Lettere (Seneca)/Lettera XI

Lettera XI

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Lucio Anneo Seneca - Lettere (I secolo)
Traduzione dal latino di Annibale Caro (XVI secolo)
Lettera XI
Lettera X


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LETTERA XI

Magnam ex epistola tua percepi voluptatem etc. Ep. lix.


Gran piacere ho preso dalla tua epistola: concedimi ch’io mi serva di questo modo di parlar comune, nè lo tirare a quel senso che lo tirano gli Stoici. Perchè con tutto che noi crediamo, che il piacer sia vizio, e sia anco così, non dimeno il solemo usare per dimostrare un allegro affetto dell’animo. Io non dubito punto che, se noi referiamo il parlare al nostro corpo, il piacere è cosa infame; e che l’allegrezza non può cadere se non nel sapiente. Perchè è una grandezza d’animo, che si confida negli beni, e nelle forze sue; non dimeno vulgarmente si suol dir così: avemo sentito gran piacere del Consolato, delle nozze, e del parto della moglie del tale. Le quali cose però non ne apportan tanta allegrezza, che molte volte non sian principio d’un futuro dolore. E [p. 66 modifica]l’allegrezza vera non manca mai, nè si può convertire nel suo contrario. Laonde dicendo il nostro Virgilio:

E le triste allegrezze de la mente;

