Lettere (Sarpi)/Vol. II/197

CXCVII. — A Giacomo Gillot

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CXCVII. — A Giacomo Gillot
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CXCVII. — A Giacomo Gillot.1


Il regio ambasciatore, nella sua venuta tra noi, mi rallegrò grandemente col recarmi le graziosissime lettere della E.V., per le quali, saputo lo stato suo, sentii scemarmi l’angustia in che mi trovava per le notizie avute di sua malattia. Subitochè da queste conobbi che ella era pienamente ristabilita, ne resi infinite grazie al Signore Iddio, e me ne rallegrai con la Francia, e con me stesso precipuamente; ed ora, mentre penso alla risposta, mi sopravviene [p. 274 modifica]una seconda consolazione, cioè la sua lettera dei 15 di gennaio. Nulla di più spiacevole poteva, senza dubbio, accadermi che l’interruzione della nostra corrispondenza; pechè, quaatunque disegnassi a tempo e ancora fuor di tempo di ristorarla, tuttavia non m’occorse mai nessun modo col quale io potessi promettermi di ciò fare con sicurezza. Nulla osta che non ci scriviamo le solite lettere e le altre di mera officiosità; ma s’io non posso pienamente trasfondere l’animo mio in quello dell’amico, mi trovo compreso da somma molestia; nè posso indurmi a scrivere quelle cose comuni ed insulse, senza sentir suscitarmisi un sentimento d’odio contro l’umana malignità.

Mi fa meraviglia che siasi costà inferito di lamenti da me fatti pel tradito segreto di alcune mie lettere; perocchè di tal cosa non ho mai parlato con anima viva, nè vi fu mai ragione di farlo. Contuttociò, affinch’Ella non debba prendere una pagliuca per una trave, spiegherò qui la bisogna com’essa ebbe luogo. Quel tale di che ora si tratta, mi diresse pel primo una officiosissima e umanissima lettera: continuò poi a scrivermi con assiduità e, com’io credo, con grande amore e benevolenza verso di me. Lo reputai buono e integerrimo uomo: frequentava, in fatti, dì e notte il palazzo dell’ambasciatore Foscarini, mi mandava le lettere di Lei e quelle del signor Leschassier, ch’io amo, onoro e venero sommamente. Un anno fa mi fu fatto sapere da un nobile ed ottimo personaggio, che colui aveva consegnato certe mie lettere al Nunzio pontificio. Io che non gli avea mai scritto di cose letterarie, ma soltanto le novità correnti nel paese (nè in verun tempo quelle che sono commesse alla mia fede, a cui [p. 275 modifica]per cagione alcuna non saprei mancare), rimasi incerto se con buona intenzione, o per leggerezza, o per qualsivoglia altro motivo, egli avesse ciò fatto: nulladimeno, mi posi in guardia, nè mai più gli scrissi, dopo la mia ultima, quantunque egli poi ciò facesse più volte colla usata cortesia. Sono tuttora in sospeso circa il da credersi su tal proposito; se non che ho certezza che le lettere furono consegnate. Ma, checchè ne sia, non ne temo alcun male, perchè nulla io gli scrissi che non possa dirsi palesemente; se ciò non fosse l’avere scritto ad un uomo di religione non romana: la qual cosa in Roma è tenuta per gran peccato; ma noi siamo qui sciolti da tali pastoie. Chiamo Dio in testimonio, ch’io amo tuttora quell’uomo, e che perciò non venne meno la mia affezione per lui; e vorrei potergli esser utile a scemare il peso delle sue miserie.2 Solamente mi son proposto di non iscrivergli mai più, finchè la cosa non sia messa in chiaro. Non potei, perciò, se non ridere vedendo la lettera scritta di costì all’amico; dove si dice che le mie lettere vennero mandate a Roma, e di là qui rimandate, e che per questo io sono in disgrazia del Principe: delle quali cose le due ultime sono false, nè mi è noto se nè anche la prima sia vera. Se non che di tal cosa ho discorso abbastanza, e troppo a lungo l’ho trattenuta con tali scioccherie; ma l’ho fatto perchè la voce dell’accaduto non la inducesse a credere peggior cose sul conto di quell’uomo; e mi sarà gratissimo, quando le accada [p. 276 modifica]trovare chi abbia di lui concepita una troppo sinistra opinione, se vorrà farsi campione della verità.

