Lettere volgari/Lettera II
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EPISTOLA
A MESSER FRANCESCO
PRIORE DI S. APOSTOLO DI FIRENZE, SPENDITORE A NAPOLI DEL GRAN SINISCALCO DEGLI ACCIAIUOLI DI FIRENZE.
A me era animo d’avere taciuto; tu colla tua mordace epistola in parole mi commuovi. Certo io mi doglio; perocchè non sempre ad onesto uomo si confà sparger quello che essa verità patirebbe, acciocchè non paia in stimolo avere rivolta la lingua, e mentrechè dice il vero, sia reputato maldicente; ma perocchè la innocenza si debbe difendere, ed io offeso sono accusato, è da venire in parole.
Tu scrivi, innanzi all’altre cose, ch’io sono uomo di vetro, il quale è a me non nuovo soprannome. Altra volta tu medesimo mi chiamasti di vetro. Di quindi aggiungi, quasi adirato, ch’io sia subito; e finalmente con più largo parlare scrivi: che io non doveva così subito il partire, anzi la fuga dal tuo Mecenate arrappare: e che l’animo ti stava, che secondo il parer mio ogni cosa mi sarebbe suta apparecchiata, e quindi non esser senno l’averlo turbato; lodando, dopo questo, il tornare. E benchè la pestilenza mi spaventi, o mi contrasti il caldo della state, utile tempo mi conforti ad aspettare; e per la tua fede affermi che al desiderio mio troverò ogni cosa apparecchiata; affermando, Mecenate tuo essersi vergognato quando udì il mio partire, perocchè a molti sia paruto che per sua colpa mi sia partito, e che, se fede m’avesse potuto prestare, non sarebbe avvenuto che partito mi fossi; e se al tutto mi fossi voluto partire, con debiti onori e doni convenevoli me infino nella propria patria averebbe rimandato; e altre cose più inframetti non meno piacevoli che gravi, quasi quel primo ardore sia ito in cenere.
Oh se io volessi, ho che ridere, ho che rispondere. In verità nel proprio tempo sarà riserbato il riso; ma allo scritto, non come tu meriti, ma come alla gravità mia si confà, risponderò. Niuno certamente arebbe potuto quello che tu di’ scrivere, che non fosse con più paziente animo da comportare, conciossiacosachè un altro potesse per ignoranza aver peccato; ma tu, no, perocchè d’ogni cosa sei consapevole, e sai contra la mente tua hai scritto. Se forse di’, non me ne ricorda, possibile è gli uomini siano dimentichi, ma non sogliono le cose fresche così subito cadere della memoria. Che diresti tu, se, poichè queste cose son fatte, un anno grande fosse passato? conciossiacosachè non ancora il sole abbia perfettamente compiuto il cerchio suo, a Messina in quelli dì che il nostro re Lodovico morì1, di questo mio infortunio si fece parola: tu a’ ventidue di aprile seguente queste cose scrivi. Dirai ch’i’ sia dimentico?
O buon Dio! Ecco se, non sapendo io, del fiume di Lete assaggiasti (forsechè n’assaggiasti); e se non n’assaggiasti, tu ti dovevi ricordare delle lettere di Sicilia a me scritte di mano del tuo messer Mecenate, egregio albergo delle muse, con quanta istanza io sia in quelle chiamato, con quante promesse acciocch’io venga; alle quali, acciocch’io fossi più inchinevole, nell’epistola scritta di mano di Mecenate era posto: ch’io venissi a participare seco la felicità sua. E se io volessi mentire, le lettere sono ancora intere per dare certissimo testimonio alla verità, se elle sieno domandate. Ma acciocchè io, che so tutto, dica qualche cosa, confesso spontaneamente ch’io fui alquanto in pendente, lette le lettere tue. Certamente io temeva, altre volte esperto, non quelle larghe promesse, non la disusata liberalità, non la molta dolcezza delle parole ricoprisse alcuna cosa meno che vera, ovvero inducessero scorno. Finalmente da me, poco fidandomi, l’epistola tua rimosse il dubbio, e, con pace del tuo Mecenate sia detto, a te credetti. Me nè la promessa, nè ’l venire i conforti tuoi sospinsono, perocchè tu sapevi che modo fosse a me di vivere nella patria, che ordine e che studio; e però nell’animo mio fermai che tu non dovessi, uomo d’eta compiuta, consigliare ch’entrassi in nuovi costumi o diversi agli usati; e così venni nel consiglio tuo.
E acciocchè tu dopo il venir mio ragionevolmente non mi potessi dire troppo sciocco, io ti scrissi una lettera, la copia della quale è appresso di me, nella quale interamente ti faceva savio che animo fosse in me venendo costà; e non troverai, se tu la producerai innanzi, me avere commessa alcuna cosa contro a quella. Ma che dico io molte parole? Io venni con malo augurio, e a Nocera te e il tuo Grande trovai. O lieto dì! o ricevuta festevole! non altrimenti che s’io tornassi da’ borghi o del contado vicino a Napoli, con viso ridente, con amichevole abbracciare e graziose parole dal tuo Mecenate ricevuto sono. Anzi, appena portami la mano ritta, in casa sua entrai: augurio certamente infelice! Di quindi il dì seguente venimmo a Napoli, dove (acciocchè io non racconti tutte le cose che avvennono) subitamente la parte della chiara felicità, secondo la promessa, mi fu assegnata, te ciò facendo; conciossiacosachè tu fossi preposto al governo dello splendido albergo: onorevole e egregia parte e con lungo immaginare pensata!
Sono al tuo Mecenate cittadi nobilissime e castella molte, ville e palagi e grandissimi poderi, più luoghi riposti e nascosi e dilettevoli, acciocch’io non dica l’altre grandi cose di grandissimo splendore chiare; il che avere aperto a te è senza dubbio di soperchio. In tra queste cose così risplendienti era ed è una breve particella, attorniata e rinchiusa d’una vecchia nebbia, e di tele di ragnolo e di secca polvere disorrevole, fetida e di cattivo odore, e da esser tenuta a vile da ogni uomo quantunque disonesto; la quale io spessissime volte teco, quasi d’uno grande navilio la più bassa parte d’ogni bruttura recettacolo, sentina chiamai. In questa io, siccome nella conceduta parte della felicità grandissima, quasi nocivo, non come amico, dalla lunga sono mandato a’ confini: la possessione della quale, acciocchè come destinato abitatore pigliassi, innanzi all’altre cose mi ricorda. Non creder ch’io sia dimentico.
Per tuo comandamento fatto, già tenendo noi mezzo novembre, e ogni cosa aggranchiata per l’aire fresca e contratta, e stante la pestilenza; e intorno ogni cosa tenendo sopra il solaio di sasso, uno letticciuolo pieno di capecchio, piegato e cucito in forma di piccole spere, e in quell’ora tratto di sotto ad un mulattiere, e d’un poco di puzzolente copertoio mezzo coperto, senza piumaccio, in una cameruzza aperta da più buche, quasi a mezza notte, a me, vecchio e affaticato, è assegnato, acciocchè insieme col mio fratello2 mi riposassi. Grande cosa certo ad uno avvezzo a dormire nella paglia! O notte da ricordarsene, di stigia nebbia offuscata, trista ad ambedue noi e angosciosa, ma al più vecchio tristissima! con rammaricose vigilie, non mai venendo il dì, s’è consumata; e non sola, ma molte, e non senza dolore incomportabile, più misere di questa seguitarono. Volesse Dio che piuttosto aliga o ulva di padule, se la felce o le ginestre mancavano, vi fosse suta posta! Oh come bene, e come convenientemente sono ricevuto! Forsechè non più splendidamente ad Alba per addietro fu Perseo da’ Romani, o da Tiburzi Siface, per addietro chiarissimo re, allora prigioni, ricevuti sono. Tu, che se’ uomo oculato, non ti ricordavi che abito fosse quello della cameretta mia nella patria? che letto? e quanto male si confacessono colle cose da te apparecchiate? Forsechè, siccome della sventurata Ecuba, per addietro de’ Troiani reina chiarissima, leggiamo, me converso in cane stimarono i fanti tuoi? Per la Dio grazia io sono ancora uomo; e se io avessi desiderato sterquilinii e i brutti e disorrevoli luoghi, abbondevolmente gli arei nella patria trovati: non m’era necessità di questi, e spezialmente per abitare una Sentina con tanta mia fatica esser venuto a Napoli. Ma che? In questa medesima sentina al disorrevole letticciuolo s’aggiugne l’ordine domestico de’ desinari, lo splendido apparecchio, e degl’invitati a desinare la dilettevole compagnia: la qual cosa, non ch’io creda che tu nol sappi, ma acciocchè tu un poco ti vergogni, ti scrivo.
A quelli che in quella casa reale entravano, tessuta di travi orate, coperta di bianco elefante, (trista battaglia colle cose contrapposte al vedere, al gusto e all’udito!) si vedeva in un canto una lucernuzza di terra con un solo lume mezzo morto, e a quello, con poco olio, della vita trista è continua battaglia! Dall’altra parte era una piccola tavoletta di grosso e spurido canovaccio da’ cani ovvero dalla vecchiaia tutto roso, non da ogni parte pendente, e non pienamente coperta, e di pochi e nebbiosi e aggravati bicchieri fornita; e di sotto alla tavola, in luogo di panca, era uno legnerello manco d’uno piè; credo nondimeno che questo fosse fatto avvedutamente, acciocchè accordante sul riposo di coloro che sedeano, colla letizia delle vivande agevolmente non si risolvessono in sonno, postochè nel focolare nullo fuoco avesse intorno, il fummo della cucina3 e il lezzo della vivanda occupava ogni cosa. Queste così fatte case reali e cotali tavole crederò, se tu vorrai, Cleopatra Egizia avere usate con Antonio suo.
