Lettere (Sarpi)/Vol. II/211

CCXI. — A Giacomo Leschassier

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CCXI. — A Giacomo Leschassier
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CCXI. — A Giacomo Leschassier.1


Sono in debito di ringraziarla duplicatamente per aver ricevuto due lettere della S.V.; l’una quindici giorni or fanno, de’ 26 aprile, unitamente ai documenti di appello del Richerio; e l’altra del 9 maggio, insieme col libretto a stampa del medesimo. Ho letto in questo stesso giorno senza difficoltà e con gran piacere i documenti di appello scritti in lingua francese. Io mi stavo all’oscuro, e non sarei riuscito a trovare il bandolo delle cose seguite, se Ella non avesse principiato a decifrarmele col racconto completo del fatto. Or veggo che tutto costà avete fatto con bonissimo discernimento, che anco a noi torna in pubblico vantaggio, essendo come un anticipato possesso di libertà. [p. 316 modifica]

Io credo di averle scritto che la censura dei vescovi non piacque punto a Roma, anzi la riprovarono; e che alla Curia garberebbe piuttosto non si fosse fatto nulla. Perocchè hanno moltissimo a schifo che s’affermi la esistenza per certe chiese di alcune libertà, o di regii diritti che possano resistere al volere, per non dire al capriccio, del papa. Se si pubblicheranno la censura e i documenti d’appello, e sarà conceduto al Richer di provare le sue opinioni con l’autorità dei dottori, nulla potrà avvenire di più opportuno alla manifestazione del vero. Non possono mancar dottori, e d’ogni paese cristiano de’ tempi antichi; e quantunque i Gesuiti riescano a dividere in parti la Sorbona, questo non farà loro buon pro. Dacchè ad essi è mestieri d’aggiramenti e di segrete ritortole per mandare a fine i propri disegni; e le loro dottrine, siccome false, non possono afforzarsi e prosperare se non fra le tenebre.

Parmi difficile a digerire quel ch’Ella mi scrive sulla dimanda del Nunzio, che tutte le cause de’ Gesuiti da cotesto Parlamento vengano devolute al Consiglio del re e affidate alla corte di Roano; e, per ciò che a me spetta, sarei di credere che, per la età minorenne del re, ciò non possa drittamente farsi. Trattasi della dignità del Senato, che fu sempre il fondamento dello Stato francese. Se vedessi anche questa, vivrei in timore che Roma e Toledo venissero a trapiantarsi nel suolo di Francia. Ho grande ansietà di vedere e sapere i fatti ulteriori; e supplico la S.V. di tenermi via via ragguagliato d’ogni cosa che avvenga.

Io non comprendo bene la grande importanza [p. 317 modifica]che costì si annette (secondo che la S.V. m’assicura) all’assenso del procuratore del re; perocchè, se la regina condiscende, temo che il rifiuto del consenso si tragga dietro notevol danno. E più nocerà la ritrattazione, di quello che già non giovasse il permesso. Se verrà mantenuta al signor Richer la propria dignità, tutto alla fine tornerà in vantaggio.

Quello che a voi altri serve d’intoppo, l’arrabbattarsi cioè del Nunzio e de’ Gesuiti, porterebbe invece utilità grandissima alle nostre faccende. Quando noi lavoriamo, essi subitamente si dànno a starsi con le mani a cintola; e allora, ecco che ci mettiamo a dormicchiar noi. Nei passati negozi capirono che nulla valevano a ottenere per via di dispute; però lasciano il campo, e così snervano la nostra forza. La gente proba ora s’ingegna acciò sia sanzionata quella dottrina, da ogni diritto sostenuta, della necessità di una locale pubblicazione delle leggi e de’ precetti, perchè divengano obbligatorie in coscienza. Giacchè i confessori hanno fin qui inculcato, che nessuno può essere scusato dall’obbedire alle pontificie ingiunzioni, quando si sa in qualunque modo che esistano; e questo porta che i preti abbiano poco bisogno di una apposita promulgazione. Ma al difetto rimedia in gran parte la superstizione, in ispecie sotto il pretesto del fôro penitenziale, dove i romaneschi hanno a loro disposizione le orecchie del popolo, e possono insufflare quel che lor garba; mentrecchè i fautori di libertà non possono se non parlare in pubblico, e solo agli obbligati civilmente. Gran segreto è pur questo dello strapotere papale, che la pubblicazione degli atti [p. 318 modifica]avvenuta in Roma gravi la coscienza di tutti quelli a cui vengano per qualsiasi mezzo a notizia.