parla in vero elegantemente, ma però poco propriamente; perocchè non si ritrova trista allegrezza. È ben il vero che battezzando i piaceri con questo nome, espresse molto ben quel ch’egli aveva in animo, volendo mostrare come gli uomini si rallegrino del loro male. Non è però ch’io senza causa abbia detto d’aver preso gran piacere della tua epistola. Perchè sebbene il rallegrarsi per questa cagione è più tosto da ignorante, che altrimente: non dimeno il debole affetto di questo tale, che subito è per inclinare nel contrario, io lo chiamo piacere sfrenato, e soverchio, causato dall’opinione che ha del falso bene. Ma ritornando a proposito, odi quel che mi sia dilettato nella tua epistola. Tu hai le parole in tuo potere; il parlare non ti leva fuor di proposito, nè ti fa esser più lungo di quel che hai determinato. Molti sono, che tratti dalla bellezza di qualche dolce parola, son trasportati a dir cose, che non aveano proposto di scrivere. Il che a te non avviene, perocchè tutte le cose tue son stringate, e convenienti alla materia, di che tratti. Ragioni quanto vuoi; e sei tanto abbondante di sentimento, che significhi molto più, che non parli. Questi sono indizj di molto maggior cose; perocchè ci mostrano come l’animo tuo non ha punto nè del soverchio, nè del gonfiato. Vi trovo non dimeno certe traslazioni di parole, le quali come non son fuor di [p. 67 modifica]proposito, così non son nè anco men belle, come quelle che hanno già fatto prova di loro. Vi trovo figure, l’uso delle quali se niuno è che lo proibisca a noi, giudicando che sia solamente concesso agli Poeti: questo tale non mi par che abbia letto alcuno degli scrittori antichi, appresso i quali ancor non s’andava uccellando al parlar soave. Quelli, che semplicemente parlavano, solo per dimostrar la cosa, che voleano, vedrai che son pieni di comparazioni: le quali io giudico necessarie non per le cagioni, per le quali le devono usar i poeti, ma per ajutar la debolezza degli nostri ingegni, e perchè con questi mezzi si mostri sì ben la cosa a chi impara, et intende, che gli paja d’averla avanti gli occhi. Ogni volta ch’io leggo Sestio, uomo veramente acuto, e filosofo, di lingua Greco, e di costumi Romano, mi muove oltra modo quella similitudine posta da lui dell’esercito, il quale, quando vi è sospetto da ogni parte de’ nemici, va in ordinanza, et è sempre apparecchiato a combattere. Il medesimo, dice, deve fare il Savio. Distribuisca le sue virtù d’ogn’intorno; e dove sa di poter essere assaltato, et offeso, abbia sempre in ordine gente alla difesa: la qual gente risponda senza tumulto ad un sol cenno del capitano. Il che vedemo che si fa negli eserciti ordinati da grandi Imperatori, che tutto il corpo d’essi sente in un subito l’ordine dato dal capo, per modo che un segno dato da un solo corra subito per tutta la fanteria, e cavalleria insieme. Questo avvertimento dice Sestio esser molto più necessario a noi. Perocchè i [p. 68 modifica]soldati spesse volte temono senza causa, e per il più trovano la strada sicurissima, che aveano per sospettissima. La pazzia loro non ha in se cosa tranquilla; e la paura gli è tanto di sopra, come di sotto; teme dell’uno, e l’altro lato; i pericoli gli vengono dinanzi, e dietro; d’ogni poca cosa si sbigottisce, è sprovvista: e molte volte è spaventata da quelli, che gli vengono in ajuto. Ma il Savio è sempre fortificato, et attento contra tutti gli assalti: nè volterà mai faccia per impeto nè di povertà, nè di pianto, nè d’ignominia, nè di dolore. Intrepido anderà contra di loro, e vi passerà anco per mezzo. Noi molte cose ci tengono legati, molte ci togliono le forze; e per esser lungo tempo giaciuti in questi vizj, il levarsene è difficil cosa: perciocchè non siamo solamente imbrattati, ma anco infetti; per non passar da una figura ad un’altra. Ora io dimando a te quel che molte volte penso fra me medesimo: donde avvenga che noi siamo tanto pertinacemente dati a questa pazzia, che prima non cerchiamo di levarnela d’attorno, e di fare uno sforzo per risanarci; poi che le cose, che da sapienti uomini sono state trovate, non credemo abbastanza, nè ci apriamo il petto per sorbircele tutte; e che così leggiermente insistemo a così gran cosa. E come può uno imparar quanto bisogna per resistere contra gli vizj, non imparando se non in quel tempo ch’egli è lontano da’ vizj? Niun di noi pesca al fondo, pigliamo solamente i principj, et occupandoci in ogn’altra cosa, ci par d’aver fatto assai, avendo speso una piccola [p. 69 modifica]particella di tempo nella filosofia. E sopra tutto, quel che più d’ogn’altra cosa n’impedisce, è che tosto ne compiacemo di noi medesimi: e se troviamo chi ne dica che noi siamo uomini da bene, e prudenti, e santi, ci tenemo, e ci riconoscemo per tali. Non ci contentiamo di mediocre