconsoli Romani, finche l’insaziabil cupidigia di Caio Verre finì di spogliare quell’infelice Regno di quanto v’era restato di prezioso, e di pellegrino.
Roma tra le cui mura si congregarono alla fine tutte le maraviglie dell’universo, quante volte Uditori, dalle nazioni lontane, è stata presa, e saccheggiata? Creda pure alcuno, che ciò seguisse per altri fini, io per me credo, che l’unica intenzione de’ Popoli espugnatori, fusse l’impadronirsi di quegli adornamenti, che rendevano una tal Città la più bella, e la più invidiabile, che giammai fosse stata nella memoria de’ secoli decorsi. Io so certo, che gli eserciti espugnatori di Roma, non la presero per ritenerla, imperocche alcuni la trovarono in istato di forze tanto afflitte, che potevan anco sperare, se avessero voluto, di dominarla. Nondimeno si legge, che dopo presa, e depredata l’abbandonavano, dando manifestamente ad intendere, che niun altro fine gli aveva mossi a soggiogare una tanta Città, fuorche il desiderio d’impadronirsi delle preziose spoglie ond’ella era adornata. Pare incredibile la quantità quasi innumerabile di statue superbissime, che gli Autori scrivono essersi ritrovate in Roma, nel tempo, che ella a guisa di trionfante Regina, a tutta la terra debellata comandava. Ogni Tempio, ogni piazza, ogni strada n’era piena: piene n’eran le Case, i portici, le ville, i teatri, le terme; a segno tale, che non sapevano qual fusse maggiore, o il numero degli uomini viventi, o la moltitudine de’ simulacri effigiati. Ora per lo contrario dopo essersi dissipate le più preziose, per la terra tutta, quella Città, che fu già una galleria universale del Mondo, si è ridotta a mendicare fino i frammenti, che di sotterra si cavano, o dall’alveo del Tevere, o dal fondo de’ pozzi, o dalle cave de’ fondamenti.
Dunque Ascoltatori, se dalla copia soprabbondante delle ricchezze, e degli adornamenti, tesaurizzati per mezzo della Pittura, e della Scultura, possono accendersi gli animi alla rapina, e nascere la sovversione de’ Regni, che pronunzieremo noi dover farsi per ovviare a questo periglio? La cupidigia di simili splendidezze, s’è piuttosto accresciuta, che diminuita. L’abbondanza dell’opere preziose si multiplica; e il valore degli Artefici illustri, ogni giorno s’avanza, particolarmente in questa Città, dove i Pittori, e Scultori più gloriosi, o sono nati, o son venuti. Sbandiremo quell’arti, nell’esercizio delle quali par che l’ingegno creato, in un certo modo, gareggi colla Divinità? Estirperemo quelle vaghezze, che distinguevano le abitazioni degli uomini, dalle spelonche delle fiere, e leveremo affatto dalle nostre Città quegli ornamenti reali, che differenziavano i Palazzi dell’Italia industriosa, dalle selve della Barbarie inumana? Non sia vero giammai: anzi con istudio, e applicazione maggiore del solito, attendasi oggi all’esercizio di professioni così gloriose, per acquistar fama, ed immortalità a se stesso, e per accrescer vaghezze alla Patria. Fiorisce in compagnia della Pittura, e Scultura una terza sorella, che quasi terza Grazia perfeziona il numero, ed accresce il pregio alla bellissima coppia di quelle Imperatrici delle Professioni. L’Architettura con opere magnifiche, ed ingegnose concorre colla Pittura, e colla Scultura anch’essa, non solamente nell’abbellire, ma anco nell’assicurar le Città. Eccovi gli adornamenti di fabbriche non tanto pompose per l’apparenza, quanto comode per l’alloggiamento; di Templi maravigliosi, di teatri immensi, di ponti, d’acquedotti, di fontane, di logge, e d’altr’opere simili, che non solamente hanno per fine la comodità degli abitatori, ma ancora la maraviglia de’ riguardanti. Tutto questo però non sarebbe un produrre la sicurezza delle Città, ma piuttosto un accrescer loro insieme con la bellezza anco il pericolo.
