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lettere di fra paolo sarpi. | 317 |
che costì si annette (secondo che la S.V. m’assicura) all’assenso del procuratore del re; perocchè, se la regina condiscende, temo che il rifiuto del consenso si tragga dietro notevol danno. E più nocerà la ritrattazione, di quello che già non giovasse il permesso. Se verrà mantenuta al signor Richer la propria dignità, tutto alla fine tornerà in vantaggio.
Quello che a voi altri serve d’intoppo, l’arrabbattarsi cioè del Nunzio e de’ Gesuiti, porterebbe invece utilità grandissima alle nostre faccende. Quando noi lavoriamo, essi subitamente si dànno a starsi con le mani a cintola; e allora, ecco che ci mettiamo a dormicchiar noi. Nei passati negozi capirono che nulla valevano a ottenere per via di dispute; però lasciano il campo, e così snervano la nostra forza. La gente proba ora s’ingegna acciò sia sanzionata quella dottrina, da ogni diritto sostenuta, della necessità di una locale pubblicazione delle leggi e de’ precetti, perchè divengano obbligatorie in coscienza. Giacchè i confessori hanno fin qui inculcato, che nessuno può essere scusato dall’obbedire alle pontificie ingiunzioni, quando si sa in qualunque modo che esistano; e questo porta che i preti abbiano poco bisogno di una apposita promulgazione. Ma al difetto rimedia in gran parte la superstizione, in ispecie sotto il pretesto del fôro penitenziale, dove i romaneschi hanno a loro disposizione le orecchie del popolo, e possono insufflare quel che lor garba; mentrecchè i fautori di libertà non possono se non parlare in pubblico, e solo agli obbligati civilmente. Gran segreto è pur questo dello strapotere papale, che la pubblicazione degli atti