Lettere volgari/Lettera I
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LETTERA
DI GIOVANNI BOCCACCIO
A M. PINO DE’ ROSSI
Io estimo, messer Pino, che non sia solamente utile, ma necessario l’aspettare tempo debito ad ogni cosa. Chi è sì fuor di sè che non conosca invano darsi conforti alla misera madre, mentre ella davanti da sè il corpo vede del morto figliuolo? E quello medico essere poco savio, che innanzi che il malore sia maturo si affatica di porvi la medicina che il purghi? E via meno quegli che delle biade cerca di prender frutto allora che la materia a producere i fiori è disposta? Le quali cose mentre che meco medesimo ho riguardate, insino a questo dì, siccome da cosa ancora non fruttuosa, di scrivervi mi sono astenuto, avvisando nella novità del vostro infortunio non che a’ miei conforti, ma a quelli di qualunque altro voi aver chiusi gli orecchi dell’intelletto. Ora costringendovi la forza della necessità, chinati gli omeri, disposto credo vi siate a sostenere e ricevere ogni consiglio ed ogni conforto che sostegno vi possa dare alla fatica; perchè, siccome in materia disposta a prender l’aiuto del medicante, parmi che più da stare non sia senza scrivervi; il che non lascerò di fare, quantunque la bassezza del mio stato e la depressa mia condizione tolgano molto di fede e di autorità alle mie parole. Perciò se alcun frutto farà il mio scrivere, sommo piacer mi sarà, dove non lo facesse, tanto sono uso di perdere delle fatiche mie, che l’avere perduta questa mi sarà leggiere.
Soglionsi adunque, siccome a’ più savi pare, nelle novità degli accidenti eziandio le menti degli uomini più forti commuovere. Quantunque voi e forte e savio siate, in sì grand’empito della fortuna, come quello è che quasi in un momento vi giunse addosso, odo che fieramente e doluto e turbato vi siete. In verità io non me ne maraviglio, pensando primieramente che convenuto vi sia lasciare la propria patria, nella quale nato e allevato e cresciuto vi siete, la quale amavate e amate sopra d’ogni altra cosa, per la quale i vostri maggiori e voi, acciocchè salva fosse, non solamente l’avere, ma ancora le persone avete poste. Ma così vi voglio dire, quantunque questo strale, ch’è il primo che l’esilio saetta, sia, e specialmente improvviso, di gravissima pena e noia a sostenere, o a ricevere che dir vogliamo, nondimeno si conviene all’uomo discreto, dopo il piegamento dato da quello, risorgere e rilevarsi, acciocchè standosi in terra non divenga lieta la nimica fortuna d’intera vittoria; e acciocchè questo rilevamento si possa fare, e possa il rilevato consistere, è di necessità di avere gli occhi della mente rivolti alle vere ragioni ed agli esempi, e non alle false opinioni della moltitudine indiscreta, nè al luogo d’onde e nel quale il misero è caduto.
Vogliono ragionevolmente gli antichi filosofi il mondo generalmente a chiunque ci nasce essere una città, perchè in qualunque parte di quello si trova il discreto, nella sua città si ritrova, nè altra variazione è dal partirsi, o dall’esser cacciato da una terra, e andare a stare in un’altra, se non quella ch’è in quelle medesime citta, che noi da sciocca opinione tratti nostre diciamo, da una casa partirsi e andare ad abitare in un’altra. E come i popoli hanno nelle loro particolari città al ben essere di quelle singolari leggi date, così la natura a tutto il mondo le ha date universali. In qualunque parte noi andremo, troveremo l’anno distinto in quattro parti: il sole la mattina levarsi e occultarsi la sera, le stelle ugualmente rilucere in ogni luogo, e in quella maniera gli uomini e gli altri animali generarsi, e nascere in levante come nel ponente si generano e nascono. Nè è alcuna parte ove il fuoco fia freddo, l’acqua di secca complessione, o l’aere grave, o la terra leggiera; e quelle medesime forze hanno in India le arti e gl’ingegni che in Ispagna, ed in quel medesimo pregio sono i laudevoli costumi in austro che in aquilone. Adunque poichè in ogni parte dove che noi ci siamo con eguali leggi siamo dalla natura trattati, e in ogni parte il cielo, il sole e le stelle possiamo vedere, e il beneficio della varietà de’ tempi e degli elementi usare, e adoperare l’arti e l’ingegno siccome nelle case dove nascemmo possiamo, che varietà porremo noi tra queste e quelle dove ci permutiamo? certo niuna. Adunque non giustamente esilio, ma permutazione chiamar dobbiamo quella, che o costretti o volontarii d’una terra in un’altra facciamo. Nè fuori della città nella quale nasciamo riputar ci dobbiamo in alcun modo, se non quando per morte lasciata quella, all’eterna ne andiamo.
Se forse si dicesse, altre usanze essere ne’ luoghi dove l’uomo si permuta, che nelli lasciati, queste non si debbono tra le gravezze annoverare, conciosiacosachè le novità sempre sieno piaciute a’ mortali; e cosa inconveniente sarebbe a concedere che più di valore avesse ne’ piccioli fanciulli l’usanza che il senno negli attempati. Possono i piccioli fanciulli tolti di un luogo e trasportati in un altro, quello per l’usanza far suo, e mettere il naturale in oblio; il che molto maggiormente l’uomo dee saper fare col senno, in tanto quanto il senno dee avere più di vigore, ed ha, che non ha l’usanza, quantunque ella sia seconda natura chiamata. Questo mostrarono già molti, e tutto dì lo dimostrano. I Fenici partiti di Siria n’andarono nell’altra parte del mondo, cioè nell’isole di Gade ad abitare; i Marsiliesi lasciata la loro nobile città in Grecia, ne vennero tra l’alpestri montagne della Gallia, e tra fieri popoli a dimorare; la famiglia Porcia lasciato Tusculano ne venne a divenire romana; chi potrebbe dire quanti già a diletto lasciarono le proprie sedie, e allogaronsi nell’altrui? E se questo può fare il senno per sè medesimo, quanto maggiormente il deve fare chi dall’opportunità è aiutato o sospinto? perchè estimo non di piccolo giovamento, poichè così piace alla fortuna, che voi a voi medesimo facciate credere che non costretto, ma volontario l’esservi d’un luogo permutato in un altro, e che quest’altro sia il vostro, e quello che lasciato avete fosse l’altrui: questo vi agevolerà la noia, dove l’altro l’aggraverebbe.