Però l’Architettura sola, e specialmente quella parte, che militare s’appella, s’affatica nella custodia delle Città e dei Regni, con la fabbrica di Fortezze, Castelli, Rocche e tante altre sorte di difese, che oggidì contro l’impeto degli eserciti armati si consumano. Se le ricchezze, e le bellezze de’ Regni adornati oggidì con pacifico possesso da’ cittadini quieti, si godono; se le arti dell’ingegno in una pace tranquilla con ogni sicurezza s’esercitano; ad altri un così notabil benefizio non si ascriva, che alla militare Architettura. Questa con assicurar le Città dall’oppugnazioni straniere, fa che le Patrie s’adornano per gli abitatori, e non pe’ nemici, ed opera, che nelle provincie fortificate, si possano multiplicare gli adornamenti senz’accrescer il sospetto delle rapine. Ma potrà forse giudicare alcuno, che io con poca ragione abbia avuto ardire di paragonar a due professioni tanto gloriose, come son la Pittura, e la Scultura, un arte, che forse parrà vile, ed abbietta. Vile potrà parere l’Architettura militare a chi considera, ch’ella nelle sue fortificazioni la maggior parte de’ suoi lavori, non innalza, se non di terra. Non potrà già parer vile a chi considera, che quei lavori di terra da vilissimi mercenari, e non dal militare Architetto vengono maneggiati. Non potrà parer vile a chi si ricorda, che nell’ultimo giorno della sua fatica, s’impiegarono in lavori di terra gli altissimi ministeri dell’onnipotenza.
Sogliono alcuni, che contemplano intorno alla nobiltà, ed eccellenza delle cose, considerar il fine, le conseguenze, l’autore, e i professori, coll’antichità, o vogliam dir l’origine di esse, per poter poi con equità, e con fondamento profferire il giudizio della dignità loro. Il fine dell’Architettura militare altro non è, che la sicurezza, e la conservazione de’ Regni. La fortuna, e la virtù posson ben dispensare gli Imperi a chi, o per nascita Reale si sarà incontrato nel Trono, o per azioni eroiche avrà conquistata la corona della potenza. Ma la fortuna, e la virtù non posson già, per lungo spazio di tempo mantener il possesso di quei Regni, ch’elle distribuiscono, se dall’Architettura militare non vengono custoditi, ed assicurati. Studino pure l’altre professioni di dar gusto all’orecchie con intrecciamenti di voci armoniose, o con accenti di corde regolatamente battute; s’affatichino pure per allettar le viste de’ riguardanti, con la vivace disposizione de’ ben intesi, e ben accordati colori; sudino intorno a’ numeri poetici, a’ colori rettorici, alle proporzioni delle figure, alle proprietà de’ numeri, ed al corso delle sfere; che sola l’Architettura militare affine di partorir il riposo, e la quiete, o per dir meglio, la sicurezza, e la libertà all’altre professioni, specula propugnacoli formidabili contro l’ostilità. Se l’altre discipline non hanno per fine se non l’acquisto della fama, o delle ricchezze, l’esercizio dell’intelletto, o del corpo, l’allettamento dell’animo, o de’ sentimenti, la militare Architettura altro non si propone per fine, che assicurarvi l’esercizio dell’altre professioni, conservarvi la libertà, e le ricchezze, e custodirvi la Religione, la Patria, le mogli, i figliuoli, la vita. Vegezio il gran Maestro della Milizia Romana proroppe una volta in queste parole: Quis enim dubitet Artem bellicam rebus omnibus esse potiorem? per quam, et libertas retinetur, et dignitas provinciae propagatur, et conservatur imperium. Il medesimo in altra occasione alzando la voce esclama: O Viros omni admiratione laudandos, qui eam praecipuè artem ediscere voluerunt, sine qua aliae artes esse non possunt.