Dopo queste cose, a brigata veniano di quinci e di quindi baroni: dico ghiottoni e manicatori, lusinghieri, mulattieri e ragazzi, cuochi e guatteri, e usando altro vocabolo, cani della corte e topi domestici, ottimi roditori di rilievi. Ora di qua ora di là discorrendo, con discordevole mugghiare di buoi riempievano tutta la casa; e quello che m’era gravissimo al vedere, e all’odorato, era, mentrechè le mezzine e i vasi da vino spesse volte quindi e quinci portavano, e alcune volte rompessono, il rotto suolo immollando, e la polvere e ’l vino co’ piedi in fango convertissono, di fetido odore riempievano l’aria del luogo. Oimè quante volte non in fastidio solamente, ma in vomito fu provocato lo stomaco! Dopo questo, il prefetto della reale casa, sucido, disorrevole, e non in abito discordante dalla casa, pochi e piccolini lumi portando in mano, gli occhi lacrimanti per lo fummo, con roca voce e colla verga dà il segno della battaglia, e comanda che vadano a tavola quelli che debbono cenare.
Di quinci io con pochi entrava alla prima tavola, come più onorato nella Sentina; ma nel cospetto mio sozza ed incomposta turba ruinava, senza comandamento aspettare, dove la fortuna gli concedeva.Ciascuno alla mangiatoia s’acconciava, desideroso del cibo; e a mio dispetto spessissime volte verso costoro io voltava gli occhi, i quali quasi tutti vedeva con gli nari del naso umidi, colle gote livide, con gli occhi piangenti in gravissima tossa esser commossi, dinanzi a sè e a me marcidi e rappresi umori sputare. E non è maraviglia: mezzi vestiti, quasi tutti di sottilissimi e manicati pannicelli, presso al ginocchio nudi, e disorrevoli e tremanti, scostumati, affamati a guisa di fiere trangugiavano le vivande poste loro innanzi. Che dirò de’ vasi boglienti per i cibi, simili a quelli del grande Antioco re d’Asia e di Siria? Forse lo penserebbe un altro tirato da falsa fama: io non ti posso ingannare, chè ogni cosa avevi apparecchiato. Egli erano di terra; la qual cosa io non danno, perocchè questi così fatti per l’addietro avevano in uso Curio e Fabrizio uomini venerabili; ma egli erano sozzi, e, siccome spesse volte io pensai, dalle botteghe de’ barbieri, e di quelli che pieni di corrotto sangue tengono i barbieri di Napoli, parevano essere suti imbolati. E se alcuno ve n’era di legno, nero e umido, e che sapeva e sudava del grasso di ieri, erano posti innanzi: il che spesse volte di tuo avvedimento m’avvidi essere stato fatto, acciocchè la carne innanzi posta, pigliando il sapore del legno, non diventasse sciocca. Dirai forse: se tu sai che io il sapessi, perchè me lo scrivi? Per Ercole! non per altro, se non perchè tu t’avveggia che ancor io mi sia avveduto che quello che quivi era non era di Malfa4.
Il proposto della sala (come appresso a certi nobili per addietro vidi per consueto cibi apparecchiati quasi colla voce del banditore annunziare l’anno precedente, acciocch’io non dica il mese o il dì) ti mostrava l’ordine del seguente, il quale dal cuoco era osservato. Buoi di vecchiaia e di fatica o d’infermità morti, si cercavano da ogni luogo, per tua sollecitudine dicevano molti; il che appena credeva, ricordandomi come per addietro solevi esser sollecito intorno alle buone cose! così o troie spregnate, o colombi vecchi che arsi o mezzi cotti a’ cenanti s’apparecchiavano, perchè, secondo l’autorità del re Ruberto, in nutrimento più forte si convertissono: e oltre a questo, Esculapio, Apollo, e ancora Ipocrate e Galeno queste interapeutiche vivande non molto commendano, e spezialmente in questo pestilenzuoso tempo. Oh come ben fatto! Acciocchè più pienamente la tua masserizia si conoscesse, tra due di quelli che sedevano alla prima tavola tre castagne tiepide venivano innanzi. Io non aveva detto le quisquilie piccolissimi pesciolini, ancora a’ mendicanti lasciate, delle quali i dì del santo digiuno eramo pasciuti, cotte in olio fetido! Ma per ristoro delle sopraddette cose, sopravvenivano vini o agresti o fracidi, ovvero acetosi, non sufficienti a torre via la sete, eziandio se molta d’acqua vi si mettesse. Questo non arei mai creduto essere stata tua operazione, se tu avessi cenato con noi; perchè mi ricordo con quanta cura tu solevi cercare gli ottimi vini; ma tu, siccome savissimo sempre, lasciata la sventurata moltitudine, salivi il monte di Cassino, e ne’ conviti reali, o, se piuttosto vuoi, del tuo Mecenate, t’inframmettevi, ne’ quali erano più larghi bocconi messi ne’ vasi d’argento, e quivi ottimi vini sorsavi: magnifiche cose veramente, e degne del tuo gran Mecenate, interamente ragguardanti e dirittamente alla felicità promessa!
Forse che tu dirai: che aresti tu voluto? Non conoscevi tu il costume de’ cortigiani? Quello che basta agli altri non doveva bastare a te? Ottimamente di’, anzi santissimamente ed amichevolmente. Conobbi dalla mia puerizia i costumi de’ cortigiani e la vita loro; ma non mi credeva esser chiamato per seguitare quelli o per osservarli, anzi per esser partefice della felicità del tuo Grande; e nella lettera mia, innanzi ch’io venissi, chiaramente protestai ch’io non potrei sofferire quelli. Perchè non dunque, se questo non era all’animo di Mecenate, non m’era negato l’andare? Nondimeno io non desiderava quello che tu pensavi; perocchè, se io sono di vetro al giudizio tuo, io non sono uomo goloso, nè trangugiatore, nè ancora per troppa mollezza effemminato. Io non t’arei chiesto vini di Tiro, ovvero di Pontico, ovvero quelli che sono più presso, vini del monte Miseno e delle vigne dello Abruzzo o delle vigne di Lombardia succiare. Io non t’arei chiesto uccelli di Colco, d’Ortigia, non fagiani o starne, non vitelle o capretti di Surriento, non il porco salvatico di Calidonia vinto da Meleagro, non i rombi del mare adriatico, non l’orate o l’ostriche condotte dalla chiusura di Sergio Orata, non le mele di Esperia, non le vivande degl’imperadori, non le piume di Sardanapalo, non i guanciali della reina Giunone, non letto ornato di porpora, non la casa d’oro di Nerone Cesare; non lusinghieri, non citaristi, non fanti colle chiome ricciute, non i baroni del regno. Queste delizie e del tuo grande Mecenate, e di coloro che lussuriosamente hanno sollecitudine della gola, si siano. Ma arei io voluto quello che spessissimamente domandai, cioè una casellina rimossa da’ romori de’ ruffiani garritori, una tavola coperta di netti e onesti mantili, cibi popolareschi, ma nettamente parati; e con queste cose così temperate, volgari vini e chiari, e in netto vaso, e dalla diligenza del celleraio conservati; uno letticciuolo, secondo la qualità della mia condizione, posto in una camera netta; queste cose non sono troppo di spesa, nè sconvenevoli.
Se tu non lo sai, amico, io sono vivuto dalla mia puerizia infino in intera età nutricato a Napoli, e intra i nobili giovani meco in età convenienti, i quali, quantunque nobili, d’entrare in casa mia nè di me visitare si vergognavano. Vedevano me con consuetudine d’uomo e non di bestia, e assai dilicatamente vivere, siccome noi Fiorentini viviamo; vedevano ancora la casa e la masserizia mia, secondo la misura della possibilità mia, splendida assai. Vivono molti di questi, e insieme meco nella vecchiezza cresciuti, in dignità sono venuti. Non voleva, s’io avessi potuto, che, volendo essi continuare l’amicizia, ch’eglino m’avessono veduto dissorrevolmente vivere a modo di bestia, e che ciò avvenire per mia viltà pensassono. Forsechè tu dirai: queste essere femminili ragioni, e non convenirsi ad uomo studiante. Confesso essere delle femmine le dilicatezze, e così essere degli animali bruti brutamente vivere. In tutte le cose si vuole aver modo: io veggio gli uomini nobili osservare quelle cose che io domando; e intra i grandissimi e singulari il mio Silvano5, l’orme del quale, quanto posso, discretamente seguo. Se tu danni lui, poco mi curerò se tu me danni.
Queste cose a me spesse volte promesse, perocchè solamente una volta non m’erano date, ed io quelli allettamenti sofferire non potessi, sono costretto di tornare alla liberalità del nobile giovane cittadino nostro Mainardo de’ Cavalcanti, consapevole; e spessissimamente di ciò pregando, lasciata la Sentina, da lui con lieto viso sono a tavola e ad albergo ricevuto. E non dubito che per la Dio grazia e per la sua operazione e viverò e sarò sano. Ancora il fratello mio, benchè non molto in costumi vaglia, non potendo sofferire quei fastidii, all’albergo se n’andò, appresso il quale esso si difese: così dal peso mio il tuo Mecenate alleggerii, ed esso tuo magnifico Mecenate, quasi da magnifici fatti impacciato, infignendo di non vedere, tacito sel sostenne, e tu molto maggiormente: ma non più liete cose ci restano.