Direbbesi forse per alcuni, non essere in queste cose quelle qualità ch’io dimostro, e massimamente in questo, che voi nella vostra città eravate potente, e in grandissimo pregio appo i cittadini1, che non sarete così nell’altrui: il che io non concederò di leggieri, perocchè chi è dappoco, se perde lo stato non ha di che dolersi, quello perdendo che non avea meritato, e colui che è da molto dee esser certo che in ogni parte è in grandissimo pregio la virtù. Coriolano fu più caro sbandito a’ Volsci, che a’ Romani cittadino. Alcibiade dagli Ateniesi cacciato divenne principe de’ navali eserciti di Lacedemonia. E Annibale fu troppo più accetto ad Antioco re che a’ suoi Cartaginesi stato non era. E assai nostri cittadini sono già di troppo più splendida fama stati appresso le nazioni strane che appresso noi. E se io quanto credo ben compresi del vostro ingegno, non dubito punto che in qualunque parte dimorerete, non siate in quel pregio che in Firenze eravate, o maggiore. E se pur vogliamo il vostro accidente non permutazione ma esilio chiamare, vi dovete ricordare non esser primo nè solo; e l’aver nelle miserie compagni suole esser grande alleggiamento di quelle; e il vedere o il ricordarsi delle maggiori avversità in altrui, suole o dimenticanza o alleggiamento recare alle sue. E però acciocchè solo non crediate nell’esilio essere dalla fortuna ingiuriato, e abbiate in cui ficcar gli occhi quando la noia dell’esilio vi pugne, estimo non senza frutto il ricordarvene alquanti molto maggiori stati ne’ loro reami, che voi nella vostra città, co’ quali, se alle loro miserie guardate, non cambiereste le vostre.
Cadmo re di Tebe, di quella medesima citta ch’egli aveva edificata cacciato, vecchio morì sbandito appo gl’Illirii. Sarca re de’ Molossi cacciato da Filippo re di Macedonia, in esilio finì la misera sua vecchiezza. Dionisio tiranno, di Siracusa cacciato, in Corinto divenne maestro d’insegnar leggere a’ fanciulli. Siface grandissimo re di Numidia dalla sua più somma altezza vide il suo grand’esercito sconfitto, tagliato e scacciato, e da’ nemici il suo regno occupato, e le città prese; e Sofonisba sua moglie, da lui sopra ogni altra cosa amata, nelle braccia vide di Massinissa suo capitale nemico; e oltre a ciò sè prigione de’ Romani, e carico di catene, non solamente onorare della sua miseria il trionfo di Scipione, ma rallegrare generalmente tutti i Romani, e ultimamente in piccola prigione rinchiuso, sotto l’imperio del crudel prigioniero menare il rimanente della sua vita. Perseo re di Macedonia primieramente sconfitto, e poi privato del regno, e dalla fuga insieme co’ suoi figliuoli ritratto, e dato nelle mani di Paolo Emilio similmente le catene trionfali, e la strettezza della prigione, e la rigidezza de’ prigionieri infino alla morte ontosa provò. Vitellio Cesare sentì la ribellione de’ suoi eserciti, e in sè vide rivolto il Popolo romano, nè gli valse l’essersi inebriato per fuggire senza sentimento le ingiurie della commossa moltitudine, che egli non conoscesse sè prendere e spogliare, e ficcarsi sotto il mento un uncino, e ignudo vituperosamente per lo loto convolgersi, e tirarsi alle scale Gemoniane, dove morendo a stento fu lungamente obbrobrioso spettacolo di coloro, che de’ suoi mali prendevano piacere. Io potrei oltre a questi mettere innanzi le catene d’oro di Dario, la prigione di Olimpiade, la fuga di Nerone, lo stento di Marco Attillo e molti altri, la quantità de’ quali sarebbe tanta e tale, che a scriverla niuna forte mano basterebbe; ma senza dirne più, solamente riguardando a’ contati, non dubito punto che alle loro maestà, alle lor corone e regni le lor miserie aggiugnendo, voi non accambiereste a quelle, che pel vostro esilio ricevute avete. Perchè accorgendovi che la fortuna non v’abbia fatto il peggio ch’ella puote, e che molti de’ maggiori uomini che voi non foste mai stanno troppo peggio che voi non istate, parmi che voi abbiate a ringraziare Dio, e con pazienza quello a sostenere che gli è piaciuto di darvi. Senzachè se alcuno luogo a spirito punto schifo fu noioso a vedere, o ad abitarvi, la nostra città mi pare uno di quelli, se a coloro riguarderemo, e a’ loro costumi, nelle mani de’ quali, per la sciocchezza o malvagità di coloro che l’hanno avuto a fare, le redini del governo della nostra repubblica date sono. Io non biasimerò l’essere a ciò venuti chi da Capalle, quale da Cilicciavole, e quale da Sugame o da Viminiccio, tolti dalla cazzuola o dall’aratro, e sublimati al nostro magistrato maggiore, perciocchè Serrano dal seminar menato al consolato di Roma, ottimamente colle mani use a rompere le dure zolle della terra l’uficio esercitò. Lucio Quinzio Cincinnato sostenne la verga eburnea, ed esercitò il magnifico ufizio della dittatura; e Caio Mario, col padre cresciuto dietro agli eserciti facendo i piuoli a’ quali si legano le tende, soggiogata l’Affrica, incatenato ne menò a Roma Giugurta. E acciocchè io di questi più non racconti, perciocchè non me ne maraviglio, pensando che non simili alle fortune piovano da Dio gli animi ne’ mortali, nè eziandio a quali noi vogliamo, più originali cittadini divenendo quelli, o per avere d’insaziabile avarizia gli animi occupati, o di superbia intollerabile enfiati, o d’ira non convenevole accesi o d’invidia, non l’aver pubblico, ma il proprio procurando, hanno in miseria tirata e tirano in servitù la città, la quale ora diciamo nostra, e della quale, se modo non si muta, ancora ci dorrà esser chiamati. E oltre a ciò vi veggiamo, acciocchè io taccia per meno vergogna di noi i ghiottoni, tavernieri e puttanieri, e gli altri di simile lordura disonesti uomini assai, i quali, quale con continenza gravissima, quale con non dire mai parola, e chi coll’andar grattando i piedi alle dipinture, e molti coll’affannarsi2 e mostrarsi tenerissimi padri e protettori del comun bene, i quali tutti ricercando non si troverà che sappiano annoverare quante dita abbiano nelle mani, come che del rubare, quando fatto lor venga, e del barattare sieno maestri sovrani, essendo buoni uomini reputati dagli ignoranti, al timone di sì gran legno in tanta tempesta faticante son posti. Le parole, l’opere, i modi, e le spiacevolezze di questi cotali, quante e quali elle siano, e come stomachevoli, e udite e vedute e provate l’avete, e però lascerò di narrarle, dolendomi se di avere tante violenze, tante ingiurie, tanta disonestà, tanto fastidio veduto, vi dolete d’esserne stato cacciato. Certo se voi avete quell’animo, che già è gran pezza avete voluto ch’io creda, voi vi doverreste vergognare, e dolere di non esservi di quella già è gran tempo, spontaneamente fuggito. O felice la cecità di Democrito il quale non volendo gli studi ateniesi lasciare, piuttosto elesse in quelli vivere senz’occhi, che vedere insieme i sacri ammaestramenti della filosofia, e gli stomachevoli costumi de’ suoi cittadini! Li quali per non vedere, e il primo Affricano e il Nasica Scipione l’uno a Linterno l’altro a Pergamo in Asia, preso volontario esilio, sè medesimi relegarono. E se il mio piccolo e depresso nome meritasse di essere tra gli eccellenti uomini detti di sopra, e tra molti altri che feciono il somigliante, nomato, io direi per quel medesimo avere Firenze lasciata, e dimorare a Certaldo; aggiugnendovi che dove la mia povertà il patisse, tanto lontano me n’andrei, che come la loro iniquità non veggio, così udirla non potessi giammai.