Le conseguenze, che dependono dall’Architettura militare per quei popoli, che prudentemente se ne sapranno prevalere, altro non sono, che la sicurezza, la salute, l’onore, e la libertà; dove per lo contrario se da qualche mal consigliata nazione sarà disprezzata, altro le sue conseguenze non apportano, che timore, servitù, ignominia, e morte. Potrebbe alcuno allegarmi contro, l’autorità d’una famosa Repubblica, che ne’ secoli antichi disprezzò le fortificazioni delle mura, con dire, che non voleva per guardia della Città altre guardie, che i petti de’ suoi Cittadini. Io per l’altra parte risponderò, che questa fu una sola Città, ed in un secolo solo, e che fra i popoli della posteriorità, ha trovato pochi lodatori, e niun seguace: produrrò poi in contrario per corroborazione del mio detto, la testimonianza di tutti i secoli passati, e di tutt’i Regni dell’Universo. Ma la medesima Sparta, che per lo spazio d’ottocent’anni inebriata dalle frenesie di Licurgo, si conservò senza mura, potrà fare indubitata testimonianza a’ posteri, qual fusse verso di lei più benefico, o il legislatore affezionato, o il Tiranno crudele. Licurgo legislatore, e Padre della Città la volle ignuda, e priva d’ogni difesa di recinto, o di mura; il Tiranno in vece di danneggiarla, la beneficò con armarla di muraglie, e di difesa. Chiedasi ora agli Spartani qual de’ due stati sia paruto loro più conveniente per la quiete de’ Cittadini, e per la felicità, o la Città ignuda, o la Città circondata. Ve lo dirò io. Piansero gli Ambasciadori di Sparta nel Senato Romano, quando per ordine del medesimo Senato le furon rovinate quelle mura, che vi avevano innalzate i Tiranni. Così colle lacrime loro, vennero a confessare, quanto meglio giudicassero, per la Patria il conservarla circondata da fortificate muraglie, che rimetterla in quello stato primiero, nel quale era stata dal suo famoso legislatore instituita. Le Città principali tutte, o delle Repubbliche, o delle Monarchie, di cui abbiamo memoria, sempre sono state fortificate a proporzione dell’offese, e delle macchine, che ne’ tempi loro si costumavano, ma oggidì più che mai, mentre si combatte collo spaventoso strumento dell’artiglierie. Non aspettate già, ch’io per provarlo con una lunga citazion di Scrittori v’infastidisca; se per prova di qualche altra proposizione converrebbe allegarvi molte istorie, per confermazione di questa verità si potrebbero produr tutte.
Le conseguenze poi che appartengono a’ Professori dell’Architettura, e arte militare son così note per se stesse, che non hanno bisogno d’esservi, per mezzo delle mie parole dimostrate. Serva per tutti i secoli del tempo, e per tutti gl’Imperi della terra un’esempio solo, che togliendosi dall’età presente, e da’ paesi vicini, non potrà reputarsi speculazione chimerica, ma usanza praticata. Chi non vede nella marzial Germania, o ne’ Regni Oltramontani, a quale altezza di fortuna si sublimi un Ministro di guerra, che con prudenza, e con ingegno si dimostri esperto professore della militar Disciplina? Si sublima a segno tale Uditori, che se il supremo Dominante si trattiene, come giudice di controversie, o distributor di cariche fra i quieti Cittadini, l’altro collo Scettro della potenza in mano, comanda agli eserciti armati, e come vero Re, si rende arbitro, ora degli acquisti, e ora delle perdite memorabili, facendosi autore, o della conservazione, o della rovina allo stato del Regno.
I Professori poi d’un Arte così grande spesse volte o son nati Re, per fortuna, o si son fatti colla virtù. Con quale applauso di gloria si sentono oggi i nomi trionfanti d’Alessandro, di Cesare, di Scipione, d’Annibale, d’Ottaviano, e di tanti altri, che volentieri tralascio, per non recitarvi tutto il vocabolario della fama, e infastidirvi con gli annali dell’immortalità?