Sai che, mentrechè quasi separato coll’ottimo giovane un pochetto mi ristorassi, con quante letteruzze e con quante ambasciate io fossi dal tuo Mecenate chiamato, acciocchè insieme con tutti i libri miei, quasi da parte, alquanti dì a lieto riposo vacassimo: e poichè per mia disavventura fui venuto, sai quante sconvenevoli cose io soffersi. Tu ti puoi ricordare, non meno realmente quivi che nella Sentina io fossi ricevuto! Una fetida cameruzza mi fu conceduta, quasi così fatte cose a me in prova, come se meritate l’avessi, si cercassono. Di quindi uno letticciuolo di lunghezza e di larghezza appena sufficiente ad un cane mi fu apparecchiato, Oh con che schifi e quasi lagrimosi occhi lo riguardava! Io non negherò che se io non avessi avuti i libri, di certo immantenente mi sarei tornato a Napoli. Stetti adunque legato con quella catena. E perchè forse il tuo Grande non molto credeva a coloro che gli ridicevano quanto vituperevolmente io fossi in luogo così pubblico trattato, esso medesimo volle vedere; e attorniato da una brigata di gentili uomini entrò nella puzzolente cameretta, ogni abito della quale con uno agevole volger d’occhio poteva ciascuno vedere: niuno ripostiglio era in quella, ogni cosa era in aperto. Vide adunque, tra l’altre cose, il letticciuolo, e, quello che dell’animo cacciar non mi posso, tacito riguardò. Volesse Iddio che almeno una delle lagrime di Cesare concedute al morto Pompeo avesse date, poichè esso vedea quello che e’ desiderava: forsechè arei creduto, per pietà dell’indegna trattagione essere suta conceduta, e più lungamente m’arebbe potuto schernire. Stava nel cospetto di coloro, che venivano tratti dalla fama de’ libri, il diffamato e servile letticciuolo, non senza molto rossore della faccia mia: ma della mia vergogna Dio ebbe misericordia. Entrò per ventura in quel luogo uno giovane napolitano di sangue assai chiaro, il quale, ricordandosi dell’amicizia vecchia, venne per visitarmi. Questi, poi visitato m’abbe, come vide quel letto da cane, crudeli bestemmie sopra del tuo capo e del tuo Grande cominciò a pregare. Con parole accese d’ira dannava, malediceva e bestemmiava la miseria e la inconsiderata smemoraggine d’ambedue voi; l’impeto di cui, poichè con piacevoli parole io ebbi pacificato, immantenente, salito a cavallo, volò a Pozzuolo, dove allora a caso era l’abitazione sua, ed uno splendido letto con guanciali mi mandò, acciocchè, ragguardato il letto, dalle cose di fuori io non paressi di più vile condizione che l’amico mi giudicasse. E non cadde del petto mio con che torti occhi tu ragguardassi quello! ma di questo altrove mi sfogherò.
Venne dipoi il dì che questo tuo così memorabile uomo ed amico delle muse richiamò a Napoli le femmine sue, le quali a Tripergoli molti dì festevoli erano sute; e perchè di tuo officio era, non guattero, non fanticello alcuno vi rimase, che tu, apparecchiate le bestie, perchè il mare era tempestoso, non facessi molte sue cose portare. A che dico io molte cose? tutte le masserizie furono portate via, infino ad uno sedile di legno ed uno orciuolo di terra. Io solo, colla soma de’ libri miei, fui nel lito lasciato insieme col fante mio, senza le cose necessarie al vivere e senza niuno consiglio. Tu sai meglio di me che quivi non era taverna, non amici alle case de’ quali io potessi diporre le cose mie, e pigliare il cammino a piè. Ninna cosa era quivi da vendere, nè utile al vivere, se tu non ve ne porti. Per la qual cosa io fui costretto a fare un lungo digiuno, e, quello che m’era gravissimo, io era quasi un giuoco da ridere ad ognuno, vedendomi andare intorno al lito. Finalmente, poichè due dì gli occhi rivolti pel mare, ed alcuna volta pel cammino di terra, aspettando ebbi affaticati, vennono mandati da te che le mie cosette portarono a Napoli, e nella Sentina del tuo Grande, se io vi fossi voluto tornare. Nè m’uscirà mai di mente, mentrechè io viverò, perchè tra noi mi sia doluto, me, quasi uno vile schiavo esser suto da te lasciato nel seno di Baia, primieramente essere suto chiamato di vetro.
Ma tornando a Napoli, poichè il mio Mainardo al servigio della reina obbligato trovai essere andato a Sant’Ermo, dalla Sentina spaventato, a casa d’uno amico mercatante e povero mi tornai spontaneamente, ciò il tuo Mecenate pazientemente sofferendo; col quale, facendo esso vista di non vedere, cinquanta dì, o più, fui non senza vergogna, cioè insino al mio partire. Ma qui è da fermarsi un pochetto, acciocchè io apra un poco quello ch’io ho scritto, ch’è insino a qui paruto che con mansueto animo abbi passato.
Deh, dimmi: étti paruto la persona mia così vile? Conoscimi tu per sì da poco, per così indegno almeno d’un poco d’onore, che tu debbi avere stimato ch’io sia da esser trattato con sì orribili villanie, con così servili? Donde m’avevi tu ricolto? del loto o della feccia? donde m’avevi tu cavato? dalla prigione de’ servi? donde m’avevi tu tratto? de’ ceppi o dalla puzza della prigionia? donde m’avevi tu sciolto? dalla mangiatoia della maliziosa Circe? che così vilemente, così bruttamente, così al tutto merdosamente, me, ovvero per tua natura ovvero sospinto dal tuo Mecenate, dovessi avere così trattato? Non veramente, ma dalla casa mia, dalla patria mia, da quel luogo nel quale, benchè non reali, almeno alla qualità mia convenevoli vivande abbondevolmente erano date. Donde adunque viene questa negligenza così del tuo Mecenate come tua? questa schifiltà, questo scherno? Aveva io scherniti voi? avevavi io fatti da poco? avevavi io disonestati in lettere o in parole? Non veramente. Io mi penso che il tuo Mecenate si pensasse ch’io fossi uno de’ suoi Greciuoli, che io non avessi altro refugio se non la Sentina sua. Egli è ingannato. Io n’ho molti e onorevoli, dove il suo è vituperevole; e benchè egli sia grande e ricco, non dubito che io non sia molto più onorevole di lui da coloro che ambedue ci conoscono riputato, benchè io sia povero. In uno altro che in me questa sua abbominevole magnificenzia dimostrare doveva, e tu la preeminenza del tuo officio. Ma tempo non sarà tolto a queste cose, se io vivo. Nondimeno, conciossiacosachè le promesse più e più volle fattemi non mi fossono attenute, per non mangiare il pane il quale si doveva dare a mangiare a’ figliuoli del mio oste cortese, e per non essere più straziato dal tuo Mecenate, conciossiacosachè più volte te l’avessi detto dinanzi, con quella temperanza ch’io potei, al tuo Grande domandata licenza, postochè dall’amico mio mi partissi, e partendomi, a Vinegia me ne venni, dove dal mio Silvano lietamente ricevuto fui. Ma tu, al quale il campo della battaglia rimase voto, ti puoi della mia semplicità ridere e del disarmato nimico trionfare; nondimeno, grazie a Dio, tu non mi puoi più oltre fare ingiuria. Io sono in luogo sicuro.
Ma poi al pianto, costrignendomi tu, io ho pianta la mia miseria, a divellere i denti, i quali colla epistola tua nello innocente con tutte le forze se’ ingegnato di ficcare, è da venire. Tu mi di’ uomo di vetro, il che a tutti i mortali, e a te e al Mecenate tuo dovevi dire, perocchè tutti siamo di vetro, e sottoposti ad innumerabili pericoli; per piccola sospinta siamo rotti e torniamo in nulla. Ma tu non avevi questo animo, mentrechè queste cose contra me dicevi; ma con sozza macchia la costanza mia ti sforzi di guastare. Questo non so perchè, conciossiacosachè da te niuna così fatta cosa abbia meritato. Un uomo di vetro, con uno piccolo toccare, purchè contro a suo beneplacito si faccia, si turba e tutto si versa, e infino allo impazzare s’accende, eziandio se giustamente sia ripreso. Ma egli è da vedere s’io dico il vero, al tuo giudicio; se solamente una volta io sia suto sospinto e commosso in ira, Non sostenn’io, benchè con doloroso animo, la fetida ed abbominevole Sentina due mesi, degna d’essere fuggita da’ corbi e dagli avvoltoi? Certo io la sostenni. Non sono io suto straziato ed uccellato con cento vane promesse? non ingannato come un fanciullo con mille bugie? non son’io suto costretto dalle villanie e schifiltà vostre ad abitare l’altrui case? Veramente sono; e nol puoi negare, benchè tu vogli. E benchè queste cose sieno gravissime a sostenere, quando me versare, o rompere, o furioso mi vedesti tu? Io confesso ch’io mi sono rammaricato teco, ma senza romore e senza tumulto, con voce mansueta e quasi con tacito parlare, È questo costume d’uomo di vetro essere sei mesi con taciturnità tirato da tante bugie? Tu aresti forse voluto che io, guidato dallo esemplo tuo, avessi sino al fine della vita sostenuti questi fastidii. Non mi penso però ch’io fossi detto meno di te paziente, acciocchè colla pigrizia mia io rendessi te scusato. Tolga Iddio questa vergogna da uomo usato nelle cose della filosofia, dimestico delle Muse, e conosciuto da uomini chiarissimi, e avuto in pregio, che a modo delle mosche, con aggirar continuo, attorneando vada ora le taverne del macello, ora quelle del vino, cercando le carni corrotte e ’l vino fracido, portando la taglia in mano, i fornai visiti e i farsettai, e le femminelle che vendono i cavoli, per portar esca ai corvi comperati con picciolo pregio. Non è a me cotale animo; non mi mandò ancora così sotto la fortuna, benchè il tuo Mecenate mi v’abbia voluto mandare. Tu mi potesti già udir dire a lui che me non tiravano i pastorali de’ pontefici, non le prepositure del pretorio, dal disiderio delle quali sono tirati molti con vana speranza, e in ciascuno vile servigio sono lungamente ritenuti. Oltre a ciò non è a me, come a molti, sozzo e abbominevole amore, fra gli omeri d’Atlante nel comportare ogni disonesta cosa. A me è desiderio d’onesta vita e d’onore, al quale tolga Dio che per si abbominevole sceleratezza io creda che si vada. Non adunque sono di vetro, se avendo io sostenute alquante cose da non dire, più oltre sofferire non le potei.