Ma tempo è omai da procedere alquanto più oltra. Diranno alcuni che perchè in ogni luogo della terra si levi il sole, non in ogni parte i cari amici i parenti i vicini, co’ quali e rallegrarsi nelle prosperità, e nelle avversità condolersi gli uomini sogliono trovarsi. Dico che degli amici è difficil cosa, degli altri è fanciullesca cosa il curarsi. Ma perciocchè molto sono più rade le amistà che molti non credono, non è d’aver discaro avere almeno in tutta la vita dell’uomo uno accidente, per lo quale i veri da’ fittizii si conoscano. Se quel furore che in Oreste venne non fosse venuto, nè egli nè altri per solo suo amico Pilade avria conosciuto. E se la guerra de’ Lapiti non fosse surta a Peritoo, sempre averebbe stimato d’aver molti amici, dove in quella solo Teseo si trovò senza più. Eurialo caduto nelle insidie de’ cavalieri di Turno, innanzi alla sua morte s’accorse quello essergli Niso che nelle prosperità dimostrava. Adunque come il paragone l’oro, così l’avversità dimostra chi è amico. Havvi adunque la fortuna in parte posto, che discernere potete quello che ancora non poteste giammai vedere, chi è amico di voi, e chi era del vostro stato; il che vi dee essere molto più caro, che discaro l’essere da loro separato, considerando che se alcun trovate al presente che vostro amico sia, sapete nel cui seno i vostri consigli e la vostra anima fidar possiate; e dove non ne trovaste, potrete discernere in quanto pericolo per lo passato vivuto siete, in coloro voi medesimo rimettendo che quello che non erano dimostravano. E se forse diceste: io ne trovai alcuno, e da quello mi duole esser diviso, dico questa non esser giusta cagione di dolersi, perciocchè il frutto e ’l bene della verace amistà non dimora nella corporale congiunzione, anzi nell’anima, nella quale l’arbitrio fu di prendere o di lasciare l’amistà; e quantunque il corpo sia dall’amico lontano, o sostenuto o imprigionato, a costei è sempre lecito d’andare e di stare dove le piace. Questa dinanzi da sè di qualunque parte del mondo può convenire chi le aggrada. Chi adunque s’interporrà che voi coll’anima non possiate a’ vostri amici andare, e star con loro e ragionare, e rallegrarvi e dolervi, e farli dinanzi da voi menare alla vostra mente, e quivi dire e udire, domandare e rispondere, consigliare e prender consiglio? Le quali cose senza dubbio vi fieno tanto più graziose in questa forma, che se presenti col corpo fossero; e tanto essi udiranno quanto a voi piacerà di parlare, senza interrompere le parole giammai. Essi quelle ragioni che voi approverete approveranno, e quello risponderanno che voi vorrete. Niuno cruccio niuna oziosa parola potrà mai essere tra voi e loro: tutti presti tutti pronti ad ogni vostro piacere verranno, nè più staranno che a voi aggradi. O dolce e dilettevole compagnia, e molto più che la corporea da volere! E massimamente pensando che come voi con loro, così essi con voi continuamente dimorano, e dolendosi de’ vostri casi con ragioni più utili che forse le mie non sono vi confortano. E oltre a ciò quello assenti adoperano che per avventura voi presente non potreste adoperare. Senzachè, pure alquanto più evidentemente questa presenza addimandate, la natura con onesta arte ci ha dato modo di visitarci, cioè con lettere, le quali in poco inchiostro dimostrano la profondità de’ nostri animi, e la qualità delle cose emergenti ed opportune ne fanno chiara. Perchè se co’ vostri piedi là dove i vostri amici sono andare non potete, fate che le dita vi portino, e in luogo della lingua menate la penna, ed essi a voi il somigliante faranno; e tanto più grate a’ vostri occhi saranno le loro lettere, che non sarebbono le parole agli orecchi, quanto le parole una sola volta udiresti, e le lettere molte potrete rileggere; e così non diviso dagli amici, ma sempre sarete accompagnato.
