tano, e purgano il corpo. Quelli che patiscono de’ dolori de’ piedi, s’astengono o dal vino, o dal bagno; e disprezzando ogni altra cosa, cercano solo di rimediare a questo che gli tormentano. Così anco nell’animo nostro sono delle parti inferme, le quali si devono curare. E che faccio io in questo ozio? Io curo la mia piaga. S’io ti mostrassi un piede enfiato, una mano livida, o gli nervi secchi d’una ritirata gamba, tu mi concederesti ch’io mi giacessi in un loco, per rimediare a questa mia infermità. Or molto maggior male è questo che non ti posso mostrare. Io ho nel petto gli umori raunati, e la postema che causa il mio male. Non voglio che tu mi lodi; non voglio che tu dichi: O grand’uomo! che disprezzato ogni cosa, e dannate le pazzie di questa umana vita, se n’è fuggito. Io non ho dannato altro che me; nè accade che tu desideri di venir a trovarmi per far profitto. Ti gabbi se speri di aver ajuto alcuno di qua. Qui non abita medico; ma sì ben infermo. Io voglio piuttosto che partendoti tu dichi: io tenevo quest’uomo beato, et erudito: stavo tutto attento per ascoltarlo; ma alfin mi trovo gabbato, non ho veduto, nè udito cosa che desiderassi, e che mi spinga a ritornarvi. E se giudichi, e se dirai così, si sarà fatto qualche profitto. Io mi contento che tu perdoni a quest’ozio mio, piuttosto che gli porti invidia. Mi dirai: dunque, o Seneca, tu mi lodi l’ozio? Tu cadi ne l’opinion d’Epicuri. Io ti lodo l’ozio, nel quale tu facci molto maggiori, e più belle cose di quelle che tu hai