Io ti dirò un fatto d’uno meccanico, e nostro cittadino, degno di memoria. Io so che tu conoscesti Bonaccorso scrittore, uomo plebeo per origine e povero, per animo nobile e ricchissimo. Costui chiamato da Ruberto re di Gerusalem e di Sicilia, venne a Napoli, e in quella ora che egli approdò, non trattisi ancora gli sproni nè l’uosa, menato fu nel cospetto del re; e da lui domandato de’ pregi d’alcune cose particolari all’arte sua ragguardanti, non senza indegnazione d’animo modestamente rispose; nè prima dal cospetto del re fu rimosso, che salito a cavallo, per l’orme sue si ritornò; e l’altro dì, essendo cercato, non fu trovato. Ma dopo pochi di, conciofussecosachè a Firenze fosse comparito, domandando quelli che mandato l’aveano, che fosse cagione di sì subita tornata, disse: lui avere stimato sè esser mandato a uno re, non a uno mercatante. E per mandar fuori la indegnazione conceputa per la domanda del re, con brusche parole non temette la singolarità del suo artifizio all’amplissima dignità porre innanzi. E tu me, figliuolo delle Muse, chiami di vetro, il quale sei mesi da uomo di molta minore dignità sono con frasche di fanciullo straziato e avviluppato? Ottimamente per Dio fece Bonaccorso, io vilemente feci lungamente sofferendo.
Dirai ancora, ch’io sia subito quasi ruinoso, e senza consiglio sia venuto a partirmi, e fai te dimentico, affermando te non sapere la cagione d’esso. Duro è fare ricordevole colui che se contro a coscienza fa dimentico. Oltre a tutti, tu solo fosti consapevole d’ogni mio consiglio; a te l’animo mio aprii tutto; a te i segreti del cuor mio manifestai; a te discernei ciò ch’io portava nel petto, e non solo una volta, ma più. E tu ora fingi di non sapere perchè partito mi sia, e chiamimi subito? Ma che è? Io farò ciò che tu vuoi, polche più non posso essere ingannato. In gran parte di sopra la cagione è aperta del mio partire: io non poteva più sofferire i fastidiosi costumi del tuo Mecenate. Se io dirò li tuoi, io non mentirò, nè il disonesto portamento. E acciocchè tu con ragione non mi dichi subito, da cinque mesi in qua il consiglio del mio partire cento volte ho ragionato teco, e a quello sono suto da te consigliato; e acciocchè io più fede dessi a’ detti tuoi, te il simile in breve essere per fare affermavi, dannando tutte quelle cose le quali io dannava, e molte cose le quali per vergogna io taceva tu medesimo adempievi. Colui adunque che così lungamente il consiglio d’alcuna opera ragiona e delibera, venendo finalmente all’atto, debbe essere detto subito, ovvero ruinoso? Nè io il credo, nè tu il credi. E se del mio partire le cose che son dette non pensi assai degna cagione, altre ce ne sono. Aggiugnerolle: le quali a me, taciute, forse sarebbe suto più onesto; e se io non le scrivessi a te, veramente non l’arei dette; tu nondimeno il serba teco.
Temeva i costumi inumani del tuo Mecenate. Se tu non perdesti al tutto colla coscienza la mente, tu il dovresti conoscere; perocchè noi così il collo al giogo sottomettiamo, che il carro al senno del carradore tiriamo; ma esso dalla parte sua, intorno a’ bisogni di coloro che tirano, debbe essere desto: la qual cosa niuno mai meno che questo tuo Mecenate aver fatto o fare è certissimo. Io mi credeva che esso, salendo in alto, il vecchio costume volgesse in meglio; ma, siccome chiaro m’avvidi, in peggio lo ridusse la felicità. Al postutto a lui niuna sollecitudine è o benignità de’ miseri che ’l servono: ed esperto favello. Piova il cielo, caggia gragnuola ovvero neve, scrolli il mondo la rabbia de’ venti, i tuoni spaventino i mortali, i baleni minaccino incendii, e le saette morte; escano i fiumi del ventre loro, assedino i ladroni i cammini, per fatica vengano meno le cavalcature; quante simili cose vuoi orribili occorrano in casa o fuori, non altrimenti era da pietà mosso a’ miseri che ’l servono d’aiuto, di consiglio, di parole o di fatti, che se elli fossono Arabi, o Iudi, o bestie salvatiche. Pure che esso stia bene, pericoli poi chi vuole. Egli pensa, siccome io credo, essere argomento della sua grandezza calcare e dispregiare i minori; e quello che è segnale di più crudele animo sì è, se esso vegga o senta gli amici infermi; non che egli gli aiuti, com’è usanza degli amici, o almeno di parole gli conforti, ma egli non vuole udire i bisogni degli amici deboli: e se e’ si guardasse a lui, senza consiglio di medico, e senza aver sacramenti, nella stalla infermi si morrebbono. Questo inumano costume chi non arebbe in orrore? chi nol temerebbe? È egli niuna sì crudele barbaria, nella quale non sia l’amicizia con alcuna pietà onorata? Indarno gli esempli degli uomini grandi leggiamo, anzi dannosamente, se noi operiamo il contrario. Questo non insegna quel Valerio, al quale il tuo Mecenate spesse volte usò dire che egli è familiarissimo. E’ si dovrebbe ricordare Marco Marcello aver date le lagrime alla infelicità de’ Siracusani, e da queste pigliare, se a’ nimici dagli uomini chiari son date, quali sieno dovute agli amici. E similemenie la laudevole opera d’Alessandro di Macedonia re dovrebbe a memoria rivocare, al quale, vincitore d’Asia, stante la gelida neve, parve agevole discendere della reale sedia, la quale era presso al fuoco, e in quella avere posto colle proprie mani un soldato de’ minori e vecchio, già pel troppo freddo mancante, acciocchè l’agio del fuoco sentisse. Certamente per la clemenza nella fede e nel servigio si solidano gli animi degli amici, ed aumiliansi quelli de’ nimici, dove per la bruschezza e negligenza degli amici si partono.
Oltre a questo sono a lui leggi non so se date da Foroneo, da Licurgo o da Cato, per le quali avviene che se alcuno che con lui muoia ha alcuno avere, non ostante alcun testamento, esso solo erede si fa, schiusi ancora i creditori, se alcuni ne sono; affermando pure che la necessita il richieggia, dovere aver molto dal morto, benchè esso ancora debba dare al sepolto. Oh che paura ebbi io già di queste sue leggi dagli Appii o da’ Catoni Lelii o dagli Ulpiani non conosciute! Ha oltre a questo un costume grave e fastidioso, il quale io, benchè manifestissimo sia a tutti, nondimeno ad un altro non lo scoprirei che teco; e perchè se’ amico, e perchè ogni cosa t’è nota, fedelmente il dirò. In prova spessissime volte egli se ne va nel conclavio; e quivi, acciocchè e’ paia ch’egli abbia molto che fare della gravita del regno, posti, secondo l’usanza reale, portinari all’uscio della camera, a niuno che ’l domandi è conceduta licenza dello entrare. Vengono molti, e alcuna volta de’ maggiori, empiono il cortile dinanzi alla porta, e con bassa voce domandano copia di parlare. Che risposte sieno date dagli ammaestrati portinari è cosa da ridere. A molti dicono: lui avere consiglio con alquanti; ad altri: lui dire il divino officio; ad altri: lui faticato intorno alle cose pubbliche, pigliare un poco di riposo; e simile cose; conciossiacosachè nulla al postutto faccia, se non forse quello che per addietro di Domiziano Cesare (che desiderava quelle medesime cose, che lui, si dicessono), cioè, che collo stile feriva le mosche; ovvero ch’io creda piuttosto (perocchè, benchè io non sia de’ suoi camerieri, e non voglia essere, nondimeno conosco i costumi di camera), che in guardaroba per suo comandamento si ponea una seggiola, e quivi, non altrimenti che nella sedia della sua maestà, vi siede, stando d’intorno le femmine sue, veramente non meretrici, che troppo disonesto parrebbe, nè sirocchie, nè parenti, nè nipoti; e tra gli troppo discordevoli romori del ventre, e il cacciar fuori del puzzolente peso delle budella, gran consigli si tengono, ed i proprii fatti del regno si dispongono, le prefetture si disegnano; a bocca si rende ragione, e alli re del mondo e al sommo pontefice e alli altri amici si dettano e scrivono e correggono lettere, i lusinghieri ed i Greculi insieme colle femmine sue approvanti; credendosi gli sciocchi che aspettano nella corte, che egli, ricevuto nel concistoro degl’Iddii, insieme con loro dello stato universale della repubblica tenga solenne parlamento. O pazienza d’Iddio grande! che dirai quì? Col tedio del lungo aspettare uccide coloro a’ quali poteva con poche parole o colla sua presenza satisfare. Io mi ricordo, spesse volte, e molto più agevolmente, e al sommo pontefice e a Carlo Cesare e a molti principi del mondo avere avuta l’entrata, e copia di parlare essermi conceduta, che appresso costui, per più ore, ponendo giù il peso del ventre, molti nobilissimi uomini, per non dire degli altri, non poterono avere: veramente cosa abbominevole e intollerabile troppo.
E non è dubbio che egli non acquisti l’odio di molti, la grazia de’ quali poteva agevolmente meritare; perocchè, mentrechè che esso crede che, all’usanza antica de’ re di Persia, per furare sè stesso dagli occhi degli amici, ovvero di lui bisognosi, ampliare la maestà del suo nome, guadagna l’indegnazione di molti, la quale di plebei ancora a grandissimi re nocette. E non è cosa di savio credere, con questo suo stomacoso furarsi, ingannare coloro che aspettano. Veggono alcuna volta, ancora de’ minori, con l’occhio del lupo cerviere quello che dentro alle camere di tali, quale esso è, si faccia. Ma finalmente, poichè lungamente ha uccellato coloro che l’addomandano, ed è a sè medesimo tedioso già fatto, aperte le porte, esce in pubblico, colla fronte ripiegata e con grave ciglio, sospirando, con gli occhi levati qua e là guardando. Volgonsi nella faccia di lui uscente fuori gli sventurati; con umili voci di lagrime e di dolore impedite addomandano che a loro sia fatto ragione; ma egli, come occupato in grandissimi pensieri, s’infinge, se ’l fatto non gli piace, non avere udite le cose che dette gli sono; e benchè alcuna volta risponda, con vane promesse ed avvolgimento di parole, e con indugiare schernisce i miseri. A che dico io molte cose? Non altrimenti tratta ciascuno che se dal cielo a lui solo sia superinfuso lo spirito, agli altri de’ bruti animali. Misero me, ch’io non posso rifrenare la penna, ch’ella non mi tiri colà dove io non vorrei essere andato!