Sarà, non dubito, chi dirà: forse è possibile a sostenere le gravezze predette, ma l’avere i beni paterni e gli acquistati perduti, de’ quali e a mantenere il cavalleresco onore, e ad allevare la sorgente famiglia si convenia, e il vedersi già vicino alla vecchiezza corpulento e grave, intorniato da moltitudine di figliuoli e di moglie, sono cose da non potere con pazienza portare. O quanto stolta cosa è l’opinione di molti mortali, la quale postergata la ragione, solo al desiderio del concupiscibile appetito va dietro! Utili cose sono le bene adoperate ricchezze, ma molto più l’onesta povertà è portabile, perciocchè ad essa ogni picciola cosa è molto, e alla mal disposta ricchezza niuna, quantunque gran cosa sia, è assai. La povertà è libera ed espedita, e eziandio senza paura nelle solitudini le è lecito di abitare. La ricchezza piena di ben mille sollecitudini, e d’altrettante catene occupata, nelle fortissime rocche teme le insidie; e dove quella con poche cose sodisfa alla natura, questa colla moltitudine la corrompe. La povertà è esercitatrice delle virtù sensitive, e destatrice de’ nostri ingegni, laddove la ricchezza e quelle e quelli addormenta, e in tenebre riduce la chiarezza dello intelletto. Chi dubita che la natura, ottima provveditrice di tutte le cose, non avesse con assai piccola sua fatica sì provveduto a fare con gli uomini nascere le ricchezze, se a lor conosciute le avesse utili, com’ella tutti ignudi ci produce nel mondo, conoscendo la povertà bastevole? L’ambizione degli uomini non temperati trovò le ricchezze, e recolle a luce, avendole siccome superflue nelle profondissime interiora della terra la natura nascose. O inestimabile male! Queste sono quelle per le quali i miseri mortali più che loro non bisogna s’affaticano, per queste s’azzuffano, per queste combattono, per queste la lor fama in eterno vituperano, per queste de’ nostri priori nuovamente sono cominciati a farsi vescovi; nè dubito che, se bene nel passato si fosse guardato, n’avesse molti più mitrati la nostra corte. Queste, oltre a tutto questo, sono quelle che, o perchè perdute o in parte diminuite sieno, intollerabile è la nostra sciagura tenuta; quasi senz’esse nè servare l’onor mondano nè allevare la famiglia si possa. Ingannato è chi così crede. Ampliò la povertà la maestà di Scipione in Linterno, dove il limitar della sua casa povera, come d’un sacro tempio da’ ladroni visitantilo fu reverito e adorato. E similmente la piccola quantità de’ servi menati da Catone in Ispagna, conosciuto il suo valore, il face maggior che lo imperio. Io aggiugnerò a queste, cosa colla quale io con agro morso trafiggerò l’abominevole avarizia de’ Fiorentini, la quale in molti secoli tra sì grande moltitudine di popolo ha tanto adoperato, che magnificamente d’onesta povertà più che di un solo cittadino non si possa parlare. La volontaria povertà d’Aldobrandino d’Ottobuono gl’impetrò e onore pubblico e imperiale sepoltura alla morte. Adunque non i grandi palagi, non l’ampie possessioni, non la porpora, non l’oro, non i vaii fanno l’uomo onorare, ma l’animo di virtù splendido fa eziandio a’ poveri gl’imperatori riverenti. E chi sarà colui sì trascurato che d’essere povero si vergogni, riguardando il Romano imperio aver la povertà avuta per fondamento; recandosi a memoria Quinzio Cincinnato avere lavorata la terra; Marco Annio Curio dagli ambasciatori di Pirro essere stato trovato sopra una rustica panchetta sedere al fuoco, e mangiare in iscodella di legno, e dette parole convenienti alla grandezza dell’animo suo, avere indietro rimandati i tesori di Pirro, e Fabricio Licinio i doni de’ Sanniti? E con questo guardando quanti e quali cittadini questi fossero in Roma tenuti, e in quante e quali cose essi esaltassero il detto imperio, il quale tanto tempo continuamente s’è dilatato, quanto siccome carissimo patrimonio fu da’ cittadini avuta e osservata la povertà; e così come le ricchezze colle lor morbidezze per le private case cominciarono ad entrare, a diminuire cominciò, e come l’avarizia venne crescendo, così quello di male in peggio venendo, nella ruina venne che al presente veggiamo, che è in nome alcuna cosa, e in esistenza niuna. Che adunque a sostenimento dell’onore adoperano le ricchezze, che la povertà non faccia molto più innanzi? quelle niente, questa molto. Le ricchezze dipingono l’uomo, e con i lor colori cuoprono e nascondono non solamente i difetti del corpo, ma ancora quelli dell’anima, che è molto peggio. La povertà nuda e discoperta, cacciata l’ipocrisia sè medesima manifesta, e fa che dagl’intendenti sia la virtù onorata, e non gli ornamenti. E perciò se quello sete che già è buon tempo reputato v’ho, molto maggiore onore vi fia per l’avvenire una grossa cottardita e povera, che i cari drappi e’ vaii non hanno fatto per lo passato.
Conceduto questo, si dirà, l’onore non nutricar la famiglia, non maritar le figliuole, non sostentare delle cose opportune la moglie. Rigida risposta agli odierni costumi, ma vera e utile cade a cotale opposizione. Ne’ primi secoli quando ancora la innocenza abitava nel mondo, le ghiande cacciavano la fame, e i fiumi la sete degli uomini, de’ quali discesi noi siamo: le quali cose come che oggi del tutto si schifino, non cessa ch’elle non possano chiarissima dimostrazione fare, che di piccolissime e poche cose sia la natura contenta. I romani eserciti sotto l’armi, e per sole e per piova, di dì e di notte combattendo o camminando, o i loro campi affossando, niuno altro guernimento per soddisfacimento della natura portavano, che un poco di farina per uno con alquanto lardo, non dubitando di trovare dell’acqua in ogni luogo. Quanto adunque più leggermente si deono potere pascere coloro, che nelle citta disarmati e in quiete dimorano? Tolga Iddio che voi in sì fatta estremità venuto siate, che quello che coloro facevano, colla vostra famiglia si convenga di fare; ma se già quello ch’io dico si fece, ed è possibile di fare, molto maggiormente è secondo la facoltà rimasa, non secondo le mense di Sardanapalo, ma ad esempio di Senocrate la vostra famiglia ordinare. E colui il quale le fiere nelle selve e gli uccelli nell’aria nutrica, prestandovi della sua grazia, eziandio nelle solitudini d’Egitto, non che tra gli amici e parenti, vi parerà modo innanzi di nutricarli. Egli non venne mai meno ad alcuno che in lui sperasse; e chi non crede alla speranza di lui, più che del padre o di alcuno altro, per certo nè lui nè sè nè gli uomini del mondo conosce. E voi dovete esser contento di avere piuttosto stretta e scarsa fortuna in allevare i vostri figliuoli, che molto larga: perciocchè come le delizie ammolliscono co’ corpi gli animi de’ giovani, così i grossi cibi, i duri letti, e i vestimenti rusticani, gli animi naturalmente gentili fanno ad ogni fatica pazienti, raffrenano l’arroganza, e di piacere e di sapere con tutti vivere accendono loro il disio. E se bene si guarderà tra la moltitudine de’ nostri passati, troppi più si troveranno coloro che dagli aspri e rozzi nutricamenti sono in gloriosa fama venuti, che quelli che nelle morbidezze sono stati allevati; infra i quali per certo, se gran forza di naturale disposizione non gli ha sospinti, mai altro che cattivi, pigri superbi e stizzosi non si troveranno essere stati. E chi ciò non crede, riguardi alli re assirii, alli re egiziaci, tra le delicatezze e gli odori arabici effeminati, e loro a petto si ponga Davidde, il quale nella pastura degli armenti la sua puerizia esercitò; e Mitridate, il quale nella sua giovanezza non altrove che ne’ boschi e tra le fiere abitò. Quelli viziosamente vivendo, e in sè stessi rivolgendo le guerre, come allevati erano così effeminatamente morirono; di questi altri, l’uno vincendo le genti vicine si levò in maravigliosa grandezza e ampliò il suo regno, l’altro di ventidue nazioni divenuto signore, oltre a quarant’anni con gravissima guerra faticò i Romani. Di questi esempli è pieno il mondo, e però più porne sarebbe soverchio.
