Lettere (Seneca)/Lettera I
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LETTERA I
Consilio tuo accedo etc. Ep. lxviii.
Io concorro nel tuo parere, che tu ti debbi ascondere nell’ozio; ma voglio che tu lo facci anco per modo, che l’ozio resti ascoso. Et ancorchè tu sappi di far questo non per precetto de’ Stoici, ma ad imitazion loro; tu devi anco farlo per precetto, perchè il ritirarti del tutto lo potrai far quando vorrai. Ora ti verrà fatto facilmente, poichè non solemo mandar i tuoi pari in ogni governo, nè d’ogni tempo, nè senza proposito alcuno. Oltre di questo avendo noi assignato al sapiente una Republica degna di lui, che è il Mondo, non si potrà dir ch’ei sia fuor della Republica, ancorchè s’allontani da essa: e forse anco lasciando questo solo angolo, passa a molto maggiori e più ample cose, per le quali salito poi in cielo, conosce apertamente in quanto umil loco sia seduto, mentre egli ascendeva la sedia, o il tribunale. E di più ti dico, che quando il Sapiente con la meditazione s’adduce avanti gli occhi tutte le cose divine, et umane; allora è ch’egli opera più che possa fare. Ora torno a quel che avevo cominciato a persuaderti che tu facci, che il tuo ozio non sia conosciuto. E per ciò fare non accade che tu facci profession di filosofo: io voglio che tu battezzi questo tuo proposito con altro nome; e che tu dichi di ritirarti per infermità, o per stanchezza, o se vuoi anco chiamarla poltroneria. Il gloriarsi dell’ozio, è una pigra ambizione. Certi animali per non esser ritrovati, guastano le lor pedate intorno alla tana. Il medesimo tu devi fare: perchè facendo altrimente, non mancheranno chi ti perseguitino. Molti passano via le cose aperte, e cercano, e mirano per le fessure le serrate et ascose. Le segnate spingono il ladro. Ciò che apparisce par vile: un rompitor di case lascia indietro quelle che sono aperte. Questo è comun costume del popolo, e d’ignoranti che desiderino di penetrar nelle cose secrete. È dunque ben fatto di non far mostra temerariamente del suo ozio; et il modo di vantarsene è lo star troppo ritirato, et allontanarsi dal cospetto degli uomini. Quel tale s’è ascoso in Tarento; quell’altro s’è rinchiuso in Napoli: e quello già molt’anni sono non ha passato la porta della sua casa. Chiunque fa che l’ozio suo dia occasion di parlare con simili favole, non fa altro che raunar la turba. Ritirandoti tu, non hai da aver cura che gli uomini parlino di te; ma sì ben di ragionar con te stesso. E di che devi tu ragionare? Quel che gli uomini volentier fanno degli altri, fa tu di te stesso, e questo è giudicar teco medesimo mal di te. Assuefatti a dire, et a sentir il vero; e rivolgi, e pensa sopra tutto a quello che conoscerai che sia più debole in te. Ciascheduno conosce i vizj e i difetti del suo corpo: e di qui viene che vedemo che molti col vomito alleggeriscono il loro stomaco, altri lo sostentano col cibarlo spesso, et altri col digiuno votano, e purgano il corpo. Quelli che patiscono de’ dolori de’ piedi, s’astengono o dal vino, o dal bagno; e disprezzando ogni altra cosa, cercano solo di rimediare a questo che gli tormentano. Così anco nell’animo nostro sono delle parti inferme, le quali si devono curare. E che faccio io in questo ozio? Io curo la mia piaga. S’io ti mostrassi un piede enfiato, una mano livida, o gli nervi secchi d’una ritirata gamba, tu mi concederesti ch’io mi giacessi in un loco, per rimediare a questa mia infermità. Or molto maggior male è questo che non ti posso mostrare. Io ho nel petto gli umori raunati, e la postema che causa il mio male. Non voglio che tu mi lodi; non voglio che tu dichi: O grand’uomo! che disprezzato ogni cosa, e dannate le pazzie di questa umana vita, se n’è fuggito. Io non ho dannato altro che me; nè accade che tu desideri di venir a trovarmi per far profitto. Ti gabbi se speri di aver ajuto alcuno di qua. Qui non abita medico; ma sì ben infermo. Io voglio piuttosto che partendoti tu dichi: io tenevo quest’uomo beato, et erudito: stavo tutto attento per ascoltarlo; ma alfin mi trovo gabbato, non ho veduto, nè udito cosa che desiderassi, e che mi spinga a ritornarvi. E se giudichi, e se dirai così, si sarà fatto qualche profitto. Io mi contento che tu perdoni a quest’ozio mio, piuttosto che gli porti invidia. Mi dirai: dunque, o Seneca, tu mi lodi l’ozio? Tu cadi ne l’opinion d’Epicuri. Io ti lodo l’ozio, nel quale tu facci molto maggiori, e più belle cose di quelle che tu hai lasciate. L’aver adito nelle superbe case de’ potenti, il tessere il catalogo de’ vecchi barbogi che non han reda, il poter assai nel foro, è un’invidiosa e breve potenza, e sordida anco, se vuoi giudicar il vero. Quel tale è meglio voluto nel foro, quell’altro m’avanza di provisioni nell’arte militare, e di dignità acquistata per questa via, e questi ha maggior moltitudine di clienti. Or ecco di quanta importanza è l’esser superato dagli uomini: io, pur che possa superar la fortuna, agli travagli della quale non son eguale, terrò che mi sia stata concessa maggior grazia. Volesse Iddio che tu già un tempo fa avessi avuto animo di seguir questo proposito; e che potessimo trattar della vita beata in altro tempo, che ora che siamo in faccia alla morte! Con tutto ciò non è nè anco questo tempo da perdere. Perciocchè molte cose ora crederemo all’esperienza, che per innanzi le averemmo tenute fuor di proposito, e contrarie alla ragione. Sproniamo, come quelli che si mettono tardi in viaggio, e vogliono racquistar il tempo colla prestezza. Questa età è molto a proposito a questi studj. Perocchè ella ha già contrastato, già ha stancato almeno, se non ha potuto vincere i vizj nel primo fervor della gioventù: et ora non vi manca troppo ch’ella gli sterpi. E quando, mi dirai, in che cosa ti potrà apportar giovamento alcuno questo che impari ora che sei nel fine? In questa: A farmi uscir di questa vita miglior ch’io non sarei. Or non t’immaginare che altra età sia più atta a formar la mente buona, di quella che s’è domata con molta esperienza, e con lunga et assidua pazienza delle cose; e che, vinti gli affetti, è pervenuta alla cognizione delle cose salutifere. Questo è il breve tempo di questo bene. E chiunque perviene alla saviezza in vecchiezza, può dir d’esservi pervenuto per il mezzo degli anni. Sta sano.