Ciò che costì si opera contro i Gesuiti, fa ritratto della libertà, e della ingenuità dei Francesi. In verità, ch’io non posso nascondere, come finchè vivono tra voi, ci sia da temere: quanto più sono essi irritati, tanto più divengono velenosi; ed ecco la ragione per la quale ci sono infesti, e più ci disturbano adesso che son lontani, che non facevano quando erano presenti. Vi saranno addosso più forte che mai; nè il poco numero è da disprezzare, perocchè a questo suppliscono colla diligenza e coll’assiduità. In Roma è gran delitto non ceder loro in ogni cosa, non che soltanto l’offenderli. Ne sia testimonio l’anima dell’abbate Du Bois; la quale non ha dubbio che non fosse disgiunta dal corpo,3 quantunque fosse dei familiari del regio ambasciatore dimorante presso il pontefice. Io non posso farne testimonianza di vista, ma sulla fede del pubblico e di parecchi amici, mi è dato assicurare che a dì 24 di novembre fu appeso un certo uomo che allora tutti dicevano e credevano essere l’abbate Du Bois; e s’egli stesso non fu, nè alcun romano, nè i medesimi sbirri e ministri della Giustizia sanno chi mai sia stato. E qui fo punto, per nulla aggiungere oltre ciò che mi è noto con certezza.

Torno invece ai Gesuiti. Ella m’empì di gioia dicendomi che stava raccogliendo e pubblicando in un solo volume tutto che si è fatto intorno ad essi nel Senato; nè poteva annunziarmi pubblicazione migliore, nè più gradevole nè più degna d’esser letta [p. 277 modifica]da tutti quanti. Ben ciò è chiaro e manifesto a ciascuno: laonde faccia ch’io non sia privo di un tanto piacere. Aspetto anche gli atti del Senato, che V.S. mi aveva promesso e torna a promettermi.

Dei due Concilii pisani di cui mi accenna, credo volersi parlar soltanto di quello che fu celebrato un secolo fa. Del primo, nel quale fu eletto Alessandro V,4 non vidi mai gli atti. Del secondo, una volta soltanto mi accadde di esaminare alcuni frammenti; e stimo che non abbia gran valore, dacchè Massimiliano Cesare lo ripudiò, e il regno di Francia non gli mantenne l’obbedienza, e lo rinnegarono perfino gli stessi cardinali che n’erano stati autori.5 E sebbene la Chiesa non debba governarsi cogli esempi, ma coi canoni e con le ragioni, nè sia prudente il giudicare le cose dal loro esito; tuttavia non so per quale pessima usanza, gli esempi e gli eventi ai ben fatti Concilii ed alle ragioni vengano preferiti. Ma siccome desidero ardentemente che V.S. mi mandi tutte le cose di cui mi parla, così sto in forse circa il modo del mandarle. Per mezzo dei vostri librai le non arrivano qua sicuramente; dirigendo essi le loro merci a Francfort, dal qual luogo è mestieri, che, per venire a noi, passino per Trento; laddove i romaneschi hanno ministri i quali esaminano colla massima diligenza i libri indirizzati a Venezia, ed [p. 278 modifica]esercitano il loro ufficio più sicuramente che nella stessa città di Roma. Laddove quello ch’io aspetto non sia voluminoso, meglio sarà il mandarmelo per la via di Torino, se non compiuto, almeno in più volte; o se sarà diretto a Francfort, gioverà non ai librai, ma bensì consegnarlo a mercanti. Se la S.V. vuole onorarmi di questo picciol dono letterario, io le darò il nome del mercaute di Francfort, al quale dovrebb’essere consegnato il fascicolo da spedirsi.

Perchè colpito da una cotal leggiera debolezza della mano, per meno affaticarla, e per risparmiare a Lei la molestia di legger caratteri troppo confusi, mi sono valso dell’altra ch’Ella vedrà. Resta che voglia perdonarmi questa prolissa e inetta lettera, e che secondo l’usato continui ad amare il suo sincero estimatore. Stia sana.

Di Venezia, li 14 febbraio 1612.

Se le piacerà di mandarmi qualche cosa pe’ librai di Parigi che nella prossima quaresima andranno a Francfort, mi sarà recapitato semprechè ne sia fatta consegna in detta città a Geremia Boudewin, colla direzione a Carlo Baldassari, della cui mano è l’appuntino qui accluso.




Note

  1. Stampata, in latino, come sopra, pag. 17.
  2. I lettori resteranno, insieme con noi, maravigliati nel leggere il nome di quest’uomo, oppresso dalle miserie e sospetto di aver tradito i doveri dell’amicizia, nella Lettera seguente.
  3. Vedi la nostra nota a pag. 272.
  4. Nel 1409.
  5. Parlasi del famoso Concilio di Pisa, celebrato, ad istanza del re di Francia, nei tempi in cui la repubblica fiorentina era governata dal Soderini. Il Machiavelli, poco zelante dell’ortodossia e poco ancora sollecito delle riforme (cioè delle ecclesiastiche), ne parla sempre come di una grande imprudenza, che avrebbe attirato, siccome avvenne, calamità novelle sull’Italia e sulla sua patria medesima.