Vivete adunque, e, concedendolo Iddio, con meno grassa fortuna in maggior fortezza trarrete la vostra famiglia. Ora non so io se voi siete nel numero di coloro, che si dolgono più nella vecchiezza alcuna traversia avvenir loro che se nella giovanezza avvenisse; ma perchè già intra il limitare di quella vi veggo entrato, possibile è che quella, siccome male aggiungente all’esilio, o l’esilio a quella, reputiate più grave; il che se così fosse, povero consiglio sarebbe. Chi non sa che la lunghezza e la certezza del tempo allunga o raccorcia la noia? Niuna tribulazione può nella vecchiezza esser lunga, con ciò sia cosa che la vecchiezza medesima lunga non sia. Ella ha pure estremo e ultimo termine, e a quella è vicina la morte la quale ogni mortal gravezza recide e porta via. Oltre a ciò, come il sangue a raffreddar si comincia, così le concupiscenze tutte a mitigar si cominciano; e temperato l’ardore dell’alte cose, dispiacciono senza dubbio meno le minori, le quali suole l’esilio ad altrui recare; ed universal regola è a’ consueti non far passione gli accidenti; e niun vecchio è, salvo se Quinto Metello non si eccettuasse, il quale per varie avversità non abbia già molte volte pianto, molte dolutosi, molte la morte desiderata: nelle quali cose essendo indurato, e callo avendo fatto, con molto meno di fatica le cose traverse vegnenti riceve e porta, che i giovani non farieno, ai quali ogni piccola cosa, siccome nuova, dispiace ed è gravosa.
Adunque poichè venir dovea questa turbazione, pietosamente ha con voi la fortuna operato, essendosi nella vostra vecchiezza indugiata; e perciocchè la vecchiezza per li consigli è reverenda, ne’ quali ella val più che alcun’altra età, la corpulenza ad essa congiunta aggiunge ad essa quella gravità, che forse l’età ancora non avrebbe recata. Voi non avete a correre: sedendovi e riposandovi vede la mente le cose lontane, e con acuta intelligenza, di quelle, secondo l’ordine della ragione, dispone; e l’avere moltitudine di figliuoli in ogni stato è lieta e graziosa cosa; i quali Cornelia madre de’ Gracchi per sua somma ricchezza mostrò alla sua oste capuana. Chi dubita che risorgendo ancora in loro nella debita età lo spirito de’ loro passati, essi, vivendo voi, non vi sieno ancora di grandissima consolazione cagione, e morendo di futura speranza? La natura ancora nelle mani de’ figliuoli pose il coltello vendicatore dell’onte fatte a’ padri, e la gloria degli avoli loro: perchè in luogo di ricreazione e non di peso in tanto affanno li dovete avere. Ma che diremo dell’aver moglie, non solamente vostro rammarico, ma quasi universale di ciascheduno? Affermerò, come che io provato non l’abbia, che dove buona e valorosa donna non sia, essere molto più grave nelle felicità che nelle miserie a tollerare. Perciocchè siccome la malvagia pianta nel terreno grasso subitamente in maravigliosa grandezza si leva, dove più umile nella più magra dimora; così la mal disposta anima, le superbe corna che fuora caccia nella prosperità, dentro ritira nella miseria. Ma se ad essere buona e pudica e valorosa si ritrova, niuna consolazione credo ch’esser possa maggiore allo infelice. Ma che l’uno e l’altro con alcun esemplo apparisca mi piace.
L’abbondanza de’ beni temporali trasse Elena figliuola di Tindaro in tanta lascivia, che con Paride fuggendosi mise Menelao suo marito, e i fratelli e’ pa renti, e tutta Grecia e in Asia importabile fatica, e quasi in eterna distruzione. Questa medesima abbondanza in tanta superbia elevò l’animo di Cleopatra moglie di Setor re d’Egitto, che cacciato il maggior figliuolo del regno, inimichevolmente con armata mano perseguitollo, e l’altro, che per la crudeltà di lei s’era fuggito, rivocatolo, parandogli insidie il provocò ad uccidirsi. E Cleopatra, che fu l’ultima reina d’Egitto, da questa medesima abbondanza lusingata, in tanta cupidità di più ampio regno lasciatasi menare, dopo mille adulterii divenuta moglie di Marco Antonio, e del Romano imperio invaghita, non requiò mai, infino a tanto che lui ebbe sospinto a muover guerra ad Ottaviano: per la quale non solamente non acquistarono quello che desideravano, ma perduto quello che possedevano, a volontaria morte darsi assediati e presi divennero. Io lascerò stare la rabbia di Iezzabella, il furore di Tullia Servilia, la lussuria di Messalina, e gl’insopportabili costumi di mille altre nel grande stato; e così l’intemperata arroganza di Cassandra figliuola di Priamo, di Olimpia madre del grande Alessandro, di Agrippina moglie di Claudio imperatore e di molte altre, per venire a quella parte che più vi può consolazione arrecare. E, siccome già dissi, niuna consolazione credo che sia maggiore che la buona moglie allo infelice, Ipsicratea con chiarissima fede ne testimonia. Costei sommamente Mitridate re di Ponto amando, e lui veggendo in continue guerre, posta giù la femminil morbidezza, e ai cavalli e alle armi ausatasi, tondutasi i capelli e sprezzata la sua bellezza in abito d’uomo sempre il seguitò da niuno affanno vinta, e massimamente quando egli da Pompeo superato fu costretto di fuggire tra barbare e varie nazioni, nella quale avversità troppa più di consolazione porse al marito, che non porsero di speranza le molte genti che ancora a lui erano soggette. E Sulpizia, quantunque molto guardata da Giulia sua madre, di nascoso avendo seguito Lentulo Truscellione suo marito in Sicilia proscritto da’ triumviri, si dee credere con quello amore e fede avergli porto non meno piacere, che noia la proscrizione ricevuta. Io potrei aggiungnere a questi esempi la forte e pietosa opera delle mogli Menie, li carboni di Porcia, la sventurata morte di Giulia di Pompeo con altri molti simiglianti. Ma perciocchè io credo ove il bisogno il richiedesse la vostra mona Giovanna essere un’altra Ipsicratea, o quale altra delle predette volete, senza più dirne, mi pare di poter passare al presente, volendo venire a quella parte la quale al mio giudizio, e per quello ch’io abbia udito, più che niun’altra nel presente esilio vi cuoce.