Quanto all’Autore, e all’origine l’Arte della milizia, è differenziata molto più di quel, che possiate immaginarvi da tutte l’altre professioni de’ mortali. Se alcune dell’arti per la soverchia antichità, hanno poco noto i principj, e nella moltitudine degli anni, hanno smarrito il nome de’ loro inventori, sappiamo nondimeno, per cosa certa, che non ebbero i lor natali se non dopo la nascita, e la creazione del Mondo. La sola Disciplina militare, nata prima della produzione del tempo, trae l’origine sua, di là dal principio degli anni, e supera d’antichità, l’istesso Universo. Io non parlo di quella sognata guerra, che facevano gli elementi confusi nello sconcertato Caos della favolosa Gentilità. È noto pur troppo, il combattimento grande, che fu colà tra le Celesti Gerarchie, quando sotto l’insegne de i Generalissimi Michele da una parte, e Lucifero dall’altra, militarono squadronate le innumerabili Legioni del Paradiso. Così la disciplina del combattere, esercitata prima, che tutte l’altre nascessero, ebbe per coetaneo il Mondo, per patria il Cielo, e gli Angioli per professori.
Dunque, se discesa da così alta origine ebbe sempre per fine, o l’acquisto, o la conservazione de’ Principati, e venne per lo più maneggiata da’ Re, e posseduta da’ Potentati, non mi pare, che senza qualche ragione, venisse da me agguagliata alle due nobilissime professioni della Pittura, e della Scultura.
Prudentissimo mi pare, ancora il consiglio di quei Padroni i quali hanno ordinato, che l’Architettura militare sia ricevuta in questo luogo, dove la Pittura, e la Scultura hanno la regia loro, e la residenza. Così verranno esercitate nel medesimo luogo quell’arti, che abbelliscono le Città, e quella, che le conserva.
Doverebbe ora difendersi da me il giudizio di quei miei Protettori, quali hanno proposto, per questa carica, un soggetto inesperto, e debolissimo, quale per appunto son io. In questo non trovo scusa, che meriti d’esser proposta, conoscendosi pur troppo manifesta la mia inabilità: particolarmente dovendo questa cimentarsi in un luogo, dove non praticano, se non Maestri, e dove è ancor sì fresca la memoria de’ miei antecessori. Quanto all’inesperienza, io la confesso; ma dico bene, che in queste materie di militar Disciplina, o vogliamo dir teorica di fortificazione, il medesimo può valer l’industria d’un novizio inesperto, che la lunga esperienza d’un pratico, consumato nelle guerre. Altra differenza non vi conosco, se non che dove quello potrebbe testificar le cose con l’addurre gli esempi da lui veduti, noi le proveremo coll’autorità d’Autori, che l’hanno vedute, e l’hanno scritte. In qualunque altra Scienza, o Disciplina si ricercerebbe veramente un soggetto d’ingegno elevato; ma in questa sono affatto superflue l’invenzioni, che si fanno nelle scuole, dovendosi totalmente sottometter l’ingegno a quello, che s’usa nelle Campagne. Questo sarà cagione ancora, che io professerò sempre, di portar cose, e opinioni altrui, ma però d’uomini, e maestri accreditati, i quali avendo appresa l’arte nelle guerre, l’hanno poi lasciata scritta ne’ libri. Resta solo, che io m’offerisca, per compagno, e condiscepolo a quegli, che averanno, qualche curiosità d’intendere alcuna cosa, intorno a questa professione. Proccurerò di rendermi tanto più affettuoso, quanto meno erudito, e rappresenterò in quest’offizio, quella cote, la quale benche ottusa, e incapace di tagliare per se stessa, si adopera nondimeno, per accrescer l’acutezza, e per assottigliare il taglio de’ ferramenti.