Ha costui così posto giù la memoria del suo primo stato, ch’esso non si ricordi quando mercatante venne a Napoli, d’uno fante solamente contento? E non fu questo ad Alba, fondando Ascanio, ovvero Silvio; ancora non è conceduto il trigesimo anno: vivono molti che se ne ricordano, ed io sono uno di quelli. Donde è questa superbia così grande? donde è questa schifiltà intollerabile da ogni uomo? Già non è a lui la schiatta del gran Giove, non le ricchezze di Dario, non le forze d’Ercole, o la prudenza di Salomone: certamente egli è grande, non meno per la sventura de’ suoi maggiori che per suo merito. Pel mancamento de’ buoni uomini spesse volte sono esaltati i cattivi. Ma concedasi che per sua virtù sia venuto colà dove la fortuna l’ha levato, ed aggiugnamoli la preeminenza, se tu vuoi, di ciascuno grandissimo re; debbonsi così fastidiosamente schalcheggiare i minori? Il giuoco della fortuna è volubile. Ella è usata di gittare in terra quelli ch’ella aveva levati in alto, nè in uno medesimo stato sotto il sole lascia alcuna cosa. Non si ricorda questo tuo Mecenate aver letto, Serse re di Persia aver coperta la terra di soldati e ’l mare di navi per far guerra agli Achei, da’ quali rotto, lui, tagliati e cacciati gli eserciti e per pestilenza consumati, il navilio distrutto, in una nave di pescatori presso al mare Ellesponto umilemente pregare i marinari che lo trasportassono di Europa in Asia? e passato solo, avendo alquanto seduto nel lito d’Asia...? Non si ricorda d’aver letto di Policrate di Samia, che volendo non si poteva fare adirata la fortuna, per subita mutazione delle cose nel colle del monte Midalense d’Oriente, prefetto del re Dario, essere in croce confitto, e in essa patire? Non si ricorda d’aver letto, Prussia per addietro re di Bitinia, posta giù la maestà reale, ne’ covaccioli delle fiere, umile e pauroso con un solo servo nascondersi? Ma a che conduco io in mezzo gli antichi esempli, conciossiacosach’egli abbia innanzi agli occhi de’ freschi quasi innumerabili, degli uomini grandissimi il cadere? Il che se questo savissimo pensasse, appena credo che non che i più chiari di sè così in prova schernisse, ma i minori non terrebbe da poco, anzi porrebbe modo alle cose, e lieto, rimossi i supercigli gravi, con piacevole favella visiterebbe ciascuno: la qual cosa, perocch’egli è a sè stesso uscito di mente, schifa di fare. Io, al quale gravissimi sono questi costumi, acciocchè più oltre non fossi del nocevole peso aggravato, partire mi disposi; e a dare alla disposizione opera non indugiai, acciocchè io la ingiuria dello stomaco e la paura dell’animo ponessi giù.
Temetti ancora, e molto temetti, che agli omeri miei non ponesse il peso del suo grandissimo desiderio, cioè di scrivere le gran cose, le quali si crede, o vuole si creda per altri, lui aver fatte. Io m’era già avveduto dinanzi ch’egli il desiderava, e assai m’avvidi per altro non essere chiamato. È in lui, siccome io potei comprendere, cupidità sì grande di nome e di fama lunga, che niuna cosa è maggiore; e postochè ottimamente io sappia per qual via a questo si pervenga, niuna così fatta notizia è a lui; certo e’ si stima per li costumi suoi e per gl’inganni venire in quella, e co’ beni della fortuna, e non con sua operazione pigliare lei. Certamente egli è ingannato. Nondimeno e’ non è sì sciocco ch’e’ non lo conosca: ma e’ vorrebbe uno che con bugie colorate, in quella, scrivendo, lui menasse: la qual cosa arebbe il suo Coridon6 fatta, se e’ vivesse; ma più duro sarebbe a confortare me a scrivere contra la verità cosa alcuna. Di che, perocchè avvedere si potè, penso ch’io gli sia suto men caro, ed in prova, di vane promesse uccellato. Io udi’, e credo che sia vero, essergli dato a credere dal suo Coridone, uomo lusinghiere, il quale egli egli quasi l’oracolo d’Apollo Delfico onorava, con queste opere massimamente potere gli uomini farsi nomi perpetui: coll’arte dell’armi, con fare degli edificii, con la notizia delle lettere; e con tanta forza di parole avere ciò sospinto nel petto suo, che mai da lui questa opinione svegliere si potesse. E non era dannevole; perocchè, se largamente a tutte, o almeno ad una avesse data opera, forse che e’ sarebbe venuto colà dove desiderava. Ma che? e’ fu mortale, purchè vivuto e’ fosse, dicono alcuni, lui a lui credulo arebbe dimostrato con non so che ragioni, che egli è sommo in tutte, e per questo degno di perpetua fama, se i fatti suoi per lettere fossero commendati. Perocchè chi è di sì forte petto che agevolmente non creda quello che e’ desidera? conciossiacosachè, eziandio senza confortatore, molti al suo medesimo giudizio diano fede. Che male è questo che è così intorno a noi medesimi, i quali meglio conoscer dobbiamo? Siamo ingannati tutti. Ma tu dirai: e’ non è così; per estimazione di molti si crede quello che egli di sè pensa. Così veggo che colà si verrà, se così singularmente non esamineremo i meriti di costui, che e’ si creda me avere tenuto l’indebito peso delle sue opere, anzi piuttosto aver dato modo alla pusillanimità.
Che è adunque innanzi all’altre cose? Ovvero pe’ conforti di Coridone, ovvero per sua opinione, egli vuol esser tenuto un egregio duca e capitano di guerra, a questo menando, per grand’argomento, ch’esso sia preposto agli altri del regno di Sicilia; quasi non conosciamo, gli antichi Campagnuoli e Pugliesi essere suti sempre uomini oziosi, ed egli essere in questo soprannome così grande, non di comune consentimento, ma solamente d’uno re giovanetto; e quello, acquistato da lui, non che in fatti d’arme o in guerra fosse il maggiore, ma perchè egli venisse al grandissimo soldo che a’ suoi predecessori era usato dare dal principe, e perchè e’ paresse nobile per soprannome così grande. Ma lasciamo questo, e a quello ch’egli abbia fatto degno di memoria vegnamo. A quante battaglie si trovò egli? quante schiere ordinò egli? quante fuggenti ne sostenne? quanti eserciti de’ nemici sconfisse? quanti n’ha menati prigione? quali rapine, quali prede, quali spoglie, quali segni militari si fece portare innanzi? quali campi de’ nemici prese? quali provincie sottomise? Dicalo egli, dicalo un altro; io niuna ne udi’. Che adunque scriverò? Perchè non temerò io di sottentrare al peso dello scrivere?
Se lui co’ Cincinnati, Curzi, Scipioni, con Epaminonda e con gli altri non mescolerò, invidioso mi diranno. Se non lo mescolerò con Marco Marcello, il quale si trovò in quaranta battaglie, quinci e quindi le bandiere spiegate, o con Giulio Cesare, che si ritrovò in cinquanta, non contando le cittadinesche, anche sarà detto invidia. Se io lo scriverò, mentirò. Non solamente è di bisogno che il capitano sia valoroso, conciossiacosachè grandissimi fatti faccia con astuzia. Concedasi. Venga chi mostri quali città di nemici egli abbia con astuzia prese, quali schiere de’ nemici con aguati egli abbia rinchiuse, quali capitani con inganni; ed io non dubiterò di farlo poi pari a Cato Censorino o ad Annibale Cartaginese. Sarà chi dirà, lui avere spesse volte tolte via grandissime schiere di congiurati nimici. Non lo negherò; ma questo fece con oro, e non col coltello o con sua astuzia, il che è piuttosto officio di paciale che di gagliardo duca. Non a questo modo rimosse Cammillo i superbi Franceschi di Campidoglio, anzi con ferro distrusse i nemici, tolto loro il pattovito e già conceduto oro. Queste cose si sanno più che al suo appetito non consuona. Se egli nol sapesse, i titoli degli officii non fanno gli uomini degni di lode, quantunque sien chiari. Per certo Coridon l’ingannava intorno a’ fatti d’arme, se altro non c’è ch’io non sappia.