Non so come Ella dubiti che si possa dare a voi altri per amministratrice la infanta di Spagna. Sicuramente che vi si darà, se non ci mettete riparo; e sì bene apparecchiata per virtù di suggerimenti, aderenze e danaro, che in cambio di farsi essa stessa francese, tramuterà voi stessi in Spagnuoli.

La mia preghiera circa le lettere che inviai al signor Gillot, non aveva la mira importuna d’invitar quell’egregio, distratto da tanti affari e studi, a rispondere; ma di confortar me nella sicurezza che le avesse ricevute.

È giunta qua la novella che fosse morto un nobile di Palermo, devotissimo ai Gesuiti, il quale per testamento instituì eredi l’unico figlio ed essi Padri; commettendone però la esecuzione ai soli Gesuiti, e ordinando ch’essi spartissero la eredità e dessero al figlio una porzione di lor piacere, tenendo il resto per sè. I buoni Padri divisero l’asse in dieci parti, e, riserbate le nove alla Compagnia, ne assegnarono una al figliuolo; il quale ricorse al vicerè duca di Ossuna, lamentandosi di tanta ingiustizia e chiedendo riparazione. Il vicerè, ascoltate le ragioni delle parti, decretò che stesse in piedi la divisione, ma ne fosse invertito l’ordine; rilasciandosi le nove porzioni al figlio e l’una ai Gesuiti.2 Ma in loro pro si farà a Parma la confisca dei beni (eccettuati i [p. 319 modifica]feudi) di sette nobili Parmensi, che congiurarono contro la persona del duca, e perciò furono morti; dal che verrà all’Ordine un grande prosperamento.3

Nient’altro di nuovo qui; tranne che Francesco conte di Castro, regio ambasciatore delle Spagne a Roma, il quale si tratteneva in Napoli per ristorar la salute, ebbe intimazione a un tratto di restituirsi in Roma per assistere ai capitoli dei Francescani e Domenicani, e curar la elezione, per parte d’ambidue gli Ordini, di un generale spagnuolo. Il che penso che avrà certamente effetto. M’accorgo che con queste chiacchiere avrò interrotte più del convenevole le occupazioni della S.V. eccellentissima: onde fo qui fine, baciandole le mani.

Li 5 giugno 1612.




Note

  1. Edita, in latino, tra le Opere ec., pag 105.
  2. È ripetizione un po’ più particolareggiata del fatto narrato anche nella Lettera precedente. Il duca d’Ossuna era, come tutti sanno, un pazzo e un briccone; e se questa volta gli accadde di raddrizzar la giustizia secondo la legge naturale, sarà ciò stato per conciliarsi quella popolarità alla quale, per suoi fini, aspirava. Negli addebiti che furono contro lui presentati alla Corte di Spagna, non è certamente quello di essere stato avverso ai Gesuiti.
  3. Noi non sappiamo le arti che i Gesuiti poterono aver adoperate per conseguir questo intento; ma il debito dell’imparzialità ci obbliga a dichiarare che non ad essi furono dati i beni appartenuti agli infelici che il tiranno avea spenti, ma invece ripartiti in cause varie ed istituzioni di beneficio universale, secondo la formula e le disposizioni di una grida ducale del 20 maggio 1612.