Erami adunque per alcuno amico stato detto, che ogni gravezza che la presente avversità avesse potuto porgere o porgesse vi sarebbe leggieri a comportare, dove i nostri cittadini, i quali in non aver voluta alcuna vostra scusa, quantunque vera e legittima stata sia, ricevere, ingrati riputate, non vi avessero, considerandolo con titolo così abominevole, cacciato come fatto hanno. Certo io non negherò, e l’una e l’altra delle dette cose essere sopra ad ogni altra gravissima a comportare. La prima, perciocchè quantunque ciascun buon cittadino non solamente le sue cose, ma ancora il suo sangue e la vita per lo bene comune e per l’esaltazione della sua città disponga: ha ancora rispetto, che dove in alcuna cosa gli venisse fallito, perciocchè eziandio i più virtuosi spesse volte peccano, egli per lo suo bene adoperare passato, debba trovare alcuna misericordia e remissione innanzi agli altri, la qual non trovando, gli è molto più grave la pena, che se meritato il beneficio non avesse. E se alcuni cittadini nella nostra città sono che per sua opera o de’ suoi passati grazia meritassero, voi estimo che siate di quelli, perchè non trovandola, siccome veggio che trovata non l’avete, meno mi maraviglio se vi dolete. Ma dove si vegga, solo a’ notabili uomini esser invidia portata, e per quella avere l’ingratitudine quanto di male ha potuto adoperato, estimo che, qualunque colui si sia a cui questo inconveniente avvegna, conoscendo quello che avanti credere non avrebbe potuto, siccome sgannato e certificato del vero, sè al numero de’ valenti uomini aggiugnendo, siccome ogni altra noia, questa ancora dalle fatiche dei passati aiutato dee sostenere. E però quante volte questa spina vi trafiggesse, prego vi riduciate alla mente che Teseo, le cui opere furon maravigliose e degne di perpetua laude, da quelli medesimi Ateniesi i quali egli in qua e in là per Grecia dispersi, aveva nelle loro città rivocati e con utilissime leggi in cittadinesca vita ordinati, fu d’Atene cacciato, e quanto in loro fu, se il generoso animo di lui l’avesse patito, di morire in misera vecchiezza costretto: nè si trovò chi per conoscenza de’ ricevuti meriti l’ossa di lui, che contro loro più non potevano alcuna cosa, da Tiro piccoletta isola, dove sbandito aveva i suoi giorni finiti, facesse ritornar in Atene. Questi medesimi, Solone, il quale con santissime constituzioni gli avea ammaestrati, e le cui leggi ancora gran parte del mondo ragionevolmente governano, costrinsono già vecchio di andare in Cipri sbandito, e là morirsi. Questi medesimi, Milziade, il quale loro dalle catene de’ Persi infinita moltitudine di quelli maravigliosamente vincendo in Maratona aveva tolti, nelle loro catene in oscura prigione fecero morire, nè prima il suo corpo renderono a seppellire, che Cimone in quelle medesime catene, che trar si doveano al morto corpo del padre, si facesse legare. I Lacedemoni a niun altro uomo essendo tanto tenuti, più volte Licurgo giustissimo uomo con le pietre assalirono, e ultimamente di quella città la quale egli aveva con santissime leggi regolata il cacciarono. I Romani soffersero che il liberatore d’Italia, cioè il primo Affricano poveramente morisse in Linterno; e all’Asiatico, che de’ tesori d’Antioco aveva riempiuto l’erario loro, patirono che fossero messe le catene, e tanto in prigione tenuto, che tutto il suo patrimonio venduto e pubblicato fosse. E il secondo Affricano avendo Cartagine e Numanzia superbissime città il romano giogo sprezzanti abbattute, trovò in Roma ucciditore e non vendicatore. Perchè mi fatico io in raccontare di tanti? Tutte le scritture dei passati son piene di questi mali. L’ingratitudine è antichissimo peccato de’ popoli, ed è sì radicata in quelli, che non siccome l’altre cose invecchia ma ogni dì più verde germoglia, e dopo i fiori conduce in grandissima copia i frutti suoi. E però, come altra volta ho detto, quello che a molti si vede essere avvenuto e avvenire, si dee con molto minor noia patire. Appresso questo affermo la seconda cosa avere più di veleno, e massimamente negli anni ne’ quali alto sentimento genera più disdegno; la qual cosa credo che da questo avvenga, cioè, perchè tutti naturalmente con fama desideriamo prolungare il nome nostro, e massimamente coloro i quali dirittamente sentono della brevità della vita presente, e chi di acquistar fama o guardar l’acquistata è negligente, piuttosto e bruto animale e servitor del suo ventre si può chiamare che razionale, e così questa vita trapassano come se dal parto della madre fossero portati al sepolcro. E perciocchè la fama è servatrice delle antiche virtù e predicatrice de’ vizii, senza restare sommamente si guardano i savi di non contaminarla, o di fama trasmutarla in infamia, e con ragione sommamente si turbano se è da altri in alcuna maniera contaminata; e quinci molti a gran pericolo si sono messi per volerla purgare, se forse alcuna nebula in quella fosse da invidia o da falsa opinione stata gittata. Perchè se di ciò vi turbate e vi dolete, che d’alto animo siete, non me ne maraviglio nè riprendere ve ne saprei, ma tuttavia e a questa come all’altre passioni ha la ragione delle cose modo e termine posto. Fatto n’avete, secondo che io intendo, di ciò ch’è opposto alla vostra lealtà, e di che il mobile volgo vi fa nocente, ogni scusa che a voi è possibile; scritto avete non una volta ma molte e a private persone e a’ vostri magistrati, e con quella gravità che per voi s’è potuta la maggiore, ingegnato vi siete di mostrare la vostra innocenza; e oltre a ciò avete la vostra testa offerta dove del fallo appostovi dinanzi a giusto giudice, non ad impetuoso, siate convenuto, assai e molto è; nè dubito, se avessi avuto a fare con uomini ragionevoli come si tengono i Fiorentini, non fossero state le vostre scuse bastevoli ad ogni debita purgazione; perchè in questo credo si possa sentire i giudici essere ostinati, e l’accusato innocente. Direte forse: questo non basta a me: le nazioni circonvicine in un medesimo errore coi cittadini sono, e la generale opinione, quantunque falsa sia, in luogo di verità è avuta, e così avviene che io senza colpa oltre al danno ho la vergogna; il che non so se io mel consenta, ma cotanto in questo di dire mi piace. Niuno meglio di voi sa il vero di quello che si dice, e se innocente vi conoscete, assai basta alla vostra quiete; nè più fa a voi quello che altri di voi si creda, che faccia ad altrui quello che voi meno che giustamente ne crediate. In niuna parte per l’altrui credere si turba la quiete del savio. Assai avete in questo, se con pura coscienza a chiunque ve l’appone potete negare ciò esser vero, e dovete molto più essere contento che in così fatta parte piuttosto falsamente di voi si stimi che se fosse ragionevolmente creduto. Perciocchè per niun’altra cagione Socrate, dell’umana sapienza certissimo tempio, bevendo il veleno, le lagrime di Santippa sua moglie riprese, se non perchè essa in quelle si doleva lui a torto bere il mortal beveraggio, quasi volesse, se a ragione bevuto l’avesse, lei dover dolersene, e per contrario bevendolo a torto, non doversi dolere. Perchè passato questo primo empito, da rivocare è la smarrita virtù, e nel suo luogo con più utile consiglio rimenar la partita quiete, e con l’opere per lo innanzi far sì, che ciascuno che meno che giustamente ha creduto o crede, sè medesimo facendo mentitore se ne penta.