Oltre a ciò gli ha il suo Coridone dato a credere, lui essere degno di perpetua loda e gloria, perchè egli abbia fatto un munistero con parecchie mura7. O stoltizia da ridere che è aver pensato questo, non che averlo a lui dato a credere, essendo una piccola frasca! Io mi penso, se bene conosco i costumi di quest’uomo, lui avere con tutta la mente sì i detti di Coridon presi, che non altrimenti si glorii, che se la torre dell’oriental Babilonia, o le piramidi d’Egitto, o il mausoleo d’Alicarnasso abbia edificato. Oimè, ch’io non mi posso tenere che io non abbia compassione allo ingannatore mio, vedendo lui, che inganna gli altri, esser così fanciullescamente ingannato! Tu nondimeno, che continuamente gli se’ innanzi, e se’ fatto partefice di tutti i suoi consigli, togli dagli occhi suoi questa nebbia, acciocchè per innanzi non tolga e non tenga quello de’ poveri, per conferirlo dove non aggiugne, nè aggiugnera dove desidera. Vana opinione e da ridere è cercare con edificii perpetua fama, Forsechè tu aspetti ragioni con le quali questa verità si solva. Se sono gittati in terra, o tranghiottiti dalla terra, perisce con l’edificio la fama dello autore, ed a questi molte cose pongono aguati: i tremuoti, gli aprimenti della terra, le saette, gli ardori del sole, le piove, i ghiacci, le radici degli alberi; e s’è gravità soprapposta, il venir meno la terra di sotto, gli odii degli uomini, e l’avarizia, e la vecchiaia non molto di lungi. A’ quali se le dette cose pure perdonano, e permettono ch’elle pur perseverino in lunghissimo tempo, periscono nondimeno i nomi di coloro che edificano, gli edificii non salvando quelli. Guarda il tempio, siccome si crede, di Venere Baiana; guarda quivi medesimo l’oratorio di Silla, guarda gli edificii per addietro grandissimi e mirabili delle Samia Giunone, di Diana Efesia e d’Apolline Delfico; cerca tra le ruine di quelli, o tra le mura mezze rose, fora i fondamenti, se tu puoi, domanda i sassi in ogni luogo tutti, non di leggiero troverai il nome del principe dell’opera di cotanta spesa. Forsechè tu troverai molti nomi de’ maestri delle mura, perchè tu veggia quanto sempre più vaglia l’ingegno che la pecunia. Stando ancora in piede molti edificii certa niente molto magnifici, nel suo ragguardare rendono testimonio della grandezza dell’animo di colui che edificò; ma i nomi di quelli sono mescolati con alcuna confusione della sdrucciolante memoria, sicchè tu non puoi conoscere chi quelli più che questi abbia edificato. Ecco, presso a Baia del tuo Grande, sono edificii grandissimi e maravigliosi di Gaio Mario, di Giulio Cesare, di Pompeo grande e di più altri molti, e ancora in questa età durano; ma distintamente per cui opera ovvero spesa sieno ritti, niuno giudizio certo ci resta. Ciascuno, come gli piace, eziandio le vecchierelle, compostasi una favola, le fatiche nobili attribuisce a cui gli piace. Questo è quasi il primo morso del fuggente tempo, tirare in dubbio le cose certe, conciossiacosachè dalle cose dubbie in tutta oblivione agevolmente si venga. Se tu vuoi per le cose giovani vedere meglio la ruina delle antiche intorno a così fatte cose, ragguarda le stufe di Diocleziano, la casa d’Antonio in mezzo la citta di Roma, per avarizia come per negligenza de’ cittadini già divorate e peste, e quasi mutati i nomi e distrutti quanto alla gloria de’ componitori. E così, amico ottimo, poichè in tempo periscono tutte le fatiche de’ mortali, questa senza fallo meno intra le nobili consiste; e benchè alquanto perseveri, nondimeno con poca loda persevera di colui che edifica; il che non è nascoso. Se noi vogliamo ragguardare, molti furono già presi dal desiderio di questa gloria, intra’ quali grandissimi, e che più ci spesono, Erode d’Antipatro, per addietro re de’ Giudei, e Nerone Cesare essere stati, dimostrano gli esempli che ancora stanno in piè; i nomi de’ quali, se altri gran fatti non avessono conservato, di nulla memoria sarebbono appresso di noi; e se la fortuna avesse voluto conservarli per quello, non lungamente sarebbono durati; poichè per ogni cagione gli edificii si disfanno, tanto si diminuisce della fama di colui che mura, quanto dell’edificio è tolto via. Stoltissima cosa è adunque d’una povera casetta pensare a perpetua fama potere aggiungere, alla quale di grandissimi e nobili templi e edificii veggiamo nobilissimi uomini e principi del mondo non aver potuto aggiugnere.
Oltre a questo, come tu insieme meco conosci, tanto ardentemente desidera d’essere tenuto litterato e amico delle Muse, che quasi niuna cosa più sollecitamente faccia apparere. Non di certo ch’e’ sia, ma che e’ paia, conciossiacosachè essere si creda. Perocch’io odo che Coridone gli aveva dato a credere, potere avere alcuni, quello che a litterato s’appartiene, eziandio senza grammatica; conciossiacosachè quell’arte sia suta trovata, non per crescer l’ingegno, o per dare all’intelletto notizia delle cose, ma acciocchè, come noi in diverse lingue parliamo, il Tedesco e ’l Francioso possa, mediante la grammatica, intendere quello che scrisse l’Italiano: e che a lui sia copia de’ libri volgari, da’ quali possa le storie e le cagioni delle cose abbondevolmente pigliare: la qual cosa avere avuta lui per fermo è chiaramente manifesto.
A cui non si dà egli agevolmente a credere quello che ardentemente desidera? Di quinci adunque per le già dette cose è manifesto coll’altrui lettere, conciossiacosachè colle sue non così compiutamente abbia fatto, nome perpetuo e fama desideri. E acciocchè e’ paia quello doversi approvare che e’ desidera, lui spesse volte veggiamo intra’ più sommi sedere, e parlare e recitare storiuzze note alle femminelle, e alcuna volta mandare fuori alcune parole che sanno un poco di grammatica; libri palesemente trassinare, e leggere alcuni versicciuoli; tutti ancora libri per ragione o per forza, o per dono o per prezzo o per rapina aggregare, comporre nello scrittoio, o spessissime volte, mentrechè nel parlare si cade nel nome d’alcuno di questi, dire non altrimenti che se tutto l’avesse letto, sè averlo nell’armario; e molte simili cose fare. E certamente egli è laudevole desiderio, e non è dubbio ch’egli non sia da mandare innanzi agli altri che vagliano meno; perocchè quelli che sono valenti nella lettera, ciò che per addietro è fatto hanno nel cospetto. Le leggi della nostra madre natura e l’andamento del cielo conoscono e delle stelle, e sanno il circuito della terra e i liti del mare, e le cose che sono in quelli; e, quello che è molto da commendare, che non solamente fanno chiaro nelle lettere il nome degli altri, ma, scrivendo, nell’eternità levano il loro. Per la qual cosa siccome le stelle il cielo, così i nomi di così fatti uomini fanno chiara la terra.
Vedi con quanta luce risplendono, e con quanta riverenza e ammirazione ancora dagl’ignoranti sieno ricevuti i nomi, benchè nudi sieno, di Museo, d’Orfeo, di Platone, d’Aristotile, d’Omero, di Varrone, di Sallustio, di Tito Livio, di Cicerone, di Seneca e d’altri simili; acciocch’io lasci quelli de’ santi uomini più degni di loda, perocchè è altra operazione. E a volere essere nobilitato di così fatti titoli, con molta fatica si fa quello, perchè si va nelle composizioni, dalle quali altri è nel chiaro lume condotto. Di queste cose niente trovo fatto dal tuo Mecenate: sento nondimeno, a lui essere una ammirabile attitudine nella litteratura, a lui da natura stata conceduta. Ma che pro’ fa avere l’attitudine, e dispregiarla? e avere rivolto in atti molto diversi quello che dovea rivolgere negli studi delle lettere? E che che si dica il suo Coridone, le cose vulgari non possono fare uno uomo letterato; nondimeno dalla pigrizia vulgare possono alquanto separare uno uomo studioso, e in alcuna agevolezza guidare a’ più alti studi, i quali avere levato questo uomo dalla feccia plebeia non negherò: a quelli che sono di fama degni essere condotto, non confesserò; perocchè in nullo santo studio lui mai avere studiato è cosa manifesta.
So nondimeno essere di quelli che vogliono, ed egli non lo sconfessa, lui avere scritte molte lettere volgari, le quali alcuna volta stima di tanto pregio, che quella che ad uno arà mandata, quella medesima a molti in ogni parte manda, acciocchè la eloquenza del petto suo possente, per testimonio di quelle, si manifesti; delle quali molte ne vidi, attendendo piuttosto ad ornato parlare secondo l’usanza sua, che a fruttuoso; per la qual cosa, benchè d’alcuna loda sieno degne, nondimeno non da molto le fo; nè tu. Scrisse ancora a Palermo, siccome dicono alquanti assai degni di fede, in mezzo il tumulto della guerra della quale egli era duca (e nondimeno non era a lui intero esercito, perocchè e’ non aggiungevano a dugento cavalieri, e oltre a questo delle legioni de’ soldati molto era il numero scemato, e quasi a dugento erano tornati i pedoni, e questi erano mercenarii, e che venieno piuttosto in aiuto che di propria schiera), uno volume forse memorabile e degno del verso d’Omero, perocchè spregiato il volgare fiorentino, il quale al tutto tiene da poco e gitta via, trovò uno nuovo mescolato di varie lingue. Scrisse in francesco de’ fatti de’ cavalieri del santo spedito, in quello stile che già per addietro scrissono alcuni della tavola ritonda, nel quale che cose da ridere e al tutto false abbia poste egli il sa. Queste cose, per non dire l’altre, non arò io in orrore di scrivere in sua lode con mio stile? e lui, nimico delle Muse, dirollo io amico? Tolga Dio dalla mia sottile penna questa vergogna, la quale se io temo, tu che se’ uomo litterato maravigliare non ti dei.
E acciocchè l’animo mio non ti sia nascoso, io sono per volgermi in contrario, se egli non apre la prigione alla moltitudine de’ libri, i quali appresso ad alcuni oziosi uomini, i quali non molto lungi da Firenze nobilmente pasce, sotto chiave di diamante ha riposti; quasi per questo molti abbiano girato il mondo, e cercati gli studi di diverse nazioni, le notti senza sonno abbiano guidate, e con ogni affetto abbiano sudato, acciocchè le fatiche loro diventassono esca delle tignuole e della polvere. E non dubito avverrà, se non per la mia fatica, almeno per l’altrui, che colui che crede tenere le Muse prese, fia sospinto nella ruina del disleale oste Pireneo, quelle volantisi via. Molte cose, oltre a queste, potrei aver dette, e me, s’io temetti, avere renduto scusato; perocchè a lui sono molte arti perchè egli meni gli uomini dove e’ vuole: perocchè egli è malizioso e pieno d’inganni. Ma poichè, per divina grazia più che per mio senno, dalle mani sue son venuto sicuro, giudicai lasciare l’altre cose agli altri.