laude. Tutto quello, che da una sfacciata adulazione ci è attribuito, ce lo pigliamo come debitamente datoci; et assecondiamo coloro, che ci predicano per buoni, e per savj, con tutto che certamente sappiamo, che quelli tali dicono molte volte gran bugie: e compiacemo anco di sorte a noi stessi, che vogliamo esser lodati di quello, del quale noi facemo il contrario, et allor che maggiormente il facemo. Quando uno è nel tormentar altri con supplicj, allor è che volentier ascolta d’esser chiamato mansueto: quando ruba, liberalissimo: quando è sepolto nel vino, e nella libidine, temperantissimo. Seguita dunque che la cagione, per la quale non ne curiamo di mutar natura, è perchè ci persuademo d’esser bonissimi. Alessandro, vagando già nell’India, e facendo guerra a genti non ben conosciute nè anco dai finitimi, nell’assedio d’una città, mentre circondando le muraglie andava cercando dove fussero più deboli, ferito da una saetta, e fermatosi alquanto, seguitò quel ch’egli avea cominciato. Ma poichè, stagnato il sangue, cominciò a crescere il dolore dell’asciutta ferita, e la gamba appesa al cavallo a poco a poco s’addormentò, costretto dalla necessità di togliersi dall’impresa, Tutti, disse, giurano ch’io son figliuol di Giove: ma [p. 70 modifica]questa ferita grida apertamente ch’io son uomo. Il medesimo convien che noi facciamo. Quando l’adulazione cerca di far impazzire ciaschedun di noi per la sua parte, diciamo: voi mi dite ch’io son prudente; et io veggo quante cose inutili io desideri, e quante ne brami, che non mi ponno apportar altro, che nocumento: e non conosco ancora che la saturità mostra agli animali quanto si debbia bevere, e mangiare; et io non so quanto mi debbia desiderare. Or io ti voglio insegnare come facilmente ti potrai accorgere di non esser savio. Savio è colui, che pieno d’allegrezza, giocondo, e placido, et intrepido vive eguale agli Dei. Ora esamina te stesso: e se nè mestizia, nè speranza alcuna di cosa, che tu aspetti, ti tormenta l’animo elevato, e che compiace a se medesimo è in questa disposizione egualmente il giorno, come la notte, tu potrai dire d’essere pervenuto alla perfezione del bene umano. Ma se ritroverai in te da ogni banda appetito d’ogni sorte di piaceri; sappi che tu sei tanto lontano dalla saviezza, quanto sei anco dalla vera allegrezza: alla quale so ben che tu desideri di pervenire; ma sei in errore, credendo di potervi arrivare per via delle ricchezze. Tu cerchi d’avere questo contento d’animo tra gli travagli, e tra gli onori di questo mondo? Queste cose, che tu ricerchi, come t’abbino ad arrecare allegrezza, e piacere, son cagioni di dolore. Tutti tirano a questa allegrezza, ma non sanno però donde se la possino conseguire, che sia stabile e grande. Altri pensano d’ottenerla per conviti, e per darsi alla [p. 71 modifica]lussuria: altri per l’ambizione, e per aver d’ogni intorno gran numero di clienti: altri per l’esser ben voluto dalla sua amica: altri per una vana dimostrazione degli studj liberali, e delle lettere, che non apportano rimedio alcuno all’infermità dell’animo. Questi tali tutti son gabbati da fallaci e brevi dilettazioni: non altrimente che l’ebbrezza, la quale ricompensa l’allegra pazzia d’un’ora col fastidio d’un lungo tempo; e come anco il plauso, e il grido favorevole, che con gran fastidio s’acquista, e si purga anco. Tu ti devi dunque immaginare, che l’effetto della saviezza, e la qualità della vera allegrezza sia tale, che faccia divenir l’animo del Savio nello stato, nel quale è il Cielo dal giro della luna in su, dove regna perpetua serenità. Or tu intendi quel che deve spingerti a voler esser sapiente, perchè la saviezza non può essere senza l’allegrezza; e quest’allegrezza non può nascere, se non dalla vera scienza delle virtù. Non può veramente allegrarsi uno, che non sia o forte, o giusto, o temperato. Che dunque? Gli stolti, e gli tristi non s’allegrano: mi dirai. Sì; ma non più di quel che fanno i leoni, quando han fatto preda. Questi tali stracchi dal vino, e dalle libidini, poichè la notte manca loro in mezzo a’ vizj, e poichè i piaceri, ingeriti nel piccolo corpo più di quel ch’egli potea capire, cominciano a impatronirsi di lui, gridando dicono que’ versi di Virgilio:

     Che poi che questa oscura ultima notte
     Tra le false allegrezze avrem passata ec.

[p. 72 modifica]E tu sai molto bene, che non fanno altro, che consumar lascivamente tra false allegrezze tutta la notte, non altrimente che se quella fusse l’ultima. L’allegrezza, ch’è congiunta con gli Dei, e con gli emuli d’essi, non può essere interrotta, nè vien mai meno, che mancherebbe certamente, se avesse altro principio, che non ha. Ma perchè non è dono d’altri, non è nè anco in arbitrio d’altrui. La Fortuna non toglie quel, che non ha dato. Sta sano.