E dove le ragioni predette non vi paressero bastevoli, recatevi almeno a questo; che quello che molti migliori di voi già e’ soffersero non sia vergogna a voi di sofferire. Scipione Affricano, del quale quanto più si parla più resta in sua laude da parlare, e del quale non credo che più giusto nascesse infra i gentili, nè più d’onore e meno di pecunia cupido, acquistata la gloria della recuperata Spagna, e Italia liberata e soggiogata l’Affrica, trovò in Roma chi l’acusò di baratteria: nè furono così alti meriti di tanta potenza, che in quella medesima non fosse chi ricevesse l’accusa, e chi il chiamasse in giudicio, e ancora chi di quella condannare il volesse. Giulio Cesare, le cui opere non solamente l’estremità della terra ma con la fama toccano il cielo, in quella medesima infamia incorse nella quale voi d’essere incorso ora vi gravate. E perciocchè già disse, se per alcuna cosa si dovesse rompere la pubblica fede, per lo regno era da rompere, ancora sono di quelli che il suo splendore s’ingegnano d’offuscare. Ma comechè gl’invidiosi all’altrui gloria si dicano, diremo noi o crederemo Scipione barattiere, o Giulio disleale, veggendo quanto e all’uno e all’altro Dio vero conoscitore degli alti umani di spezial grazia concedesse? Certo no. E nella nostra età sappiamo noi quanti e quali nella nostra citta e altrove, non solamente con pensiero ma con aperta dimostrazione, in rivolgimento degli stati comuni abbiano adoperato, e nondimeno, o che il continuo uso di sì fatte opere, o l’universale desiderio di ciascuno di vedere mutamenti, o la forza di pochi anni roditori di ogni cosa che fatto se l’abbia, cittadini abbiamo poi veduti, e con aperta fronte tra gli altri non solamente procedere ma tenere il principato. E se questo che gli uomini hanno sofferto e sofferano sofferir non volete, quello che Cristo, il quale fu Dio e uomo, sofferse, non vi dovrà in questa parte parer duro a sofferire. E manifestissima cosa è che lui veracissimo maestro, alcuni il chiamarono seduttore, ed altri, essendo egli Figliuolo di Dio, ministro il chiamarono del diavolo, e molti furono che dissero lui esser mago, la sua deità negando del tutto. E se di costui, che era ed è luce che illumina ciascun uomo che nel mondo vive, tanti conviciatori si trovarono, non si dee alcun uomo, quantunque giustamente e santamente viva, maravigliare nè impazientemente portare, se trova chi la sua fama e le sue opere con soprannome ignominioso s’ingegna di violare o di macchiare. Seguitino, come già dissi, l’opere vostre contrarie al cognome, e sforzinsi i maldicenti quanto vogliono: egli non solamente non procederà, ma quello che è proceduto come se stato non fosse in niente si dissolverà di leggieri.
E acciocchè ad alcuna conclusione vengano le mie parole, gli argomenti e’ conforti, dico, che persuadere vi dovete voi essere in casa vostra, poichè universale città di tutti è tutto il mondo; e quante volte le cose opportune alla natura avervi trovate, non povero, ma secondo natura ricco vi stimiate; e la vecchiezza come sperimentata negli affanni e piena di utili consigli avere più che la strabocchevole giovanezza cara, e massimamente in questo caso, senza rammaricarvi della corpulenza, aggiugnitrice a quella di gravità veneranda; e così i figliuoli apparecchiativi per bastone, dove forze mancassero alla vecchiezza: e come compagna di tutte le fatiche la moglie, non superflua o noiosa, ma utile giudicate, contento che l’infortunio vi abbia parimente fatto conoscere i falsi amici da’ veri, e quanta sia l’ingratitudine de’ vostri cittadini, nella quale, non conoscendola e forse troppo sperando, potreste per l’avvenire esser caduto in più abominevole pericolo che questo, e senza curarvi di ciò, che curandovi altro che vergogna non vi può accrescere, cioè del titolo della vostra cacciata, avviso che leggermente lo spegnerete.
Io poteva per avventura assai onestamente far qui fine alle parole; ma l’affezione mi sospinge a dovere ancora con alcuno altro puntello l’animo vostro agramente dicollato armare al suo sostegno, e questo sarà la buona speranza, le cui forze sono tante e tali, che non solamente nelle fatiche sostengono i mortali, ma ad esse volontariamente sottentrare ne gli fanno, siccome noi manifestamente veggiamo. Chi dopo molte fatiche farebbe ai poveri lavoratori gittare il grano nelle terre se questa non fosse? Chi farebbe a’ mercatanti lasciare i cari amici, e’ figliuoli e le proprie cose, e sopra le navi, e per l’alte montagne e per le folte selve non sicure da’ ladroni andare se questa non fosse? Chi farebbe ai re votare i loro tesori, producere ne’ campi sotto l’armi i loro popoli, e mettere in forse le loro maestà se questa non fosse? Costei l’uberifera ricolta, gli ampi guadagni e le gloriose vittorie promette, e ancora debitamente presa concede.