Ma acciocchè di questa parte alcuna cosa rimasa non esaminata (oltra le cose che dal suo Coridone sono sute date a credere al tuo Mecenate) non resti, altro da molti gli è attribuito. Magnanimo il dicono molti; la qual cosa egli con tutti gli orecchi riceve. Gran cose, e quasi avanzanti le forze degli uomini, sono l’opere della magnanimità, forse conosciute da molti, ma osservate da pochi; perocchè la magnanimità è bellezza e glorioso ornamento dell’altre virtù e, come vollono i nostri maggiori, del Magnanimo è con egual viso ed animo sofferire ogni cosa che viene; il che spontaneamente confesso Mecenate tuo alcuna volta aver fatto. Io ho udito, e credolo, lui avere con viso e parole e animo immobile uno giovane figliuolo d’ottima testificanza perduto: e so niuno altro ne’ preteriti anni miei ciò aver fatto, se non Ruberto re: e non sono più degni di eterna memoria che si sia costui, Orazio Pulvillo, ovvero Emilio Paolo, o Anassagora, o altri simili, li nomi de’ quali per quel gran fatto siano immobili, con felice memoria. Questo, per la casa di Polluce, è non solamente degno della penna mia, ma degno d’essere lasciato a quelli che dopo poi verranno, scolpito con lettere d’oro.
Vogliono ancora, il Magnanimo essere non solamente perdonatore delle ingiurie, ma ancora non curarle; il che fu sommamente osservato da Cesare dittatore. Se costui ad alcuno d’animo l’abbia fatto, non l’ho assai di certo; conciossiacosachè alcuni che sanno i suoi segreti, affermino che niuno sarebbe più crudel fiera di lui se li sia data copia della vendetta: e se non li sia data, niuno essere maggiore perdonatore di lui. E oltr’a questo dee il Magnanimo tenere a vili le ricchezze, e con tutte le forze cercare onore. Costui avere a vili le ricchezze non confesso; ma quanto egli desideri tutti gli onori, già assai è suto mostrato; ma egli non se ne fa degno come al Magnanimo si confà. È ancora il Magnanimo spontaneo facitore di doni, non desideroso ricevitore; ma costui in questa parte volge l’ufficio della virtù, conciossiacosachè e’ sia ricevitore spontaneo, e non desideroso donatore. Chi potrebbe annoverare tutte le cose del Magnanimo? conciossiacosachè per le già dette cose, benchè con asciutto piede l’abbia passate, sia chiaramente manifesto lui non esser Magnanimo, ma avere alcuna volta fatto alcuno atto di Magnanimo.
La virtù abituata nell’animo, per la quale meritamente l’uomo è detto Virtuoso, persevera, e non d’uno atto quasi compiuto usa l’ufficio suo. Altri vogliono questo suo essere Magnifico, perchè al nome suo pala rispondere la virtù, perocchè lui chiamate Grande per ragione dell’ufficio; la qual virtù non s’aggiugne a popolaresche spese, perocchè ella è piuttosto de’ grandissimi uomini che d’altri. Adunque, conciossiacosachè intorno alle cose di grande spesa solamente s’intenda, è cosa del Magnifico, come tu sai, saviamente spendere gran cose; e per cagion di bene e con diletto grandissimi conviti spesseggiare, donare grandissimi doni, forestieri grandemente spendendo ricevere, dare retribuzione; edificii da durare lungamente, non cittadineschi, in alto porre, fare ornamenti splendidi, ed altre cose scritte dall’ordine de’ nostri maggiori. Adunque da quale di queste, acciocchè veggiamo se questi è Magnifico, faremo principio?
Risponderanno questi, piuttosto lusinghieri che consapevoli di magnificenza: Egli ha grandissimo numero, come di cavalli. Bene sì cominciano. Ricordansi, lui del servigio d’uno solo già essere contento; e perchè ora ne veggono molti, stimano essere magnifico quello che è necessario. Nondimeno come costoro tenga orrevolmente, e come doviziosamente, io me n’avvidi, e nol tacetti, e tu il sai: e quantunque poco sia quello che nel vivere di costoro si spenda, nè è gran cosa, nè per cagione di bene fatto, anzi piuttosto con dolore e con una strettezza sì fatta, che piuttosto di plebeo che di grande pare la spesa; e se la grandezza dell’ufficio suo nol richiedesse, tostamente sarebbe ridotto in un piccolo numero. Diranno ch’egli celebri grandissimi conviti alli re e a grandissimi uomini; il che negare non si debbe, ch’e’ lo fece alcuna volta, ma non per cagione di bene, anzi di guadagno. Certamente egli se ne sarebbe astenuto, se altrettanto, o più, da questi non s’avesse pensato guadagnare: fecelo per pompa di ventosa gloria, la quale spontaneamente con gran prezzo compera. Di quinci seguita chi dirà: egli dà molti doni, molte limosine a’ poveri, vestimenti a’ buffoni; manda in fino in Francia pe’ tessitori che facessono le veste delle mura distinte d’imagini; fece uno monistero; e simili cose. O stomacoso riso! Se egli avesse fatte queste cose per far bene! ma perocchè altrove tendea la intenzione non conosciuta da ognuno, vischio e reti ed uccellagioni sono da pigliare il vento del popolo in vanagloria, nè si debbono a magnificenza attribuire. Dopo queste cose dicono: ch’egli va nobilmente vestito di porpora, non sapendo che cose di magnifico non sono essere in sè spendereccio. Di ricevere i nobili, i quali a caso colà vengono dove sta questo Grande, non dicono nulla; ma e’ sanno che egli, acciocchè quelli fugga, con colorata fizione in uno piccolo canto della casa reale aversi fatta una casetta, lasciata la Sentina a’ servi.
Dove sono adunque queste cose magnifiche? Vengono da vera, e non da finta virtù? Io voglio che coloro che il magnificano ragguardino qual sia la certa e chiara magnificenza. Ecco che innanzi si fa il grande Alessandro di Macedonia, il quale ha ardire con poca compagnia d’assalire il mondo, e dipoi i sottoposti reami per ragione di guerra immantinente con lieto viso donare. Tito Quinzio Flaminio consolo romano, non di minore animo, uno dì con una sola voce di banditore, alla a sè sottomessa Grecia concedette libertà. A Pompeo Magno parve piccola cosa per forza d’arme acquistare Tigrane, e immantinente con animo magnifico restituire il regno a’ nemici: e così al giovane Tolomeo donare Egitto. E, per non dirne più, queste sono le cose della magnificenza, questi sono certissimi testimoni degli animi grandi. Domando nondimeno che costoro dicano, se elli pongono in cotali cose magnifiche di costui aver trovata la tavola tonda, acciocchè in uno vaso molti mangiassono quello che si suole innanzi a due porre ancora da coloro che cittadinescamente vivono; e dicano, se egli è Magnifico... il che a lui ragionando così sollecitamente rivedere la ragione delle pecunie spese, e con involgimento di parole gli amici, a’ quali egli sia obbligato, tirare in strema povertà. Lascino adunque gli sciocchi il levare in alto colui che non conoscono, e però, a Dio prima, e poi a me rendo grazie che, acciocch’io non avessi queste magnificenze a provare, modo trovai al mio partire.
Assai è detto quello ch’io abbia tenuto, e perchè io mi sia partito; postochè niente ti sia occulto, stando ancora me costà: il che così distesamente ho detto, perchè tu artificiosamente ti mostri dimentico. Ma una cosa non voglio io lasciare, la quale è quasi miracolosa. Mentrech’io era presso a Mecenate, io udi’ certamente lui molte volte dire e affermare con quanta gravità poteva, sè desiderare essere nudo di sue ricchezze tutte, purchè egli traesse la generazione sua dagl’Iddii di Frigia: quasi si pensasse per quella generazione sè, di nulla, dovere acquistare molto più larghe ricchezze, titoli più chiari e fama più lunga. Oh quanto, al giudicio mio, è ingannato! Non sempre, non in ogni luogo si trovano pazzi, e appresso i quali sia gran copia di ladroni e povertà di consiglianti. Ma vegnamo dove è il desiderio. Che nel sangue, che nella schiatta di Troia vede costui di nobiltà più che nel suo, o in altro qual più gli piace? Non abbiamo noi i corpi da uno medesimo padre? non fabbricati da uno medesimo artificio di natura? non composti di quelli medesimi elementi co’ re e co’ lavoraiori, e con quella medesima legge, e passibili e mortali? Non del grembo della divina larghezza abbiamo noi tutti l’anime di libero arbitrio, di ragione e d’eternità dotate, e superinfuse ne’ corpi? Perchè adunque un’altra schiatta che la sua desidera? Che più in questa schiatta che nell’altre conosce costui? Vede costoro nobili, e coloro non nobili essere chiamati, ed i nobili essere avuti da maggior pregio; e però desidera avere ottenuto quello che non gli pare che conceduto gli sia, e, come sciocco, desidera dalle cose di fuori quello che entro sè vuole. Crede ognuno che ha sana mente, e io, da perfetto Creatore l’anime di tutti essere create perfette, e non avere differenza intra sè quando ne’ corpi s’infondono; nondimeno per lo congiugnimento de’ corpi pigliano diversità, la eternità servala. Ma de’ corpi, benchè da uno medesimo martello e da uno medesimo ordine sieno fabbricati, perchè da potenza a molti dal cielo e dalle stelle paiono compiuti, non è una medesima uniformità; perocchè il continuo movimento del cielo, e la varietà del concepere e del nascere li fanno diversificare d’attitudine, d’effigie e di stature; e siccome per organi più larghi o più stretti, o più lunghi o più brevi, e meno o più dirittamente o dalla natura o dall’artifice lavorati, lo spirito che n’esce in voci più acute e più gravi, più dolci e più aspre, ovvero roche e soavi si converte; così dalla varietà de’ corpi prodotti varii appetiti veggiamo e operazioni, benchè l’animo virile ad ogni cosa, benchè malagevolmente, può resistere.
Adunque da queste attitudini de’ corpi prodotti, obbedendo l’anima alla simplicità della prima natura, da quella sì addiviene, che colui che è nato atto a cose di guerra, e in quelle avviluppato, favoreggiandolo la fortuna, sopra il codardo e servente alle cose di villa agevolmente abbia ottenuto l’imperio, e sè abbia detto nobile, e colui servo. E così, per lasciare l’altre cose, è fatta la differenza intra i nobili e i plebei. Ma poichè quelle cose che sono seguitate da queste, per la potenza de’ maggiori meno dirittamente sono servate, avviene che quelli i quali meritamente si possono chiamare nobili, obbediscono a’ vili, i quali per la costituzione del cielo di nobili sono nati; come veggiamo che a’ nobili spesse volte nascono de’ villani.
Perchè adunque cerca costui l’altrui schiatta, spessissimamente, com’io penso, vituperata da vilissimi discendenti? Non gli basta, di qualunque e’ sia nato, con grandigia avere avanzati i suoi maggiori, e aver dato alcun principio di chiarezza dove molti hanno posto fine allo splendore de’ loro passati? Gran cosa è, e la quale è avvenuta a molti. Vorrei nondimeno, poichè egli andar dovea in questa stoltizia, che un’altra schiatta avesse posta innanzi al desiderio suo. Erano i Sergii nati da Sergio compagno d’Enea, erano i Menii nati da Menisteo, erano i Giulii che menano l’origine da esso Enea, i Quinzii i Fabii, i Cornelii, i Claudi e altri, delli splendidi fatti de’ quali sono piene le croniche de’ Romani; conciossiacosachè degl’Iddii di Frigia non mi ricorda aver letto alcuna cosa. Se non vuole forse per gran cosa dire che Gregorio sommo pontefice, così per scienza come per dignità e santità chiaro, di questa schiatta si dica essere stato: assai è. E nondimeno se a questa così grande affezione è tirato, perchè non chiama egli il padre Giove? perchè non il sole? e sarà più nobile che non sono gl’Iddii di Frigia. Così fece già Saturno, il quale conciossiacosachè il padre e la madre fossono chiamati per altri nomi, l’uno volle che fosse chiamato Cielo, e l’altro Terra, acciocchè per così splendidi nomi facesse la sua origine chiara. Mancógli, com’io credo, non il desiderio nè l’ardire, ma chi con versi fermasse la fizione. Misero e abbandonato ed uccellato dagl’inganni del suo Coridone, dal quale, poichè è fatto nobile degli altrui soprannomi, in prima perde il nome proprio, al quale conciofussecosachè alcuna loda si dovesse, è attribuito a’ soprannomi, rimanendo lui vôto. Amiclate, povero pescatore, trovò chi il suo nome facesse eterno; così Codro, così Aglao possessore del povero campicello. Costui, che con tanta fatica desiderava, trovò chi il suo sotto l’ombra degli altri involgesse in perpetue tenebre, quando si pensava in amplissima luce esser levato. Così fa la fortuna, così inganna gli animi degli uomini, quando si pente d’avere alcuno levato in alto. Così m’aiuti Dio, com’egli è da aver compassione a questo tuo! Ma lasciando questo, è da venire più oltre.
Tu mi scrivi ch’io non doveva così subito il partire da Mecenate tuo, anzi la fuga arrappare. Maravigliomi in buona fe’ che tu mi scrivi così, perchè conosci te contra la coscienza tua aver scritto. Credo che tu abbi penna più agevole ad ogni cosa, che non ho io. Volesti piacere al tuo Mecenate; il che forse avere così fatto non è da dannare, poichè se’ al suo servigio obbligato, conciossiacosach’io, per non fare quello, mi sia partito. Ma dimmi? può ragionevolmente essere detto partirsi di subito, e arrappar la fuga, colui che domandata licenza, salutati gli amici, ancora dopo alquanti dì ordinare le sue somette, e quelle mandare innanzi; partire di subito? Coloro che fuggono sono usati non salutare niuno, occupazioni fingere in quel luogo d’onde partire si debbono, con faccia velata e nell’oscura notte entrare in cammino. Ma io non feci così. Più di innanzi dissi il partire mio; se alcuno altro non avessi salutato, te almeno mi ricorda aver salutato, e non di notte e con velata faccia salii a cavallo: già saliva il sole all’ora di terza, quando di pubblico e di luogo usato da’ mercatanti con aperto viso mi partii; e preso il cammino con più compagni trovati conoscenti, e con lento passo infino ad Aversa me n’andai; e quivi fui due dì con un amico, non nascondendomi, ma palesemente; di quindi ripigliando il cammino. E conciofussecosach’io fussi pervenuto a Sulmona, da Barbato nostro uno dì con grandissima letizia della mente mia fui ritenuto, e maravigliosamente onorato. Di quindi partito, dopo il secondo dì uscii del regno. È questo modo de’ fuggitivi?
Ma perchè doveva io fuggire? Aveva io posto innanzi a Tieste, mangiando a mensa, i figliuoli tagliati e cotti? Aveva io nascosamente di notte a’ Greci aperte le porte di Troia? Aveva io nel vaso d’oro porto il veleno ad Alessandro di Macedonia domatore d’Asia? O aveva fatta alcun’altra cosa fuori di regola? Non veramente. Dal sozzo giogo aveva sottratto il collo. Qui che è di male? Volesse Dio che tu conoscessi l’errore tuo, e se altrimenti non ti fusse conceduta, arrapperesti quella. Che animo fosse verso di me al tuo Grande, mi curo poco io, usando la parola di Terenzio: tanto pregio non compro speranza. Se io veggo non avere fatto a coloro a cui egli era tenuto, non debbo credere ch’egli il facesse a me. Siensi sue le ricchezze ch’e’ possiede, sua sia la gloria trovata, ma mia sia la santa libertà. A me è più d’onesta letizia nella mia povera casetta, che a lui non è nella sua casa d’oro. Certo l’avere adirato il Grande confesso non essere senno, ma ben conosco di avere assai acquistato essendo servata la libertà.
Ma tolga Dio che, posta la libertà, io dia opera all’ira sua. Io non ho operato di meritarla. Egli è signore della sua indignazione, e può come gli pare in verso ciascuno a dritto e a torto sfavillare: contro a me a ragione non può; e se a torto il farà, io userò la sentenza di Marco Casenzio, detta da sè a Gneo Carbone consolo. Se al Grande sono molte coltella, e a me certamente sono altrettante e più forse armi. In gran gloria pel sangue mio non entrerà; guardisi piuttosto che non entri in infamia, che spegnere non si possa. Se alcuna cosa ardirà contra di me, se io sarò offeso per dire la verità, tornerà in alto il nome dell’offeso; ma senza fallo se dell’offendente sarà alcuno lume, il rivolgerà in nebbia. Se Dio sarà a me aiutatore, non temerò che mi faccia l’uomo.
Ma a tornare, come tu mi conforti, niuno animo ho, niuno pensiero nè desiderio, quantunque maggiori cose che le prime mi prometta, poichè di questo senno sia: meglio essere sperar quello che è buono, che senza sperare tener quello che non è buono. Due volte da queste promesse ingannato, due volte tirato invano, due volte è suta soperchiata la pazienza mia dalla sconvenevolezza delle cose e da vane promesse, e costretto a partirmi. Posso, s’io voglio, assente ora sperare bene del tuo Mecenate; non voglio venire la terza volta, acciocchè presente non senta male di lui e di me. In buona fè, che se io fossi così volatile che la terza volta chiamato io tornassi, a niuno dubbio sarebbe di me argomento di leggerezza certissimo, e agli altri a’ quali fu grave avere veduto me schernito da te e dal tuo Grande.
E nondimeno, se la necessità mi costringesse non avere alcuno refugio se non al tuo Mecenate? Per la grazia d’Iddio ne sono più, i quali se mancassono tutti, credo che sia miglior consiglio ad uscio ad uscio addomandare il pane, che tornare al tuo Mecenate. Tua adunque e sua sia quella splendidissima sentina colla quale volle che io fussi della sua felicità partefice. Lui non avere creduto ch’io mi sia partito, è bugia; egli il credette, e grazioso li fu. Perocchè come e’ s’addiede che io non voleva scrivere favole per istorie, immantinente a lui odioso fui; e quantunque egli dica che e’ desidera ch’io torni, tu se’ ingannato se il credi. La compagnia e gli onori suoi (i quali quando non mi può dare dice che era per darmi, ma così magnificamente!) conosco ottimamente; e se nol conoscessi, mi giudicherei sciocco. Siensi suoi. Io con grandissimo onore mi penso essere tornato, poichè fatto è che partito mi sia da lui: la qual cosa il nostro Silvano sommamente commenda, e piange la sciocchezza del suo Simonide8. Per la qual cosa, s’io non credessi lui dovere scrivere, sarei proceduto in più lungo parlare.
E per venire quando che sia al fine, io tengo di certo alla breve ma asprissima tua lettera tu non avere aspettata sì lunga risposta; ma perocchè quella non sento dal tuo puro ingegno dettata, perchè io conosco le parole, conosco le malizie e la indegnazione conceputa dell’altrui retà, con la tua prima scritta, ogni concetto della mente mi parve da mandar fuori, il che fare non si poteva in poche lettere. Scrissi adunque, usando la libertà mia, separato dall’altrui potenza; perocchè fanciullesca cosa è toccare il barile delle pecchie, e non aspettare nel viso le punture di tutto lo sciame. Certo per uno piccolo toccare d’uno ardente bronco innumerabili faville si levano. Guardisi, e tu ti guarda che tu non mi commuova in invettive, che tu vedrai ch’io vaglio in quella arte più che tu non pensi. Tu mi lavasti con l’acque fredde; io rasi te non com’io dovea col coltello dentato; ma quello che non è fatto si farà poi, se non starai cheto. Dio ti guardi. In Vinegia. Adì 28 di Giugno, mccclxiii.
Note
- ↑ Lodovico di Taranto, secondo marito della regina Giovanna, morto in Messina nel 1362.
- ↑ Iacopo.
- ↑ I Mss: hanno il messo della vivanda:
- ↑ Casa di piacere del gran siniscalco Acciaiuoli, come si ha da Matteo Palmieri nella di lui vita, a p. 106 (Firenze, 1588.)
- ↑ Il Petrarca.
- ↑ Zanobi da Strada.
- ↑ La Certosa, presso Firenze, grandiosissima fabbrica, è opera della pietosa munificenza di Niccola Acciaiuoli.
- ↑ Il Priore di S Apostolo, a cui è indirizzata la presente epistola.