Sperare adunque ne’ grandissimi affanni si vuole, ma non negli uomini, ch’egli è maladetto quell’uomo che ha nell’uomo speranza. In Dio è da sperare: la sua misericordia è infinita, e alle sue grazie non è numero, e la sua potenza è incomparabile, nè si può la sua liberalità comprendere per intelletto: in lui adunque l’anima e la speranza vostra fermate. Sue opere furono, e non senza cagione, come che noi l’apponiamo alla fortuna, che Cammillo essendo in esilio appo gli Ardeati non solamente ribandito fosse, ma da quelli medesimi che cacciato l’aveano fatto dittatore, in Roma trionfando ritornasse: e che Alcibiade lungo trastullo della fortuna stato, non fosse con tante esecrazioni da Atene cacciato, ch’egli in quella poi con troppe più benedizioni e chiamato e ricevuto non fosse; anzi non bastando al giudicio di coloro che cacciato l’avevano il fargli pienamente nella sua tornata gli umani onori, insieme con quelli gli fecero ancora i divini. Esso larghissimo donatore similmente permise che Massinissa cacciato, e a quel punto condotto, che rinchiuso nelle secrete spelonche de’ monti, delle radici d’erbe procacciategli da due servi che rimasi gli erano de’ molti eserciti, non essendo ardito di apparire in parte alcuna, sostentasse la vita sua; nè molto poi con piccola mano di armati venuto a Scipione, e preso e vinto il suo nemico, non solamente lo stato pristino e ’l suo reame ricuperasse, ma gran parte di quello del nemico suo aggiuntovi, tra gli altri grandissimi re del mondo splendidissimo, e in lieta felicità lungamente, e amicissimo de’ Romani, de’ quali nella sua giovinezza era stato nemico, vivesse. Io lascerò stare la divina benignità negli antichi, contento di mostrar quella ch’egli usò in un nostro piccolo cittadino ne’ nostri tempi, il quale se io delle mie lettere degno estimassi io il nominerei, ma è sì recente la cosa, che leggiermente senza nome il conoscerete. Ricordare adunque vi potete essere stato chi, in non più lungo spazio d’undici mesi, essendo con acerbissimo bando della nostra città discacciato, e de’ meno possenti fatto grande, il che in disgrazia, sì siamo ritrosi, ci riputiamo; e oltre a ciò con quelle maledizioni che possono in alcuno gittare le nostre leggi essere aggravato, ed allora ch’egli più lontano si credeva essere a dover provare l’umanità de’ suoi cittadini, di mercatante, non uomo d’arme solamente, ma duca divenuto di armati, con troppo maggior vista che opera meritò di ricevere la cittadinanza, e di nobile plebeo ritornare, e eziandio di salire al nostro maggior magistrato. Che adunque diremo, se non che alcuno, quantunque oppresso sia, mai della grazia di Dio non si dee disperare, ma bene operando sempre a buona speranza appoggiarsi? Niuno è sì discreto e perspicace che conoscer possa i segreti consigli della fortuna, de’ quali quanto colui che è nel colmo della sua ruota puote e dee temere, tanto coloro che nell’infimo sono deono e possono meritamente sperare. Infinita è la divina bontà, e la nostra città più che altra è piena di mutamenti: intanto che per esperienza tutto dì veggiamo verificarsi il verso del nostro poeta:
. . . . . Ch’a mezzo novembre
Non giungne quel che tu d’ottobre fili.
E però reggete con viril forza l’animo dalla contraria fortuna sospinto e abbattuto, e cacciate via il dolore e le lagrime, le quali piuttosto tolgono agli afflitti consiglio, ch’elle non danno aiuto; e quella fortuna che Dio vi apparecchia sperando migliore, pazientemente sofferite. Nè crediate ch’egli stringa più le mani della sua grazia a voi, che abbia fatto a quelli che di sopra ho nominati, o a molti altri. Nè voglio che voi diciate il nostro cittadinesco proverbio, che a confortator non duole il capo: ben so io che dal confortare all’operare è gran differenza, e dove l’uno è molto agevole, l’altro è malagevole sommamente. Ma chi dà quello ch’egli ha, non è tenuto a più. Se io vi potessi in opera aiutare siccome in conforto, forse da rifiutar sarieno se io nol facessi. Ed io non mi posso nascondere a voi, voi sapete ciò che posso. In quello adunque vi sovvengo che conceduto m’è. E dovete ancora sapere che, se de’ conforti non si dessero, molti per tristo animo in miseria verrieno meno.
E perciocchè molte parole ho speso intorno a quello ch’io credo che vi bisogni, secondo il vostro presente stato, anzi che io faccia fine, a mostrarvi qual sia il mio alquante ne intendo di scrivere. Io secondo il mio proponimento del quale vi ragionai sono tornato a Certaldo, e qui ho cominciato, con troppa meno difficoltà che io non estimava di potere, a confortare la mia vita, e cominciaronmi già i grossi panni a piacere e le contadine vivande, e il non vedere le ambizioni e le spiacevolezze e i fastidii de’ nostri cittadini mi è di tanta consolazione nell’animo, che se io potessi fare senza udirne alcuna cosa, credo che il mio riposo crescerebbe assai. In iscambio de’ solleciti avvolgimenti e continui de’ cittadini, veggio campi colli e alberi di verdi fronde e di fiori varii rivestiti, cose semplicemente dalla natura prodotte, dove ne’ cittadini sono tutti atti fittizii: odo cantare gli usignuoli e gli altri uccelli non con minor diletto, che fosse già la noia di udire tutto il dì gl’inganni e le dislealità de’ cittadini nostri; e con i miei libricciuoli, quante volte voglia me ne viene, senza alcuno impaccio posso liberamente ragionare. E acciocchè io in poche parole conchiuda la qualità della mente mia, vi dico, che io mi crederei qui, mortale come io sono, gustare e sentire della eterna felicità, se Dio m’avesse dato fratello o non me lo avesse dato. Credettimi, quand’io presi la penna, scrivervi una lettera convenevole, ed egli m’è venuto scritto presso che un libro. Ma tolga via Dio che di tanta lunghezza mi scusi, sperando che, se altro adoperare non potrà la mia scrittura, almeno questo farà, che quanto tempo in leggerla metterete tanto a’ vostri sospiri ne torrò. A Luca e a Andrea, i quali intendo che costà sono, quella compassione ne porto che ad infortunio d’amico si dee portare: e se io avessi che offerire in mitigazione de’ loro mali fareilo volentieri. Nondimeno, quando vi paia, quelli conforti che a voi dò, quelli medesimi, e massimamente in quelle parti che a loro appartengono, intendo che dati sieno. E senza più dire, prego Iddio che consoli voi e loro.
Note
- ↑ La famiglia de’ Rossi, come resulta dai Prioristi, e dai nostri storici, è stata celebre per le dignità meritate e ottenute. Ebbero consoli in Firenze prima del Priorato. G. Villani racconta che M. Gio. Pino, padre del nostro M. Pino, era alla corte di Clemente XXII in Avignone (il quale morì nel 1333.), ambascialore del comune per grandi cose. I figliuoli di M. Giov. Pino de’ Rossi furono condannati nel 1345 a perdere i beni e le possessioni donate loro. Calcola il Manni (Storia del Decamerone p. i c. 22, p. 78) che messer Pino fosse esiliato circa il 136o, diciassette anni avanti la morte del Boccaccio. Il che si ha meglio da Matteo Villani libro x cap. 25 ove si narra la congiura alla quale prese parte M. Pino.
- ↑ Con l’anfanare.